Due settimane fa, rispondendo a un commento di Guglielmo Nigro su Miles Davis, mi è capitato di avvicinare l’ascolto di Free Jazz di Ornette Coleman alla visione di un dipinto di Jackson Pollock. Il paragone mi è uscito del tutto spontaneo, sul momento, ma vale la pena di rifletterci sopra in maniera più approfondita.
Come ho scritto nel mio libro Guardare e leggere, credo che Pollock abbia introdotto in pittura la preminenza di una modalità di significazione che, pur essendo sempre esistita, è anche sempre stata però secondaria o addirittura marginale. Quando guardiamo un dipinto del Seicento, certamente quello che ci colpisce prima di tutto è la scena rappresentata, e poi, se siamo sufficientemente competenti, valutiamo la composizione plastica. Ma esiste anche il gusto e il senso dell’avvicinare lo sguardo a riconoscere il segno delle pennellate, a cercare di capire il gesto del pittore nello stendere quel colore sulla tela. Questo specifico gusto, attraverso il quale il segno pittorico non è più solo di tipo iconico (nella rappresentazione) o comunque genericamente visivo (nella composizione plastica), ma anche di tipo indicale (in quanto traccia di un evento reale – quello del gesto pittorico), non è veramente esercitabile su dipinti precedenti il XVII secolo.
Non che non si potesse capire il gesto del pittore anche prima, dai tratti del colore, ma l’idea dell’ostentazione di una capacità virtuosistica del pennello, non dissimile da quella dello strumentista che fa musica, è un’idea tutta barocca. Ed è quindi in epoca barocca che l’idea del virtuosismo della pennellata diventa una componente possibile, collaterale ma non ininfluente, del senso complessivo di un dipinto.
Nel dripping di Pollock, la rappresentazione non c’è più, e anche il valore della composizione plastica è minore rispetto a, poniamo, Kandinsky. Ha invece un grandissimo peso il sistema, indicale, dei percorsi: le tracce lasciate dal pennello sgocciolante che danno un’idea della danza del pittore, del ritmo del suo movimento – ed è la qualità di questa danza e di questo ritmo che finisce per fare la differenza tra i dripping di Pollock e quelli di chiunque altro.
In questo senso, dunque, l’action painting di Pollock costruisce una sorta di pittura musicale. Ma attenzione a non portare la metafora troppo in là: un dipinto di Pollock, come questo Autumn Rhythm, non è fatto di un solo ritmo, o di una sola danza, ma di un complesso intreccio di mosse, che ritornano e si sovrappongono, spesso rendendo impossibile seguire davvero le singole linee. Nonostante questa confusione – o forse proprio grazie a questa “confusione” – il dipinto funziona; è forte, di grande impatto, produce una sensazione vitale di movimento e di danza. A ben guardare, poi, l’intreccio è tutt’altro che omogeneo, e appaiono zone più dense di segni e zone più vuote. La sensazione di ritmo e di danza è prodotta dallo spostamento dell’occhio e dell’attenzione su questi segni, e anche dal tornare e ritornare sulle stesse forme: di fatto, nel dipinto, il movimento non c’è, e siamo noi spettatori a produrlo attraverso un’interazione ricorrente con dei segni statici.
Ora pensiamo a Free Jazz, di Ornette Coleman. Se lo pensiamo nel suo insieme, lo possiamo descrivere in maniera non così dissimile da come abbiamo descritto il dipinto di Pollock: ci sono una serie di danze o di ritmi (quelli dei vari solisti dei due quartetti) che si sovrappongono generando una sorta di “confusione”, dalla quale emergono con fatica (e spesso non emergono) le singole linee; ma poi ci sono zone più dense e anche zone più libere, nelle quali può emergere la voce e il percorso (la danza, il ritmo) volta per volta di uno o due dei solisti.
Ma a questo punto le somiglianze finiscono, e salta agli occhi una differenza fondamentale, e cioè che mentre per vedere la struttura complessiva del dipinto e le sue macro-forme non ho che da allontanarmi un poco in modo da rendere meno evidenti i dettagli, per percepire la struttura complessiva del brano musicale non ho altra scelta che ricostruirlo mentalmente in maniera quasi-visiva, come uno schema complessivo. In altre parole, mentre la struttura complessiva di un dipinto è un fatto visivo né più né meno dei suoi dettagli, quella di un brano musicale non è più un fatto sonoro, a differenza dei suoi dettagli. Mentre il dipinto continua a essere presente all’osservazione e disponibile a essere ripercorso, la musica scorre ed è in ogni momento quella che è in quel momento, contro lo sfondo di quello che è stato prima e nella prospettiva di quello che sarà, ma, in ciascun momento specifico dell’ascolto, sfondo e prospettiva sono fatti virtuali, presenze soltanto mentali, fatti di memoria e di immaginazione.
Free Jazz gioca programmaticamente sul fatto di non avere né futuro né passato, se non di breve durata: c’è sviluppo forse nelle singole improvvisazioni, ma non nel brano nel suo complesso. La libertà di cui godono i singoli esecutori impedisce al brano di avere un’evoluzione complessiva, e al massimo distinguiamo le fasi di improvvisazione collettiva da quelle delle improvvisazioni individuali. Nel dipinto di Pollock, la struttura complessiva c’è, ed è chiaramente dominante, ed è anzi ciò che evoca in noi il quadro ritmico complessivo, poi riproposto all’infinito dalle singole linee e dagli intrecci.
Nel brano di Coleman le singole danze non hanno modo di creare una macro-danza che dia un senso all’insieme, e questo è, per me, il peccato di Free Jazz: l’utopia della libertà espressiva del singolo esecutore che rende impossibile all’ascoltatore una sintonizzazione complessiva con la musica, un possibile “andare a tempo” o “sentire il ritmo” con l’insieme. Al mio orecchio Free Jazz è pieno di bei momenti, che non riescono a costruire complessivamente una bella musica – e a lungo andare mi annoio.
A quanto pare, dunque, la musica è fatta di elementi extra-sonori molto più di quanto la pittura sia fatta di elementi extra-visivi. E anche questo è certamente un effetto dell’optocentrismo di cui la musica patisce nella nostra cultura. L’idea di una musica fortemente improvvisata, come il jazz ha cercato di essere, va certamente nella direzione di un allontanamento dall’optocentrismo – ma la mia sensazione è che Coleman abbia sbagliato strada, perché – come scrivevo nella mia risposta a Nigro – se l’ascoltatore di Free Jazz vuole cercare una coerenza e un’evoluzione più generale di quella delle singole improvvisazioni è costretto a un forte lavoro concettuale, a una forte astrazione, che non è di carattere sonoro – e non è nemmeno più la percezione di una danza, o di un ritmo. Sembra quasi che dietro alla libertà illimitata dei solisti di Free Jazz ci sia un disegno fortemente razionalista, un progetto, termini (“disegno”, “progetto”, “immagine complessiva”) tutti relativi al campo del visivo. In altre parole, Coleman non avrebbe fatto un’operazione molto diversa da quella di un musicista della tradizione cosiddetta “colta” della musica occidentale – e in effetti lo vediamo facilmente in linea con un John Cage, e con la sua – intellettualissima – esaltazione del caso.
Tutto questo discorso, ovviamente, non comporta che Free Jazz sia un “brutto disco”. Con il peso culturale che ha avuto non ha nemmeno senso parlarne in termini di brutto o di bello. Però ci permette di riconoscere che nella sostanza il progetto di Coleman finisce per andare nella direzione opposta a quella che dichiara, approdando a un intellettualismo jazzistico che caratterizzerà pesantemente i decenni successivi – anche in molti casi con risultati, peraltro, che alle mie orecchie suonano decisamente meno “noiosi”.
L’optocentrismo non si sconfigge così facilmente. Forse non si sconfigge affatto. Forse non va nemmeno sconfitto. Ma ci sono altre strade, nel jazz e altrove, lungo le quali si vivono più suoni e si ricostruiscono meno (peraltro comunque indispensabili) astratte strutture.
C’è un breve saggio su Pollock e il jazz in “Magazzino Jazz”, un volume di Franco Bergoglio appena uscito per Moby Dick Editore.
Sai qual è il bello? Che Pollock era sì un appassionato di jazz, ma di jazz tradizionale (swing, dixieland), mentre non sopportava il jazz moderno, dal bebop in poi.
Comunque, va anche detto che “Free Jazz” è un esperimento abbastanza estremo, e in fondo isolato, nella produzione di Coleman.
Se ascolti invece “The Shape of Jazz to Come” o le registrazioni live al “Golden Circle”, senti un Coleman estremamente diverso, tutto centrato sullo sviluppo orizzontale, tutt’altro che dissonante, anzi secondo me persino apollineo.
@ Sergio
Non mi stupisce affatto sapere che Pollock era appassionato di jazz tradizionale, mentre non sopportava quello più d’avanguardia. In fondo era un pittore, non un musicista, e tutto il suo discorso e la sua elaborazione erano relative all’ambito del visivo. Non gli si chiede di avere capito tutto o di avere gusti raffinati, al di fuori del suo specifico.
Quello che mi interessa è che un legame con la musica ci sia, e che Pollock in qualche modo lo manifesti. Poteva anche non essere il jazz, poteva essere il boogie, come era stato per Mondrian a New York.
Torno comunque su Pollock in prossimi post su cui sto lavorando.
Ciao
db
[…] Di Jackson Pollock e Ornette Coleman […]
Beh, l’incontro musica-Pollock è molto particolare!Di sicuro al buon Jackson piaceva sperimentare, e l’accostamento al jazz è piuttosto azzeccato, secondo me!
Jackson Pollock e Ornette Coleman.
In effetti è un binomio alquanto azzeccato.
Bellissimo post.
Ciao Daniele.
Forse bisognerebbe chiedersi chi, alla Atlantic, abbia deciso di combinare la musica di Coleman inserita nel disco-manifesto Free Jazz col dipinto di Pollock riprodotto in copertina. E cosa lo ha portato a questo decisione.
La mia è una domanda carica di naivette, lo so. Me ne scuso, ma credo comunque che sia centrale risolvere questo aspetto per meglio comprendere quanto hai scritto. Almeno, credo.
Cavolo, Sergio! Sarà anche una domanda naivette, ma non so se essere contento di avere ricreato alla cieca un nesso che esisteva all’origine, o preoccupato nel momento in cui mi accorgo di avere scoperto l’acqua calda. Insomma: ho sempre ascoltato Free Jazz (in epoca pre Web) su una cassetta registratami negli anni Settanta da un amico, e non ne ho mai visto la copertina, né ho mai pensato che fosse rilevante conoscerla. Dunque ignoravo sino a pochi minuti fa che il parallelismo fosse così istituzionale.
Credo che le cose che dico non cambino molto di valore; se non dal punto di vista della storia, o della cronaca. E allora anch’io mi domando se chi decise alla Atlantic di associare Pollock a Coleman fosse consapevole della portata del discorso di Pollock – oppure se vedeva soltanto un complesso intreccio di linee, un po’ come nella musica del disco.
Se poi dovessimo scoprire che dietro a quella scelta ci sta proprio Coleman, o che addirittura la pittura di Pollock lo abbia ispirato, cavolo: altro che abbandono dell’optocentrismo! E altro che libertà del singolo interprete e delle singole ispirazioni! Saremmo al paradosso di un musicista che si avvicina o riavvicina al paradigma progettuale della visività ispirandosi a un pittore che se ne è allontanato andando verso l’ispirazione estemporanea di tipo musicale (di questo torno a parlare anche nel post della prossima settimana, di nuovo su Pollock).
Per quanto io ritenga Coleman (in Free Jazz) cerebrale, non ero arrivato a pensarlo così cerebrale. Secondo me quella di Pollock in copertina non è stata una scelta così approfondita – o almeno lo spero.
Ciao
db
Io avevo dato per scontato che il collegamento Pollock-Coleman fosse derivato dalla copertina del disco. Interessante, direi quasi borgesiano, che invece tu lo avessi fatto senza saperlo.
Ho spulciato un po’ di fonti cartacee e webbiche, ma non ho trovato nulla che aiutasse a capire se l’idea sia stata di Coleman o di qualcun altro alla Atlantic. Che sia stato Ornette stesso, può anche darsi, dato che credo fosse abbastanza vicino alla “loft scene” newyorkese, in cui questi incroci tra arti diverse erano abbastanza frequenti.
Oppure, se è stato qualcuno alla Atlantic, può anche darsi che in quel momento il dipinto di Pollock (che è datato 1954, quindi solo sei anni prima del disco) rappresentasse un po’ l’emblema dell’arte d’avanguardia.
Comunque, proverò a chiedere ad amici più esperti. A questo punto la cosa mi ha incuriosito.
Un amico mi segnala questo sito:
http://www.critamorcinema.it/online/?p=492
Al punto 3.2 parla di Coleman e Pollock. Qui, sembrerebbe che la scelta del quadro sia stata suggerita dalla Atlantic, e non da Coleman.
Sì, ed è plausibile, e anch’io credo che sia stato così. Però da come la mette giù l’autore del post, non sembra che la sua affermazione sia supportata da un qualche tipo di documentazione. Probabilmente nessuno si è mai posto davvero il problema, ritenendo importante indagare.
Eh, cavolo. Anche io avevo dato per scontato che il tuo discorso fosse partito anche dalla copertina del disco. Sapere che è nato “spontaneamente”, mi rafforza su qualcosa che da sempre ho in testa e cioè che alcune idee, alcuni ragionamenti attorno a o sopra a portino, comunque li si affronti, quindi anche essendo all’oscuro di alcuni elementi, agli stessi risultati.
Per dire, qualcosa del genere mi capitò in anni universitari mettendo in parallelo Il sorpasso e e i primi film di Wenders. Per me era sottinteso che il regista tedesco avesse visto il film di Risi e ne avesse tratto ispirazione. Per Quaresima, il docente con cui in quel periodo studiavo, no. Non c’era Internet, non c’era il passaggio capillare delle informazioni di cui oggi possiamo godere: lui ne doveva per forza sapere più di me (ah, il chinar il capo dei vecchi discenti). Anni dopo si è venuto a scoprire che invece sì. Ora, questo non è perfettamente pertinente a quanto ti è accaduto, ma ci si avvicina e, ribadisco, rafforza la mia posizione qui espressa.
Un amico mi segnala questo passo di Mario Gamba (da “Questa sera o mai: storie di musica contemporanea”, Fazi 2003, pp. 24-25):
“Musica descrittiva? Deteriore esercizio sonoro-figurativo tipo ‘I pini di Roma’ di Respighi, tanto per intenderci? Neanche per sogno. Non facciamo confusione. Sciarrino non è quel genere di musicista. La sua musica sta a questo soggetto – il mare – come la pittura di un Jackson Pollock, informale e astratta, sta al soggetto ‘White Light’ di un suo famoso quadro, guarda caso scelto dalla casa discografica Atlantic per la copertina di uno storico disco di Ornette Coleman, ‘Free jazz’ “.
[…] ancora su Pollock, e – come si è detto l’altra settimana – sulla sua riformulazione della comunicazione della pittura attraverso il maggior peso […]
Dimenticavo: un brano su action painting e il jazz (e sulle implicazioni dell’improvvisazione per la valutazione estetica dell’opera d’arte) è nel libro di Ted Gioia “The Imperfect Art”, tradotto in italiano qualche anno fa (non ho il libro sottomano, quindi non posso essere più preciso).
Salve a tutti!
Sono da poco stata alla mostra al Vittoriano e nella mostra emerge una citazione dello stesso Pollock che piu o meno recita cosi: ” non so mai come risulterà cio che dipingo prima che il colore tocchi la tela”
Beh..è esattamente quello che Ornette diceva della sua musica: “non so come suonerá prima che l’avrò suonata”.
Che la scelta del quadro sia stata della Atlantic o di Ornette non ha poi cosi tanta rilevanza.
Piu rilevanza, a parer mio, ne ha il fatto che in ogni caso Ornette, che era uomo molto sensibile e attento e aperto a tutto ciò che gli girava intorno, stava immerso in quel contesto cosi creativo degli anni ’50, in cui vi era un continuo scambio tra artisti diversi nello stesso campo e anche in campi diversi. Credo sia quindi stato inevitabile che Ornette fosse ispirato da ciò che vedeva e sentiva. Anche quei suoi completi bizzarri che si produceva da solo come possiamo pensare che siano solo il risultato di difficoltá economiche?
Era un anticonformista, ma ancora di piu si era stancato di essere usato dal sistema e ancora di piu ha passato tutta la vota cercando semplicemente di esprimere con onestà la sua essenza, con non poche difficoltà perchè pure lui aveva le sue fisime. Tutta la sua carriera è stata una evoluzione continua, una ricerca incessante dell’espressione del sè del momento. Proprio come accade nell’improvvisazione.
Detto questo, e mi scuso, sto proprio cercando elementi documentati di qsta relazione con Pollock.
Ted Gioia (pag. 140 del testo tradotto) spiega che “il pubblico del jazz e quello dell’espressionismo astratto negli anni 50 era lo stesso, si somigliavano nella filosofia.Le due arti sollevavano la stessa domanda: come si giudica un’arte che attribuisce piu importanza alla performance che all’arte? Le opere di Pollock cercavano di catturare l’energia e la vitalità presenti nel momento della loro creazione.”
Cosa faceva Ornette?applicava questo con la sua armolodia non solo durante le sue improvvisazioni, ma addirittura nel concepire un brano. Cito le parole di Ornette dalle note di copertina di Something Else “se non stabilisco un pattern a un determinato momento, chiunque abbia l’orecchio dominante in quel preciso momento può prendere la palla e fare qlsa che cambierà la direzione da quello ke era stabilito verso qlsa di meglio. E io ho fiducia nell’andare con lui”.
Lui fissava piu che altro la melodia, il resto poteva cambiare da performance a performance, tanto è vero che se si trascrive un suo brano preso da diverse registrazioni, puó essere che non solo si trovino accordi diversi, ma anche la struttura può essere piu corta o piu lunga.
Poi, tutto questo non ci dice certo chi abbia preso da chi, mi piacerebbe molto scoprirlo, ma credo sia plausibile dire che Ornette fosse continuamente ispirato anche da ciò che succedeva nel campo dell’arte.
Vi ringrazio per i vostri suggerimenti.
Monica
[…] tra l’action painting di Jackson Pollock (cui ho già dedicato in questi giorni due post, qui e qui) e la calligrafia cinese. Gli rispondo che non ho notizie precise in merito, ma la cosa mi […]