Non sono mai riuscito a farmi amare la poesia in dialetto. Non mi era nemmeno chiaro il perché di questa spontanea personale ostilità sino a quando non ho sentito leggere Fabio Franzin a Ricercabo. Franzin era bravissimo, e lo potevo ascoltare leggendomi visivamente testo e traduzione in italiano dei suoi versi: ho goduto molto la sua lettura e le sue belle poesie. E poi ho capito qual è il problema della poesia in dialetto.
Anticipo che condivido le riflessioni sulla opportunità della poesia in dialetto (o in lingua, veneta o friulana o qual altra, se si preferisce). Trovo anch’io che il dialetto permetta alla poesia di non confrontarsi con la deriva della poesia in italiano, e di restare più legata alla vita, alla quotidianità, al fare concreto a cui quelle parole del dialetto sono naturalmente più legate (come spiegava lo stesso Franzin in quell’occasione). Ma nonostante questa opportunità, io non posso negarmi di riconoscere che la poesia in dialetto patisce di un enorme handicap, che mi impedisce quasi costantemente di goderne davvero.
Il punto è questo: la poesia non è prosa, e la sua dimensione sonora è cruciale non meno del suo significato. Quando leggo una poesia in una lingua che non è la mia, io fatico non solo per la ricostruzione adeguata del senso, ma anche per ritrovarne l’andamento sonoro, cui non sono del tutto familiare, e soprattutto per sentire come quell’andamento sonoro si relaziona con l’andamento sonoro standard di quella lingua. A forza di insistere, mi sento abbastanza a mio agio ormai leggendo poesia in spagnolo, e con un po’ di fatica mi immedesimo abbastanza nelle sonorità del francese e dell’inglese. Qualcosa, con enorme sforzo, mi passa persino per il tedesco.
Ma non ho la stessa familiarità quando passo al dialetto, nemmeno con il faentino, che pure non è così lontano da me; figuriamoci col veneto, col lombardo, col napoletano… Gran parte di questi dialetti, compreso il mio (visto che io provengo da una famiglia che in casa parlava italiano, e ho imparato – male – il dialetto da grande), mi sono poi noti nel suono soprattutto attraverso il loro uso televisivo, molto spesso di carattere umoristico – o comunque attraverso un uso pubblico, abbastanza purificato dal portato emotivo che hanno le parole quando ti risuonano dentro perché sono le tue. Persino quando si parla in un’altra lingua, con un po’ di immersione, le parole di quella lingua ti risuonano dentro, e diventano emotivamente tue.
Ma coi dialetti, come faccio? Dovrei parlarli tutti, per davvero. Oppure rassegnarmi a godere solo della poesia scritta in dialetti con i quali ho sufficiente familiarità attiva; cioè praticamente nessuno, nemmeno il mio. Non posso accettare di confrontarmi con una poesia che non mi permette accesso a metà del suo mondo, quella sonora.
D’altra parte, in quell’occasione Franzin mi ha anche implicitamente indicato la via per uscire dall’impasse. Se io non posso figurarmi interiormente la voce del dialetto, è allora necessario che quella voce si materializzi davvero, si faccia sentire nella sua materialità. La voce virtuale che mi risuona dentro quando leggo in una lingua i cui suoni mi sono familiari può essere qui sostituita solo da una voce reale, che mi trasmetta quello che io non sono in grado di ricostruire.
Non sono sicuro di condividere le posizioni di Lello Voce e Rosaria Lo Russo, quando sostengono che ogni volume di testi poetici dovrebbe contenere un Cd con la voce che li legge/recita. Molta poesia in italiano non nasce per quella destinazione, e vive fortemente anche della ricostruzione interna che il lettore si fa della voce sonora. E tuttavia là dove, come per la poesia dialettale, quella voce interna non ha modo di essere ricostruita, mi pare che la lettura orale da parte dell’autore (o da chi per lui, purché sappia leggere quel dialetto davvero) sia una condizione indispensabile per godere davvero dei versi, per fruirne davvero come poesia, e non solo come (un po’ morta, secca) parafrasi in italiano.
Sarà magari perché l’idea stessa del dialetto scritto (con buona pace dei suoi grandi, da Goldoni a Porta a Belli in giù) non è del tutto pacifica. O magari perché, anche là dove lo si scrive, il legame con l’oralità resta stretto, e il dialetto scritto va comunque ricostruito ad alta voce, come facevano gli antichi con tutta la scrittura prima dell’invenzione medievale della lettura interiorizzata, fatta con gli occhi…
interessante.. molto vero il discorso della voce interiorizzata e personalizzata, e la dimensione sonora, che è quella della cadenza e quindi dell’essere o meno madre lingua o quanto meno “abituati”..
Gent.mo Barbieri, ti ringrazio, davvero di cuore per le tue affettuose parole su di me. Se davvero ti ho, almeno un po’, riconciliato col dialetto, ne sono molto felice. Condivido tutto di ciò che hai scritto in questo tuo articolo. Anche perché i detrattori di queste lingue minori continuano a volerle annientare. Io non ne faccio una questione ideologica (ci mancherebbe!), è che il dialetto è la mia lingua dell’anima, e penso, continuo a pensare che non importi la lingua in cui un testo è scritto, ma che importa se ciò che uno scrive, con la lingua che più crede sua, possa trasmettere un’emozione a chi lo legge o lo ascolta. Punto.
Grazie di cuore, davvero. Con affetto. Fabio Franzin
Spero di avere occasione di riascoltarti.
A presto
db
Caro Barbieri, stasera, alle 20.30 sarò al teatro Bonci di Cesena per un recital dai miei “Canti dell’offesa”.
Un caro abbraccio. Fabio