Le letture, non sai mai dove ti portano. L’ultima della mia vacanza greca, imprevista perché il libro non l’avevo portato io ma mia moglie (io avevo finito tutto quello che avevo portato da leggere) è un Michel Foucault, Gli anormali, seminario del 1975. Credevo di avere cambiato del tutto argomento, rispetto alle mie letture precedenti. Foucault ricostruisce la storia della concezione dell’anormalità dal Seicento ad oggi, tra religione, medicina e società.
Ecco però che a un certo punto, Foucault si mette a raccontare come, nei primi decenni del Settecento, la Chiesa abbia deciso di sbarazzarsi dei mistici affidandoli alle braccia della psichiatria. In effetti avevo già trovato l’argomento accennato nei libri di Vannini, ma Foucault è più preciso. Vannini si limita a osservare che con Silesius, a metà del Seicento, si conclude la grande stagione del misticismo cristiano, e dopo ci sono soltanto suore invasate. Foucault racconta come la Chiesa decida di sbarazzarsi di queste suore invasate addirittura alienando una parte del proprio potere a vantaggio dei medici, in particolare degli psichiatri, dichiarando, insomma, la Scienza, più competente di lei in almeno un ambito specifico che sino ad allora era stato di sua ristretta competenza.
Ci sono tre ordini di considerazioni che mi vengono alla mente, di cui soprattutto la terza mi sembra particolarmente interessante.
La prima è che da quel momento in poi i pochi mistici degni di questo appellativo in Occidente non solo non sono più dei religiosi ma talvolta nemmeno dei credenti. Vannini mette in questa (breve) lista Hegel, Nietzsche, Wittgenstein e Simone Weil. Hegel era indubbiamente profondamente cristiano; Nietsche era altrettanto indubbiamente profondamente ateo; Wittgenstein e la Weil sono di origine e cultura ebraica, ma appartengono a famiglie non praticanti e seguono percorsi assolutamente peculiari, basti pensare che la Weil si avvicina al cristianesimo passando attraverso la mistica induista. Insomma, quanto di misticismo rimane in Occidente dal Settecento in poi, non ha più niente a che fare con le chiese cristiane.
La seconda considerazione è che l’operazione che la Chiesa compie ai primi del Settecento non deve stupire, perché è, nella sua particolarità e rischiosità (alienarsi una parte di potere è sempre un rischio), qualcosa che segue una logica familiare. In fondo la Chiesa non si è mai trovata a suo agio con i mistici: quando ha potuto, li ha bruciati come eretici, come è accaduto a Margherita Porete alla fine del Duecento e a Giordano Bruno alla fine del Cinquecento, e come non è accaduto a Meister Eckhart e a Nicola Cusano perché erano personalmente troppo potenti e troppo rappresentativi all’interno dell’istituzione (Eckhart era priore di un importante convento domenicano, Cusano era vescovo). Anche se i mistici che ho nominato sono mistici speculativi, la visionarietà della loro ragione è troppo priva di limiti per essere accettabile dalla ragione vincolata alle logiche di potere che caratterizza la Chiesa e le sue teologie. Quando Vannini (in un altro libro) definisce il Cristianesimo come “La religione della ragione”, non ha affatto torto; religione della ragione il Cristianesimo lo è sempre stato, sin da quando l’evangelista Giovanni parlava di Dio come logos.
Si tratta però di una ragione controllata, cui si danno limiti severi, formalmente sanciti dalle Sacre Scritture, di fatto sanciti da chi le Scritture le ha sempre controllate, anche perché, da S.Agostino in poi, si sa bene che le interpretazioni possibili delle Scritture sono davvero varie, e non solo quelle canonicamente approvate. L’Illuminismo, a dispetto delle differenze, è innegabilmente un figlio di questa vocazione razionale del cristianesimo (ereditata dai greci più che dagli ebrei), e condivide numerosi aspetti con il padre. Per questo la Chiesa poteva confidare nella nuova scienza per sbarazzarsi definitivamente dei mistici, del sacro e del numinoso. Non prevedeva che quello stesso gesto avrebbe contribuito all’instanziarsi delle condizioni per la Rivoluzione Francese, la cui religione era quella della Dea Ragione, e basta; e alla nascita del positivismo, antireligioso per natura, e tuttavia specularmente simile alla religione cui si oppone (per le ragioni che ho spiegato qui, parlando del fisicalismo).
E veniamo alla terza considerazione, quella che più mi interessa. Mi colpisce che il Settecento sia non solo il secolo della fine del misticismo in Occidente, ma anche quello in cui si sviluppa la nozione di sublime. In altre parole, proprio quando la Chiesa si sbarazza definitivamente del sacro, ecco che la società si impossessa del sublime (sulla contiguità di sublime e sacro ho parlato già qui). Il trattatello dello pseudo-Longino viene scoperto in Francia alla fine del Seicento, ma studiato e divulgato soprattutto nell’Inghilterra del Settecento (racconto nel dettaglio la storia qui, ma ho parlato molte volte del sublime in questo blog). Con il Romanticismo, poi, ma già ben anticipata nel secolo precedente, si afferma un’idea di Arte molto più legata al concetto di sublime che a quello tradizionale di bello. Questa idea reggerà alla crisi del Romanticismo e del suo legame con le emozioni, e l’idea di sublime, per quanto mascherata, rimarrà alle spalle di tutte l’arte moderna: in una logica del sublime, per esempio, possono trovar spazio il ready made duchampiano e l’arte concettuale, i quali sarebbero invece inconcepibili in una logica tradizionale del bello. E non inganniamoci con le parole: quello che spesso oggi chiamiamo bello, con riferimento ai prodotti delle arti, è un bello ben diverso da quello tradizionale, e in cui il sublime gioca una parte forte.
Sbarazzandosi delle suore invasate, la Chiesa, insomma, non ha solo regalato alla psichiatria scientifica una parte del suo potere; ma si è anche sbarazzata definitivamente, si è purificata, dall’idea pericolosa e antica del sacro. Coloro che percepivano il sacro, i mistici, non erano più degli eretici da bruciare (cosa che, nel Settecento, non si sarebbe certo potuta fare) ma semplicemente degli alienati, dei folli, da consegnare non all’Inquisizione bensì agli erigendi manicomi, all’istituzione politica basata sulla razionalità scientifica. Ma, scomparso il sacro, ecco che fa la sua comparsa in scena il sublime, una nozione quasi identica all’altra, salvo il suo essere slegata dal rapporto con Dio e il suo situarsi, tassonomicamente, nella dimensione estetica, e non in quella ontologico-religiosa.
Il nostro modo di concepire le arti, guarda caso, si definisce proprio tra Sette- e Ottocento. L’autogol della Chiesa, insomma, si direbbe duplice, e sempre fatto in nome della ragione (quella, moderata, dei rapporti di potere e della, formale, aderenza alle Scritture): da un lato ha delegato alla scienza il controllo di una parte dei suoi membri, dall’altra ha regalato all’Arte la sua dimensione più antica e profonda (ma anche pericolosa, con cui ha sempre convissuto male).
La dimensione rituale della poesia (di cui, recentemente, ho parlato qui) esiste indipendentemente da questi eventi, ed esisteva ben prima del Settecento. Tuttavia, non c’è dubbio che una concezione dell’Arte (in generale) come sublime (cioè, più o meno, come sacro) la rafforzi notevolmente. Prima del Settecento la poesia aveva col sacro una relazione ambigua, che poteva anche essere negata da contenuti esplicitamente profani; ma dopo, e specialmente dal Romanticismo in poi, il sublime è libero da condizionamenti religiosi, e la sacralità del testo poetico può essere percepita senza mettere in gioco né la Chiesa né la religione né Dio.
Forse era nel destino stesso del Cristianesimo quello di negarsi, e, hegelianamente, di superarsi. La sua natura razionale, di origine greca, è ciò che l’ha caratterizzato e reso vincente per due millenni. Ma questa stessa natura razionale ha inevitabilmente seminato i germi che stanno distruggendo il Cristianesimo, da un lato perché al di fuori della religione la ragione ha trovato un terreno più libero e fertile, dall’altro perché non di sola ragione vive l’uomo, e le Chiese cristiane sembrano esserselo dimenticato.
Quasi tutto giusto, tranne 2 cose: fino a tutto il Novecento (vedi S. Weil), e anche oltre, la mistica – cioè il sacro, vero, perché esperito senza mediazioni – è continuata e continua (non sarà mai ovviabile: tra i grandi errori di Marx, elidere e illudersi di poter eludere ogni trascendenza, per sempre); è sempre stato nell’arte, poesia inclusa, da ben prima d’una sua ‘profanizzazione’ (divulgazione, poi massificazione cioè degradazione: non perché per tutti, ma perché falsamente per tutti – non preparati; come merce, tipo oggi la newage).
Attenzione: mi sembra di non aver affermato né che la mistica è finita col Settecento (ho fatto anche dei nomi – semmai è finita la grande mistica legata alla Chiesa – ma mi limitavo a citare Vannini, in ogni caso) né che il sacro non fosse nell’arte prima di allora. Parlo di relazione ambigua, perché prima del Romanticismo tra l’arte e il Sacro c’erano diverse mediazioni (prima tra tutte quella della Chiesa). Da quando la Chiesa si disinteressa del Sacro (limitandosi al Santo, che è altra cosa), l’arte si impossessa del Sublime, e le mediazioni relative alla religione non ci sono più. Da qui alla massificazione e degradazione però passa ancora un bel po’, e non c’è nessuna relazione diretta tra i due fenomeni.
Gli ultimi 3 secoli sono pieni di mistici cristiani cattolici, anche canonizzati, a volte osteggiati ma questo accadeva anche prima. Solo che per parlarne bisognerebbe conoscerli. Quando Focault parla della chiesa si muove su un terreno che evidentemente non è il suo e conosce poco.
Questo varrà forse per Foucault, ma di Marco Vannini è piuttosto difficile dire che conosce poco la chiesa e il misticismo cristiano, essendone il principale storico in Italia.
La Chiesa si disinteressa del Sacro praticamente per costituzione (da Saulo, che la fonda – a propria immagine e somiglianza: si vede com’è), l’interazione con l’arte si dava come effetto collaterale: data la presenza precedente e anche successiva del sacro a qualsiasi chiesa-religione – semplicemente questo facevo notare; mentre le chiese lo monopolizzano come istituzioni di potere, l’arte lo libera e semina di continuo, da sempre e per sempre (si parla di vera arte, ricerca-esperienza diretta collegata alla tradizione originaria-fontale, non certo dei prodotti decaduti di moda): la relazione è non solo diretta, ma è proprio questo il punto di snodo della questione (anche qui: sovrastoricamente, cioè in ogni tempo), l’irrisolto – anzi spesso non visto persino dagli intellettuali, la cui mentalità è coniata sullo stampo della propria epoca e non riescono ad andar oltre: si vede? La Chiesa (s’intende la cattolica) mette il suo cappello sulla mistica dalle origini, ne pretende il controllo, il monopolio e la gestione esclusiva: un S. Francesco è costretto a scrivere una regola, mentre la sua era l’esempio vivente (e ci scrive: non si dica che volevo dire altro da quanto scritto!).
Sì, è più o meno così, ma tra costringere S.Francesco a scrivere una regola (accogliendo dunque, a certe condizioni, il suo misticismo dentro la Chiesa) e delegare la cura del fenomeno alla scienza psichiatrica ne passa parecchio. Alla Chiesa il Sacro è sempre andato stretto (il libro di Tagliaferri che cito in uno dei post di poco precedenti a questo, Sacrosanctum, è interamente dedicato a questo tema), ma nel Settecento c’è, mi sembra, un ulteriore forte giro di vite. Così il Sacro, rivisitato come Sublime, diventa appannaggio dell’arte, quale prima non era o era molto meno.