Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Stavolta ritorniamo agli inizi, non solo perché Winsor McCay è stato un autore straordinario, ma perché la tavola qui a fianco (24 febbraio 1907) ci permette di fare alcune riflessioni sul rapporto tra pagina e racconto, o – se preferite – tra dimensione tabulare e dimensione sequenziale.
Quando uscì stampata per la prima volta, questa pagina era molto più grande di questa riproduzione, ma il tipo di esperienza vissuta del lettore non deve essere stata molto diversa da quella appena vissuta da voi (e sulla differenza torneremo tra poco). Quando siete entrati in questa doppia pagina, il vostro sguardo è certamente corso sulla grande immagine complessiva della pagina di destra, e l’ha colta nel suo insieme. Solo in un secondo momento – ammesso che l’abbiate già fatto – avete esplorato sequenzialmente le singole vignette, leggendo i testi, e cogliendo nel dettaglio la storia. Oppure (e comunque in un secondo momento) avete scorso la sequenza senza leggere i testi, e avete in ogni caso colto qualcosa della sequenza narrativa: l’arrivo al palazzo di Jack Frost, la preparazione, l’ingresso al grandioso interno (e il risveglio, come sempre in una vignetta piuttosto separata, alla fine, poco influente sull’effetto d’insieme).
Questa pagina è stata progettata da McCay per questo percorso visivo: deve prima colpire nel suo insieme, in modo che l’effetto prodotto dalla visione complessiva influisca sul modo in cui poi leggerete i dettagli. Se scorrete le annate di Little Nemo, vi accorgerete che questa strategia viene utilizzata, in maniera più o meno radicale, in tutte le tavole.
La pagina mostra al primo sguardo due strutture visive simili, in alto e in basso, separate da una striscia abbastanza omogenea dove dominano le linee verticali. Osservate, nella loro differenza, le analogie tra la figura del palazzo e quella del gigante di ghiaccio affiancato dagli orsi: sono entrambe forme a simmetria centrale, con un corpo di mezzo più alto, sottolineato da una retrostante figura semicircolare (l’alone luminoso di sopra, l’aureola e gli archi di ghiaccio di sotto). I colori non sono molto diversi, e in tutti e due i casi c’è una base all’incirca orizzontale sottostante, con figure umane in leggero squilibrio. Nella striscia di mezzo le linee verticali del fondo (di colori simili alle due immagini in alto e in basso) si sommano alle linee bianche tra le vignette; e su questa base si stagliano i colori più vivaci delle figure dei personaggi, che creano un ritmo visivo variato ma ugualmente coglibile.
Se sfocate un po’ la vista, potrete cogliere nella pagina una struttura complessiva a cupola: basamenti, pareti con accenni di colonne o nervature verticali, chiusura rotondeggiante in alto. Non c’è bisogno che ne siate consapevoli: l’effetto di architettura favolosa, di luogo straordinario, viene comunque impostato nel lettore ancora prima che inizi la lettura vera e propria. E naturalmente poi, quando la lettura sequenziale ha luogo, il lettore è certamente influenzata da quello che è già stato colto.
Ora pensate alla differenza che esiste tra vedere un paesaggio dal vivo e vederlo in fotografia. Parlo di un paesaggio degno di questo nome, naturale o urbano, quelli che non possiamo fare a meno di fermarci almeno per un attimo (e se possiamo, anche di più) in contemplazione; sapendo benissimo che nemmeno la migliore riproduzione, anche a 360 gradi, potrebbe restituirci quella stessa emozione. La differenza sta nel fatto che nel paesaggio ci entriamo, ne facciamo parte; alla fotografia stiamo invece semplicemente di fronte: un’esperienza immersiva è certamente più coinvolgente di una semplicemente frontale! Notate che non è un problema di dettagli: una buona foto ci può rendere gli stessi dettagli che vedremmo al naturale. Ma sappiamo benissimo che non ne facciamo parte, e che le stiamo di fronte, e non dentro: il coinvolgimento nei suoi confronti è inevitabilmente minore.
Tuttavia l’essere umano possiede l’immaginazione. A certe condizioni, un’immagine può essere vissuta in maniera più immersiva di altre. Non arriverà probabilmente all’emozione di un’immersione reale, ma potrà evocare comunque in qualche misura un’esperienza immersiva. Una di queste condizione, probabilmente la principale, è che l’immagine sia grande a sufficienza da poter riempire il campo visivo, o almeno da avvicinarsi a questa condizione.
Da questo punto di vista, l’edizione originale di questa pagina di Little Nemo aveva dei vantaggi rispetto a quella che vedete qui, e l’immersione evocata nel lettore poteva essere quindi ancora più forte. Notate che un’altra condizione è la presenza del colore, ma si tratta di una condizione molto più debole: diciamo che in bianco e nero la costruzione di un effetto immersivo è più difficile, ma ci sono autori (come Sergio Toppi) che ci riescono benissimo lo stesso.
Ora lasciamo un attimo da parte McCay, e pensiamo all’uso delle splash page (singole, o doppie) da parte di autori più vicini a noi: Jack Kirby o Jim Steranko per il fumetto USA, Philippe Druillet o Moebius per quello francese. Cosa succede quando, nel flusso del racconto, improvvisamente voltiamo pagina e ci troviamo di fronte a un’immagine unica, grande?
Be’ in verità succedono molte cose, anche dal punto di vista degli effetti di tensione e di ritmo, e di sottolineatura narrativa. Ma qui mi preme far notare come in presenza di quella immagine improvvisamente più grande, molto grande, la dimensione immersiva si manifesti e indicativamente ci porti, noi lettori, all’interno del mondo della storia. Lo fa magari per un attimo, e non sarà proprio come essere lì di persona: ma lo è molto di più di quanto non succeda in tutte le altre vignette della sequenza, sempre fruite in maniera decisamente più frontale.
Se poi l’immagine è al vivo, senza margini bianchi, tagliata solo dal bordo della carta, l’effetto potrà essere ancora più forte, perché viene cancellata una cornice, ovvero un dispositivo di distanza. Andatevi a rileggere The Dark Knight di Miller alla luce di queste riflessioni, e vedrete come una buona parte della strategia di coinvolgimento messa in atto dal bravissimo Frank si fondi proprio su un calibrato ritmo di situazioni immersive, basate sia su singole grandi immagini sia su architetture di pagina unitarie (nonostante la pluralità delle vignette) proprio come in questa tavola di McCay.
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