Breccia nell’incubo di un cieco
Il Sole 24 Ore, 19 giugno 1994
Parlare di Alberto Breccia richiede il rispetto e la consapevolezza che si devono a coloro che nel proprio campo sono stati i migliori, soprattutto quando la loro scomparsa è ancora abbastanza recente da continuare a essere sentita come una mancanza. Disegnatore argentino, nato nel 1919, protagonista del fumetto del suo paese prima, e in seguito amato, invitato e pubblicato in tutto il mondo.
Quando in Europa, intorno agli anni Settanta, prima in Francia poi in Italia, in Spagna e altrove, i giovani autori di fumetti hanno rivendicato la culturalità e l’artisticità di quello che facevano, creando e distruggendo avanguardie, il nome di Breccia era sulle labbra di tutti. Lui era stato il primo in questo, lo sperimentatore accanito, l’innovatore, l’autore che non sembrava saper trovare quiete in nessuno stile, in nessun modo consueto di fare fumetto. Tutte le strade che venivano provate, o tutte le strade che sembravano degne di prosecuzione dopo i primi tentativi, sembravano dovergli qualcosa. Breccia era già passato di lì, o almeno abbastanza vicino da lasciare il segno.
Già quando, ancora negli anni Cinquanta, i suoi fumetti avevano un’aria più tradizionale, la differenza con gli altri autori era facile da cogliere. Si vedeva nella tecnica del pennino e del pennello, nei tagli di inquadratura, spaziali e temporali, nella capacità di costruire il mistero con una grande semplicità narrativa. Poi, quando negli anni Sessanta Breccia creò Mort Cinder, la sua tecnica divenne complessa, caotica, difficile da descrivere: macchie di china, biacca, pennino, pennello, tampone, persino lamette da barba utilizzate per ottenere particolari effetti visivi _ cose che si conoscono a volte solo perché lui stesso ha raccontato come lavorava. In seguito i suoi esperimenti furono ancora più innovativi, senza che mai, nella sua storia d’autore, si sia percepita la tentazione di stringere l’occhio alla pittura e alle arti più fortunate nel favore del pubblico. Quella di Breccia è stata insomma una ricerca del tutto all’interno del linguaggio del fumetto, tanto più difficile quanto poco apprezzata dall’establishment culturale.
L’ultima opera di Breccia è una traduzione a fumetti di un racconto di Enesto Sábato, Rapporto sui ciechi, una storia visionaria e atroce, con un solo personaggio prigioniero del proprio incubo. Le figure disegnate da Breccia sono le figure del disfacimento di una coscienza e di una mente, le figure del delirio, ottenute con le tecniche del collage e della china diluita, in un bianco e nero lento e difficile da decifrare.
Per chi l’ha conosciuto, la lucidità dell’autore fa uno strano contrasto con il suo amore per le aberrazioni mentali e per gli stati deliranti della coscienza. Segno forse che tra il genio e la follia qualche parentela esiste, ma nel genio vi sono tante altre cose, che di Breccia continueremo a ricordare.
(Alberto Breccia, Ernesto Sábato, “Rapporto sui ciechi”, R&R Editrice, Azzano di Spoleto 1994, pagg. 64, L. 20.000.)
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