Asemic Magazine 3 (Tramite Marco Giovenale / Slowforward)
Una buona descrizione di che cosa sia l’asemic writing si trova su Wikipedia. È una voce che non nasconde il fatto di essere stata scritta da appassionati di questa pratica, ma è comunque precisa, concisa, e cita pure un commento di Bruce Sterling che riassume le perplessità che è lecito sollevare sul tema.
Queste perplessità non riguardano la pratica in sé o i suoi risultati. Come si può vedere sfogliando le pagine riportate qui sopra, ci sono cose che si guardano volentieri e altre meno, ma nel complesso l’oggetto è interessante. La perplessità riguarda semmai la definizione di questa pratica, e il suo campo più generale di appartenza. Oppure, in termini leggermente diversi, se queste opere possano essere oggetto di un semplice guardare (tenendo presente che anche il più semplice guardare rivolto a un prodotto comunicativo umano ha comunque in sé delle componenti che derivano dalle pratiche del leggere) oppure se abbia senso parlare anche di un leggere, nei loro confronti.
In altre parole, considerare l’asemic writing come una specie del genere arte astratta è qualcosa di abbastanza pacifico: un dipinto (o disegno) astratto ha comunque bisogno di alludere in qualche modo a forme del mondo (senza davvero raffigurarle – sennò sarebbe arte figurativa), e, da questo punto di vista, l’asemic writing è un’arte astratta che prende come riferimento le forme della scrittura (senza davvero raffigurarle – sennò sarebbe scrittura, perché una scrittura raffigurata è ugualmente scrittura).
Il problema nasce quando si teorizza la possibilità di un continuum tra immagine e scrittura, come fa Tim Gaze nello schema qui di fianco, oppure si parla decisamente di asemic poetry, come fa spesso Marco Giovenale sul suo blog Slowforward e come rivendica chiaramente in un’intervista su 3:AM Magazine.
Ora, io capisco benissimo che chi pratica una disciplina inconsueta, all’interno di un piccolo cerchio (benché di diffusione internazionale), cerchi di evitare come il diavolo l’acqua santa i vincoli e la retorica del mondo delle arti visive, dove tutto si trova schiacciato, in fin dei conti, sulla possibilità delle gallerie di vendere delle opere, e sul giudizio dei critici. Per questo si può tentare di dialogare non con l’arte visiva, benché essa sia evidentemente il primo riferimento concettuale di un’operazione visiva come questa, bensì con il mondo della poesia, più piccolo, più competente, in generale piuttosto estraneo alle operazioni commerciali, e dotato di alcuni precedenti illustri e già storicizzati – quindi citabili come appoggio.
Sul valore della poesia concreta ho già espresso le mie perplessità. E tuttavia la poesia concreta rimane legata alla presenza della parola e della scrittura. Persino gli Zeroglifici di Adriano Spatola, pur essendo ormai composizioni primariamente visive, cioè da guardare, sono composti di frammenti di parole o di lettere riconoscibili. Quando si perde anche questo estremo legame con la scrittura, le mie perplessità diventano certezze.
Potrei contestare il fatto che l’asemic writing sia ancora writing, cioè scrittura. Per quanto ampia si voglia prendere la definizione di scrittura (e vedi su questo i bei libri di Roy Harris) quello che cambia è il modo in cui essa può essere semica (modo alfabetico, ideografico, pittografico, logografico…), ma l’idea di una scrittura asemica assomiglia a quella di un quadrato rotondo, o degli angoli del cerchio. La parola inglese writing è tuttavia suscettibile di un’altra traduzione, ovvero scrivere; e se mettiamo l’accento sull’idea di uno scrivere asemico (piuttosto che di una scrittura asemica) la cosa riacquista senso: è, appunto, una pratica che è più simile, gestualmente, a quella dello scrivere che a quella del dipingere o disegnare, ma che non persegue alcuno scopo simbolico (nel senso del simbolo peirceano), proprio come il dipingere o disegnare, se non attraverso la mediazione della forma complessiva. Insomma, un’arte astratta che ha come metafora di riferimento quella della scrittura anziché quella del mondo.
Ok sullo scrivere asemico, dunque. Ma se invece di asemic writing, io pretendo di parlare di asemic poetry, quest’ancora di salvataggio non funziona più. Forse se potessi trasformarlo in una sorta di asemic poetring, un far poesia asemico, potrei illudermi almeno che la mia pratica possa condurre a un’arte astratta che abbia come metafora di riferimento quella della poesia anziché quella del mondo. Ma questa non sarebbe ugualmente poesia – a prescindere dalla sua qualità visiva.
C’è spesso qualcosa di millenaristico nei tentativi delle avanguardie di portare la poesia a estremi vicini all’asemantismo. Per arrivare a queste posizioni, bisogna ritenere che, nel nostro mondo, la funzione tradizionale della poesia si sia esaurita, e quindi il suo discorso in termini tradizionali sia ormai inutile o impraticabile; è così che diventano accettabili idee come quelle del transmentalismo di Velimir Chlebnikov o del lettrismo di Isidore Isou. L’idea della necessità di un grado zero della scrittura, poiché i gradi superiori sono tutti contaminati dal predominio dell’industria culturale e delle sue falsificazioni alienanti, sta dietro a tanta parte del lavoro della Neoavanguardia italiana, e in particolare agli Zeroglifici di Spatola. Ancora senza arrivare a questi estremi, in campo musicale c’è una famosa conferenza di Anton Webern, del 1932 (quella del 15 gennaio), in cui si sosteneva che la musica tonale aveva esaurito le sue possibilità storiche di espressione, e che quindi quella della Nuova Musica dodecafonica era ormai l’unica strada percorribile da parte di un’arte che volesse essere autentica (non sono le parole di Webern, ma mi pare che – anche attraverso Adorno – le si possa leggere così). Sappiamo come nel clima esistenzialista del dopoguerra queste parole di Webern siano state a fondamento del serialismo di Pierre Boulez e di tutta l’avanguardia uscita dalla scuola di Darmstadt. Eppure Webern si sbagliava. Si sbagliava persino sulla musica tonale, perché in quei medesimi anni, costretto dalle condizioni politiche del suo paese, un musicista come Dimitri Shostakovich riusciva ancora a comporre dei capolavori nell’ambito della tonalità tradizionale. Ma soprattutto si sbagliava quando pensava che alla tonalità potessero succedere solo la dodecafonia e le sue conseguenze, come se la storia fosse guidata da un destino ineluttabile di progresso, e in una sola direzione. Da Tedesco ed Europeo troppo orgoglioso della propria tradizione, Webern trascurava l’esistenza di altre tradizioni (nella conferenza del 20 febbraio 1933 ammette esplicitamente di non saperne quasi nulla), e quindi quella di potenzialità che con la tonalità non avevano mai avuto a che fare, ma che non per questo erano vicine alla dodecafonia.
Questo millenarismo percorre anche l’idea di asemic poetry, ovvero l’idea che la poesia sia diventata così impossibile nel mondo alienato di oggi da giustificare l’abbandono del senso ordinario della scrittura, ormai contaminato dagli abusi della comunicazione di massa. Senza questo presupposto, quello che si presenta come asemic poetry è in verità semplice asemic writing, cioè un’arte visiva che tenta di stare fuori dalle grinfie del mondo dell’arte, e comunque un’arte da guardare e non da leggere – anche se la sua forma visiva è metaforica di quella del leggere; anche se propone al fruitore uno sguardo sequenziale e non zigzagante come quello dell’arte visiva. Però, appunto, lo propone, proprio come fa la pittura; e non lo può imporre, come fa invece la scrittura vera e propria.
Quello che mi indispettisce è che, per salvare una pratica, che ha i suoi pregi, dal ricadere nel campo a cui semioticamente spetterebbe, si debba compromettere il senso di una parola, poesia, allargando surrettiziamente il suo campo sino a inglobare qualcosa che, semioticamente, non dovrebbe stare lì. Certo che le nozioni e il senso delle parole cambiano, nella storia; ma queste trasformazioni non sono mai indenni da problemi. Visto che qui (e in vari luoghi del Novecento) questa trasformazione viene proposta, la mia domanda è: ne vale davvero la pena? Sinché transmentalismo e lettrismo ci appaiono come curiosità, il danno non è grande; ma se si cerca di fare entrare davvero la asemicità in una pratica che è fatta di parole, come la poesia, con l’intero loro portato visivo, sonoro e anche simbolico, non stiamo in verità distruggendo la nozione? Capisco che per chi sostiene e difende la asemic poetry questo possa essere un prezzo accettabile, ma per me non lo è.
Concludo con un’osservazione a margine sui precedenti storici dell’asemic writing. Vedo che nella pagina di Wikipedia si cita Zhang Xu, con i suoi illeggibili corsivi selvaggi, in qualità di anticipatore dell’asemic writing. Chi frequenta questo blog (o ha seguito le mie lezioni) conosce la mia passione per Zhang Xu. Ora, io credo che quello della voce di Wikipedia sia un errore. A quanto ne so, Zhang Xu eseguiva i suoi esperimenti di corsivo selvaggio prendendo come oggetto dei testi poetici noti al suo pubblico. La sua scrittura risulta illeggibile solo se non si sa già quello che c’è scritto – e in questo senso certo non è adatta a trasmettere la parola. Ma il lettore (cinese) che conosca già il testo, è in grado di riconoscere i caratteri pur nella deformazione espressiva a cui sono sottoposti. Immaginate un esperimento di calligrafia espressiva estrema sull’Infinito di Leopardi: se già conosco il testo, riconoscerò anche lettere estremamente deformate. Per questo quella di Zhang Xu non è in nessun modo asemic writing; semmai, come tutta la calligrafia espressiva, è ipersemic writing, cioè l’arte di aggiungere al senso delle parole quello del loro aspetto grafico. Non è nemmeno quella che viene definita “relative” asemic writing, ovvero una scrittura che può essere letta da qualcuno ma non da tutti – strana definizione, che prende dentro tutte le scritture del mondo. Ogni scrittura che sia davvero tale è infatti leggibile da qualcuno ma non da tutti; cioè da chi ne possiede il codice, e non dagli altri. Per possedere il codice dello scrivere di Zhang Xu, oltre a conoscere il cinese, bisogna già sapere quello che c’è scritto; ma questo era dato per scontato (a volte, per fugare ogni dubbio, sul retro del foglio la poesia era persino trascritta in caratteri leggibili).
Grazie delle osservazioni, Daniele. Devo suggerire però delle correzioni su alcuni punti: non uso praticamente mai “asemic poetry”. Di base per me esiste solo (sottolineo: *per me*) “asemic writing”. Pratica tanto vicina al disegno da aver io coniato il verbo “to drawrite”, come dico nell’intervista che citi, a 3AM: http://www.3ammagazine.com/3am/maintenant-65-marco-giovenale.
In questa intervista, l’espressione “asemic poetry” non viene da me ma dal mio interlocutore, Steven Fowler. [E, rispondendogli, il mio riferimento è alla *mia* idea di “asemic writing” o – al limite – “asemic text”].
Aggiungo che – negli USA e in generale in area anglofona e in molti contesti letterari – l’espressione “poem” è decisamente diffusa anche per indicare cose che “poesia” assolutamente non sono (ad esempio prose brevi, anche molto narrative; o ‘oggetti’ verbovisivi assai poco verbo e invece fin troppo visivi, ma pubblicati in contesti di scrittura lineare). (In questo senso, in alcune pagine di slowforward, posso usare – raramente – “asemic poem”: come dire “frammento asemantico”. E’, quando c’è, una concessione a un’altra cultura, con cui entro in dialogo). (Il titolo “Eight Poems” non è mio, qui: http://www.3ammagazine.com/3am/eight-poems-marco-giovenale; ma ovviamente cito la pagina web col suo titolo, dove mi capita di linkarla).
Non uso “asemic poem” (o, come appena detto, lo uso – raramente – dando a “poem” il significato statunitense) per le stesse ragioni che enunci. Preferisco dunque, insisto, “asemic writing” (che è anche uno dei tag del mio blog).
Sul termine “asemic”. La traduzione italiana è “asemantico”, non “asemico” (come – ‘alla lettera’ – sarebbe logico tradurre). Negli USA il termine “asemic” (con iniziali resistenze, da parte per esempio di Silliman, che poi lo ha pienamente adottato) è infine entrato in uso per tradurre “asemantico”.
Il termine “asemico” / “asemia” in italiano potrebbe in effetti esser legato a questa patologia: http://en.wikipedia.org/wiki/Asemia. (Il link spiega anche perché ci sono state inizialmente resistenze – ovviamente – in area anglofona).
Caro Marco
grazie delle precisazioni. Solo per evitare di dare l’impressione di essermi inventato delle cose, ho controllato. È vero che non usi quasi mai l’espressione “asemic poetry”; tuttavia questo che segue proviene dalla tua bio su Slowforward: “In 2010 he founded the “echoing blog” du-champ, for mapping blogs and sites of experimental writing, visual and asemic poetry”, e lì io l’avevo visto. È vero pure che nell’intervista citata non sei tu ma l’intervistatore a usare “asemic poetry”; d’altra parte tu non lo correggi mai; e quindi – messo insieme con la nota autobiografica – ti avevo preso per un patito dell’asemic poetry (oltre che writing).
Siccome il mio obiettivo polemico non eri comunque tu, bensì l’idea di asemic poetry, sono contento di scoprire che stiamo invece dalla stessa parte.
Quanto alla traduzione di “asemic writing” confesso di essere stato un po’ imbarazzato, e sul punto di usare anch’io “asemantico” anziché “asemico”. Poi però ho pensato che in inglese “asemantic” sarebbe perfettamente accettabile. Per questo tradurre con “scrivere asemantico” mi sembrava un piccolo tradimento (come avrei tradotto poi un eventuale “asemantic writing”?).
Non che ci sia una grande differenza tra “semantic” e “semic”, ma una sfumatura di senso diversa c’è. Il bisticcio tra asemic/asemico in senso semiotico e i medesimi termini in senso medico (come nome di una forma più grave di afasia) esiste tanto in inglese quanto in italiano. Per questo non capisco questa asimmetria, e ti domando (è una domanda vera, non retorica): perché “asemic” e non “asemantic”? e perché “asemantico” e non “asemico”?
Ciao
db
Caro Daniele,
inizio dall’ultima domanda rispondendo: boh! Non lo so. In effetti quando ho iniziato a corrispondere (diversi anni fa) con i vari interlocutori che si occupavano di questa prassi/pratica, le mie prime mail – che dovrei recuperare ma che ricordo benissimo – parlavano di “asemantic writing”, perché mi sembrava questo il senso. E “Sibille asemantiche” si intitola di fatto il libro fatto diverso tempo dopo, nel 2009. Mantengo in italiano “asemantico”, e un po’ mi sembra bizzarro che si sia attestato “asemic” in inglese, ma tant’è. L’uso fa (ha fatto) norma. We know.
Detto ciò, su “asemic *poetry*” anch’io ho delle perplessità (e predilogo “writing”); ma devo dire che ne hanno formidabilmente poche gli interlocutori in area anglofona. Talmente poche che, come scrivevo, usano “poem” indistintamente per un mucchio di cose, tra cui gli esempi che facevo nel commento precedente. E’ in questo senso e per questo motivo che non li correggo e anzi li seguo più volte, qua e là (ma vado a correggere subito la [vecchia] nota biobiblio). (Ma quella aggiornata è qui: http://slowforward.wordpress.com/bio).
Di fatto, forse, questo loro uso mira a un’estensione del dominio del poetico che non è anomala nella loro cultura, come in altre culture, e sembra ‘eccessiva’ forse solo in un contesto europeo. (Tanto che l’espressione “postpoesia” è gleiziana, francese). Io stesso sarei tendenzialmente per uno spostamento di campo (o “cambio di paradigma”, come dicevo in un post su Nazione indiana), piuttosto che per un allargamento dell’insieme “poesia”.
Cfr. anche questo commento:
<blockquote cite="ci avvediamo probabilmente che sarà per noi meno dispersivo e più proficuo/risolutivo non far più riferimento a “poesia”/”poetico” per certi “oggetti estetici”, piuttosto che allargare indefinitamente l’insieme “poesia”/”poetico” per far rientrare tutto nel suo contesto, o campo di possibilità.”>
(da http://www.nazioneindiana.com/2010/03/31/poesia-in-prosa-e-arti-poetiche-una-ricognizione-in-terra-di-francia/)
Ciau
M
(ovviamente il tag blockquote non funziona) (pardon)
OK. Ora mi sembra che il quadro della situazione sia più chiaro.
Quanto all’articolo che citi, Marco, lo ricordo bene, anche perché è stata quella l’occasione in cui sono iniziate le nostre (incluso Andrea) discussioni su prosa (in prosa, magari) e lirica. 🙂
🙂
[…] writing (see here). One of Spatola’s last projects of the 1980s was the visual poetry book Asemic magazine. After the death of Spatola, 3ViTre publisher Enzo Minarelli took over the magazine and published […]