Il fatto che io abbia dei problemi in generale con la poesia in prosa non mi impedisce di apprezzare certe poesie in prosa. Ma indubbiamente parto prevenuto. Ecco alcune delle mie ragioni.
Intanto, non c’è dubbio che, come espressione del non-verso, la poesia in prosa abbia un valore espressivo. Si tratta però di un valore in negativo – non nel senso di un cattivo valore, ma nel senso di un valore (buono) che si basa su una negazione, su un’assenza, quella della divisione in versi. Qualcosa che si presenti come poesia, ed esibisca altri aspetti tipici della poesia, può ben essere poesia anche se non è in versi, proprio perché gioca sul fatto che, pur dovendo esserci, essi non ci sono.
Il principio non è però troppo generalizzabile. Come tutti i valori in negativo, anche questo ha bisogno, per poter funzionare, dell’esistenza stabile e sancita, nell’ambiente culturale, del suo corrispondente positivo, in questo caso quindi del verso. Se la poesia in prosa diventasse la maggioranza della poesia, questa assenza non sarebbe più percepibile, e il suo valore espressivo si perderebbe. Si tratta quindi di un’espressività abbastanza contingente, l’espressività dell’eccezione, non in sé sostenuta da ragioni in positivo.
Ma non è questo che, principalmente, rimprovero alla poesia in prosa. Ci sono due ragioni assai più forti.
La prima è che, con il verso, se ne va, almeno in parte, l’attenzione sulla componente sonora, prosodica, fonetica del discorso poetico. Non scompare del tutto, perché è ben possibile alla prosa poetica riguadagnarsela. E tuttavia essa parte svantaggiata, proprio perché, assumendo la forma visiva della prosa, essa assume anche – di principio – l’attenzione focalizzata sui contenuti che è tipica del discorso prosastico. Giocare di ambiguità con la prosa significa dunque giocare ad attenuare o addirittura annullare ciò che di specifico possiede la poesia nei confronti della prosa. Non è un peccato mortale. Tutto, se espressivamente funziona, si può fare. Però attenuare o annullare gli elementi sonori significa anche marginalizzare gli elementi più direttamente coinvolgenti, gli elementi immersivi del linguaggio poetico, quelli che – prima degli altri – creano Stimmung, accordo collettivo, ritmo condiviso.
La seconda ragione è che, con il verso, se ne va completamente l’organizzazione visiva della poesia, ciò che, visivamente, distingue la poesia dal blob grafico della prosa – la quale è, dal punto di vista grafico, sequenza informe, mattone o mattoncino di caratteri. Anche l’organizzazione visiva della poesia contribuisce a richiamare l’attenzione sul piano del significante, a dichiarare la parola non del tutto trasparente nei confronti del significato che trasmette, come un qualsiasi oggetto del mondo che, oltre ad avere gli eventuali rimandi simbolici che ha, è comunque se stesso, con le sue caratteristiche fisiche e materiali. Prendere la forma visiva della prosa vuol dire favorire l’uso molto più funzionale che la parola ha nella prosa, l’uso (vicino all’uso quotidiano finalizzato) per cui la parola si risolve interamente nel suo significato, in quello che essa vuol dire.
Quello che tendenzialmente si perde, in tutti e due i casi, è la ragione per cui la poesia è importante, cioè proprio la sua differenza con la prosa, ovvero il fatto di portare alla luce la natura condivisa del linguaggio, e non solo quella espressiva. Dal Romanticismo in poi, la vulgata ha fatto coincidere la poesia con la forma più alta di espressione. Si tratta di un fraintendimento. La poesia è certamente espressione, ma non c’è bisogno della poesia per esprimersi: quando ci si schiaccia un dito col martello piantando un chiodo, il proprio grido e la propria imprecazione sono già estremamente espressivi, anche se per nulla poetici. Che la poesia sia, di espressione, la forma più alta, è invece probabilmente legato a questa natura collettiva, condivisa, ritmica, rituale, del linguaggio poetico – insomma qualcosa che magari non è proprio contrapposto all’espressione, ma le è certamente almeno del tutto trasversale.
La poesia in prosa, tendenzialmente, affossa proprio questa componente specifica della poesia, in nome dell’espressività; in nome, di conseguenza, di un qualche predominio dell’io. In altre parole, insomma, la poesia in prosa è forse, in fin dei conti, l’estremo travestimento della lirica.
Riporto qui due commenti di Paolo Santarone e Claudia Zironi, apparsi su Facebook, ma troppo complessi per dar loro risposta degna in quella sede.
Santarone:
“Anch’io sono d’accordo con Barbieri. A inizi Novecento si sperimentò la prosa poetica (Sem Benelli) che diede risultati positivi anche se non immortali. Ma non si trattava di “poesia senza gli a capo”, bensì di un vero e proprio genere.
Eh sì. Parlare di poesia in prosa significa rinnovellare il drammatico e alogico dibattitto sull’a capo, questione poco meno complessa di quella sull’esistenza di Dio e forse ad essa connessa, perché l’a capo ci porta al punto nodale: il “ritmo interno”. Ungaretti diceva; ma che cos’è questo ritmo? è una cosa che si sente, che IO sento, ma che non saprei definire… (e con la sua istrionica gestualità disegnava il ritmo nell’aria, quasi a darcene concreta visione).
Eh sì. In poesia, come in natura, nulla si crea e nulla si distrugge, La soppressione (chissà se definitiva o effimera) della metrica classica non può, io credo, aver portato tout court all’eliminazione di una sovrastruttura ingombrante (pensarlo sarebbe come bestemmiare tutta la poesia di tutti i tempi). Essa è stata sostituita da quel “verso libero” che non cancella la musica, ma che al contrario dovrebbe rendere l’armonia più articolata, più intensa, più direttamente connessa al “moto dell’anima”. La metrica classica è stata sostituita del ritmo interno, che è sì soggetto a una certa arbitrarietà dovuta alla percezione soggettiva (magari non vagliata da un lungo e sudato apprendistato tra le righe della metrica classica) ma che in qualche modo deve avere una sua riconoscibilità, se vogliamo poter ancora esercitare un diritto di critica che aspiri all'”è bello” e non solo all'”a me mi piace”. Ovvio che non in questo si esaurirebbe il giudizio, ma il ritmo ne costituirebbe comunque una parte tutt’altro che secondaria. La negazione del ritmo (per fortuna da parte di pochi, indegni del nome di poeta) è solo un drammatico segno del pressapochismo, della faciloneria, dell’utilitarismo gretto del nostro tempo.”
Zironi:
“ciao Daniele, io apprezzo la prosa poetica pur ammettendo la difficoltà nel ritrovare in essa le caratteristiche sonore scandite dagli a capo. Tendo poi a credere che la prosa poetica non sia esaltazione dell’io ma esattamente il contrario: un affossare l’ego che in poesia è notoriamente e palesemente abnorme, andando incontro al lettore in un tentativo di comunicazione che molti artisti non si pongono, vivendo nella convinzione di avere il diritto di essere interpretati.”
Cerco di rispondere a entrambi, per quanto si possa rispondere su un tema così complesso.
Avevo detto la mia sul verso libero poche settimane fa, in questo post. La mia sensazione è che, tendenzialmente, verso libero e poesia in prosa vadano nella stessa direzione, che è una direzione di più diretta espressione dell’io, con i suoi pro e i suoi contro. Questo è coerente con la tendenza della modernità ad affermare anche nella letteratura un io che nella nostra vita sociale è sempre più forte (parlo di tendenze secolari, non dell’adesso).
Quando sottolineo il tendenzialmente, voglio dire che in molti casi particolari le cose possono anche essere diverse, e che tanto il verso libero come la poesia in prosa possono anche essere usati in senso opposto, volendoli vedere (cosa del tutto lecita) come atti di ribellione a una tradizione lirica che ha visto coincidere l’esaltazione dell’io con i metri tradizionali. Poi il verso libero può essere musicalissimo, e ci auguriamo che lo sia – ma il rapporto tra percezione soggettiva e giudizio un po’ più oggettivo non credo che dipenda o sia legato in qualche modo al rapporto con la metrica, o all’uso che se ne fa…
Insomma, quello che io volevo sottolineare è soltanto una tendenza, insita nell’uso del verso libero e in quello della prosa, tendenza che dipende dalle loro caratteristiche intrinseche. Il poeta, giocando su altri fattori, può neutralizzare del tutto questa tendenza. Ma essa c’è, e richiede sforzi maggiori se la si vuole neutralizzare, e questo ha tipicamente delle conseguenze.
Sto parlando di sfumature, spesso irrilevanti nel contesto dei singoli autori; tuttavia, a livello storico le sfumature possono avere effetti enormi…
Riporto qui due commenti di Paolo Santarone e Claudia Zironi, apparsi su Facebook, ma troppo complessi per dar loro risposta degna in quella sede.
Santarone:
“Anch’io sono d’accordo con Barbieri. A inizi Novecento si sperimentò la prosa poetica (Sem Benelli) che diede risultati positivi anche se non immortali. Ma non si trattava di “poesia senza gli a capo”, bensì di un vero e proprio genere.
Eh sì. Parlare di poesia in prosa significa rinnovellare il drammatico e alogico dibattitto sull’a capo, questione poco meno complessa di quella sull’esistenza di Dio e forse ad essa connessa, perché l’a capo ci porta al punto nodale: il “ritmo interno”. Ungaretti diceva; ma che cos’è questo ritmo? è una cosa che si sente, che IO sento, ma che non saprei definire… (e con la sua istrionica gestualità disegnava il ritmo nell’aria, quasi a darcene concreta visione).
Eh sì. In poesia, come in natura, nulla si crea e nulla si distrugge, La soppressione (chissà se definitiva o effimera) della metrica classica non può, io credo, aver portato tout court all’eliminazione di una sovrastruttura ingombrante (pensarlo sarebbe come bestemmiare tutta la poesia di tutti i tempi). Essa è stata sostituita da quel “verso libero” che non cancella la musica, ma che al contrario dovrebbe rendere l’armonia più articolata, più intensa, più direttamente connessa al “moto dell’anima”. La metrica classica è stata sostituita del ritmo interno, che è sì soggetto a una certa arbitrarietà dovuta alla percezione soggettiva (magari non vagliata da un lungo e sudato apprendistato tra le righe della metrica classica) ma che in qualche modo deve avere una sua riconoscibilità, se vogliamo poter ancora esercitare un diritto di critica che aspiri all'”è bello” e non solo all'”a me mi piace”. Ovvio che non in questo si esaurirebbe il giudizio, ma il ritmo ne costituirebbe comunque una parte tutt’altro che secondaria. La negazione del ritmo (per fortuna da parte di pochi, indegni del nome di poeta) è solo un drammatico segno del pressapochismo, della faciloneria, dell’utilitarismo gretto del nostro tempo.”
Zironi:
“ciao Daniele, io apprezzo la prosa poetica pur ammettendo la difficoltà nel ritrovare in essa le caratteristiche sonore scandite dagli a capo. Tendo poi a credere che la prosa poetica non sia esaltazione dell’io ma esattamente il contrario: un affossare l’ego che in poesia è notoriamente e palesemente abnorme, andando incontro al lettore in un tentativo di comunicazione che molti artisti non si pongono, vivendo nella convinzione di avere il diritto di essere interpretati.”
Cerco di rispondere a entrambi, per quanto si possa rispondere su un tema così complesso.
Avevo detto la mia sul verso libero poche settimane fa, in https://www.guardareleggere.net/wordpress/2013/04/24/del-verso-libero-e-di-alcune-sue-conseguenze/. La mia sensazione è che, tendenzialmente, verso libero e poesia in prosa vadano nella stessa direzione, che è una direzione di più diretta espressione dell’io, con i suoi pro e i suoi contro. Questo è coerente con la tendenza della modernità ad affermare anche nella letteratura un io che nella nostra vita sociale è sempre più forte (parlo di tendenze secolari, non dell’adesso).
Quando sottolineo il tendenzialmente, voglio dire che in molti casi particolari le cose possono anche essere diverse, e che tanto il verso libero come la poesia in prosa possono anche essere usati in senso opposto, volendoli vedere (cosa del tutto lecita) come atti di ribellione a una tradizione lirica che ha visto coincidere l’esaltazione dell’io con i metri tradizionali. Poi il verso libero può essere musicalissimo, e ci auguriamo che lo sia – ma il rapporto tra percezione soggettiva e giudizio un po’ più oggettivo non credo che dipenda o sia legato in qualche modo al rapporto con la metrica, o all’uso che se ne fa…
Insomma, quello che io volevo sottolineare è soltanto una tendenza, insita nell’uso del verso libero e in quello della prosa, tendenza che dipende dalle loro caratteristiche intrinseche. Il poeta, giocando su altri fattori, può neutralizzare del tutto questa tendenza. Ma essa c’è, e richiede sforzi maggiori se la si vuole neutralizzare, e questo ha tipicamente delle conseguenze.
Sto parlando di sfumature, spesso irrilevanti nel contesto dei singoli autori; tuttavia, a livello storico le sfumature possono avere effetti enormi…