Le parole dell’articolo di Carlo Carabba “Meno Sanguineti più Szymborska: liberiamo la poesia”, uscito l’11 marzo sull’inserto domenicale del Corriere, “La lettura” (leggibile qui, segnalato e commentato da Massimiliano Manganelli qui), sembrano riprodurre un antico cliché: buono è ciò che piace ai più. E il libro della Szymborska, caso più unico che raro di raccolta di poesie assurto all’empireo dei libri più venduti, fornirebbe l’esempio di versi “che hanno un pregio che spiazza e sorprende il lettore: si capiscono e, spesso, commuovono”.
Divento inquieto quando leggo queste cose. Evidentemente io non appartengo alla categoria dei lettori a cui fa riferimento Carabba, visto che trovo talvolta commoventi i versi di Sanguineti, mentre non mi ritrovo capace né di capire né di apprezzare la Szymborska. Sto facendo un’affermazione eretica, evidentemente, ma io non leggo il polacco, e ritengo che la poesia sia non traducibile, bensì solo riscrivibile in un’altra lingua (ovvero in un altro sistema semantico, lessicale, prosodico, ritmico, metrico e fonetico – sempre assumendo che il sistema di valori culturali di riferimento sia sufficientemente simile da non produrre troppi equivoci). Di conseguenza non mi permetterei di dire che la Szymborska non è un grande poeta, o anche soltanto che non mi piace: io non ho mai letto la Szymborska, bensì solo i suoi traduttori.
Certo, al cliché (pseudodemocratico) che è buono ciò che piace ai più si contrappone quello non meno irritante (pseudoaristocratico) per cui è buono solo quello che pochi sanno apprezzare. Questo secondo è il chiché delle sette e delle conventicole, e non si può negare che le avanguardie storiche, indipendentemente dalla loro importanza e dal loro successo, abbiano mostrato una certa tendenza a organizzarsi in sette e conventicole. Inevitabile strategia di sopravvivenza, certamente. A cui si aggiunge la rassicurante sensazione di far parte di un gruppo di eletti, di aristocratici dello spirito – persino quando si perseguono ideali socialisti, persino quando si è bolscevichi.
Ma le avanguardie non si possono ridurre a questo. Se lo si fa si corre il rischio di prendere granchi grotteschi, quale il sostenere – come fa Carabba – che tra i bersagli polemici dei Novissimi, espressi nell’Introduzione di Giuliani, ci sarebbe anche “una lingua che abbia la pretesa (ingenua) di significare qualcosa”. Nemmeno Balestrini, il più estremista del gruppo da questo punto di vista, potrebbe davvero riconoscersi in una proposta così estrema. E così stupida, bisogna aggiungere: Carabba deve costruire la caricatura del proprio bersaglio, e caricarla in eccesso, per poterlo distruggere. Un segno che in verità il suo obiettivo polemico non è così facilmente attaccabile.
Ha un poco più ragione quando espone l’altro obiettivo polemico di Giuliani, quella che (pure qui caricando, perché i termini della polemica di Giuliani non sono esattamente questi) Carabba definisce “la malaugurata tendenza dei poeti a parlare di sé”.
È a questo punto che, come esempio (negativo) delle perduranti conseguenze dei mali introdotti nella poesia dall’avanguardia, Carabba cita il volume curato da Vincenzo Ostuni, Poeti degli anni Zero. Ho polemizzato anch’io con Ostuni, e non condivido diversi tra i criteri che hanno guidato le sue scelte. Tuttavia, interventi come quello di Carabba mi spingono, se non a concordare, perlomeno a prendere le difese di Ostuni.
Intanto, nel complesso l’antologia è riuscita. Il criterio di selezionare un numero ridotto di autori cui dedicare molte pagine è condivisibile e anche coraggioso, perché comporta la necessità di escludere tanti. Inevitabilmente, quindi, non si sarà (e non sono) d’accordo sulle esclusioni e inclusioni. Ma questo è secondario, perché non esiste (per fortuna) una scienza esatta della qualità dei poeti – e tutto sommato Ostuni me ne presenta parecchi che interessanti sono.
Detto questo, c’è davvero un errore nelle posizioni di Giuliani, Ostuni e Zublena (che Ostuni cita ampiamente nella sua introduzione), ed è quello di ritenere che la riduzione dell’io sia uno strumento in mano al poeta e/o un metro di giudizio in mano al lettore. Se dovessimo dar credito ciecamente a queste posizioni, dovremmo concludere, guardando indietro, che Gabriele D’Annunzio (che di se stesso parla direttamente assai poco nei propri versi) è un poeta molto più in linea con i Novissimi di Guido Gozzano (il quale invece non fa altro che parlare di sé e del proprio mondo); e non si capirebbe come mai il medesimo Sanguineti attribuisca tanta importanza al secondo anziché al primo.
In verità, io credo, la riduzione dell’io non è una causa bensì un effetto, collaterale, della qualità poetica. In altre parole, una poesia di valore è una poesia che viene apprezzata per il suo rappresentare qualcosa per chi legge, indipendentemente dal fatto essa che dica “io” oppure no, o che abbia “tratti di immobilità o compiutezza”, come ricorda Ostuni, oppure no. Si potrà forse sostenere che un componimento che escluda l’io e che abbia carattere di non propositività esprime meglio il nostro tempo (e questa è l’unica giustificazione sensata che riesco a trovare alle regole esposte da Zublena e citate da Ostuni); ma anche questo è a sua volta discutibile, e presuppone implicitamente che il nostro tempo sia suscettibile nel suo complesso di una rappresentazione sufficientemente unitaria – fosse pure quella della semplice incertezza: ma anche la certezza dell’incertezza è una certezza, e dal paradosso non si esce.
Quanto alla natura democratica o aristocratica delle scritture poetiche, temo che Carabba sia vittima comunque di un errore di prospettiva. Il prestigio culturale di cui la poesia gode da secoli e di cui continua comunque a godere, per quanto in Italia sia evidentemente in calo, non è legato alla sua natura democratica o popolare, se non ritornando sino alle origini orali, per noi perdute. Tra i poeti che leggiamo sulle nostre antologie scolastiche, gli ultimi sospettabili di un legame con il popolare sono assai più vecchi di Dante. Il prestigio culturale della poesia ha poco a che fare con la sua diffusione, e con i grandi numeri.
L’auspicio, del tutto condivisibile, di una sua maggiore diffusione, non è l’auspicio a una semplificazione della poesia, bensì quello a un maggior numero di lettori competenti. Non sarà una cosa facile, sinché l’accento, nella fruizione dei testi letterari, a partire dal romanzo, continuerà a essere messo dall’industria culturale sui contenuti, sulla trama avvincente, sulla storia – come comunque fa Carabba, e come continua a fare, implicitamente seppur in negativo, chi sostiene la necessità della riduzione dell’io, e ne vede lo strumento nella complessità sintattica e discorsiva. Che le proposte avanzate a suo tempo dai Novissimi siano diventate ormai da anni maniera, e abbiano contribuito – come ogni maniera – al formarsi di sette e conventicole, è certamente un fatto. Ma questo non squalifica a priori nessuno specifico poeta, come non lo qualificherebbe a priori la sua appartenenza a qualsiasi ambito stilistico. E né la complessità né la semplicità sono di per sé indici di qualità.
La realtà, quella sì, è davvero complicata. Ridurre la qualità poetica al successo di pubblico, al giudizio del lettore qualsiasi, è una semplice ingenuità – oppure è un programma politico, ma noi speriamo di no.
Bello questo articolo, articolato e argomentato, ben al di là della riduzione semplicistica omogeneizzata (speriamo che no, appunto, non sia da “programma politico”) dell’articolo di cui discute.
Un saluto
a parte il fatto che ho apprezzato il traduttore della Szymborksa (per usare il tuo paradosso), e che apprezzo sanguineti… per il resto mi sento di sottoscrivere in pieno il tuo intervento.
e trovo svilente questo continua corsa al “popolarismo” dei prodotti culturali.
per tutti o per nessuno?
per chi risuona?
interessante anche il tema dell’io. il punto è cosa riesce a rappresentare.
strano, ma questa tua riflessione, sembra essere capovolta rispetto al tema dell’io nel discorso che hai fatto sulle autobiografie.
ma la mia è un’interpretazione superficiale, e rapida, in una pausa di lavoro.
ciao!
@Guglielmo, sull’io.
Come dice anche Andrea Inglese, qui sotto, la questione dell’io è complicata, in poesia come nel fumetto o altrove. Capisco che quello che dico qua possa apparire diverso da quello che dicevo nel post sull’autobiografia nel fumetto. È diverso perché pongo l’accento su aspetti diversi, ma non in contraddizione. In verità anche là parlavo di autori autobiografomaniaci che comunque apprezzo, come Chester Brown. Ma probabilmente apprezzo Chester Brown proprio perché, nonostante dica sempre “io”, il risultato è ugualmente affascinante, e quest’io non ingombra affatto. Ingombra invece in Joe Matt, e in effetti c’è pure tanta poesia in cui ingombra.
Ma in poesia il dibattito su questo tema va avanti da cinquant’anni e passa, e quindi o sei un poeta della domenica oppure ti ci confronti. Nel mondo del fumetto invece siamo ancora nella fase per cui l’autobiografismo sarebbe la risposta “artistica” al fumetto di massa dei supereroi. Credo che sia ora che anche nell’ambito del fumetto si inizi a parlare di questo; e se dobbiamo iniziare a parlarne, cerchiamo di iniziare almeno bene: senza demonizzazioni dell’io, ma anche senza esaltazioni.
Poi capisco che potrò dare l’impressione di difendere l’io in poesia (dove è troppo attaccato) e di attaccarlo nel fumetto (dove è troppo difeso). Ma quello che davvero mi interessa è far capire (e capire meglio io stesso) come la questione dell’io non sia che l’effetto collaterale, la manifestazione apparente, di qualche altra questione, probabilmente molto più complessa.
caro daniele,
ho apprezzato il tuo intervento; sulla questione del soggetto in poesia credo che ci sia ancora molta da scavare e condivido alcune delle tue osservazioni. A presto
a.
Caro Daniele,
condivido quello che dici, tanto sull’intervento di Carrabba, quanto sull’antologia di Ostuni.
Credo in più che un articolo come quello di Carrabba possa deviare e indurre a facilonerie sulla poesia contemporanea finalizzate a strappare applausi e poca reale comprensione del testo. Da un punto di vista militante mi sento inoltre in dovere di contrastare la linea carrabbiana che da alcuni critici viene considerata come l’unica praticabile e praticata dai poeti delle nuove generazioni (mi riferisco più che altro a quelli nati negli anni ’80), come se l’esigenza di dire e di commuovere sia più insistente di quella di creare un testo poetico artisticamente connotato (non è un caso che alcuni indichino come modelli della nuova poesia solo Montale, Sereni, Caproni – i quali esistono senza dubbio, ma non credo si possano escludere le virate e le spinte offerte dalle sperimentazioni che hanno attraversato la seconda parte del secolo scorso).
A presto e grazie per questo testo
Luciano
Scusa Luciano per questa apparizione così tardiva del tuo commento. Per i misteriosi meccanismi dei controllori dello spam era finito lì, dove l’ho trovato facendo un periodico controllo.
Grazie a te.
db