“Craaaash!” e si ruppero le strisce
Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 1994
I rumori sono tra gli aspetti della comunicazione a fumetti di cui si parla di più ; sono tra le cose che, più di tantissime altre, “fanno fumetto”. Eppure non tutti i fumetti contengono rumori, e non tutti quelli che li contengono mostrano di ritenerli un elemento graficamente importante. Nel complesso, l’emancipazione grafica dei rumori nel fumetto, è infatti un fenomeno relativamente recente, coevo di un interesse per gli aspetti più specificamente visivi che si è sviluppato (con le dovute eccezioni) a partire dagli anni Sessanta.
I rumori costituiscono uno strano oggetto, all’interno di una dimensione figurativa. Compaiono come messa in figura di qualcosa che, come il suono, non può in realtà essere visto; e non è nemmeno riservato loro quello spazio ufficiale – ovvero il fumetto, il balloon – che è delegato a contenere le parole. I rumori, insomma, “rompono”: rompono l’illusione realistica della raffigurazione, rompono la convenzione fumettistica dello spazio destinato alla scrittura (contrapposto a quello, generale, destinato all’immagine), rompono l’ideale classicista dell’immagine immobile e muta. In più, impongono un uso creativo della parola, costretta a esprimere onomatopeicamente le sonorità più strane.
Per tutte queste ragioni i rumori nei fumetti, nonostante la loro notorietà anche tra chi li frequenta poco, sono cresciuti piano piano e con qualche difficoltà.
Tra i classici, vi sono i noti “bang”, “crash”, “gulp”, “sob”, ormai catacresi di metafore a suo tempo divertenti; parole della lingua inglese, usate per esprimere il rumore prodotto dall’attività che esse descrivono: rispettivamente “esplodere”, “fracassarsi”, “inghiottire”, “singhiozzare”. Per i lettori non di lingua inglese, poi, il momento della metafora creativa non c’è nemmeno mai stato: ogni ragazzo italiano che abbia letto fumetti ha imparato queste parole come “rumori dei fumetti”, e non come termini della lingua inglese. Un rumorista geniale come il nostrano Jacovitti ha più volte fatto rivivere anche ai suoi lettori italiani l’emozione di rumori dal suono creativo. È vero che “pugno”, come suono di un pugno, appare meno realistico ed efficace di “sock” (letteralmente “prendere a pugni”), ma bisogna vedere come Jacovitti sopperisce graficamente alle (almeno in questo senso) limitazioni sonore della lingua italiana, ingrandendo molto la lettera “u” a spese delle altre, in modo che il suono evocato nell’immaginazione del lettore sia qualcosa che potremmo provare a rendere con “pù-gno”, con un fortissimo accento sulla “u”.
Quando gli autori di fumetti hanno incominciato a rendersi conto che la pagina bianca che avevano davanti permetteva molto di più di un realistico resoconto delle storie da raccontare, i rumori hanno incominciato un’esistenza molto più eclatante e – è il caso di dirlo – rumorosa. Questi rumori eccessivi, graficamente ingombranti, hanno trovato nel fumetto americano di supereroi il terreno migliore per esprimersi. Un campo, quello dei supereroi, irto di continui scontri, combattimenti, grida, da descriversi con il massimo della spettacolarità. I rumori hanno così incominciato a uscire dai bordi delle vignette, invadendo le aree bianche di divisione e addirittura i margini della pagina; hanno incominciato a farsi vivamente colorati, sono diventati tridimensionali, con lettere dotate di profondità come insegne pubblicitarie al neon; sono cresciuti in dimensione, sino a occupare vignette intere, pagine intere. In Europa sono rimasti in ogni caso più eleganti, e, in generale, anche più discreti. In alcuni casi, li troviamo parte integrante di composizioni graficamente preziose, oggetti visivi al pari degli altri sulla superficie della pagina, che vanno letti contestualmente alla situazione narrativa, senza tuttavia perdere del tutto l’effetto nobilitante della loro presentazione. In altri casi li troviamo persino espressi con una sfumatura ironica, con l’aria di dire qualcosa come: “Scusate se sono tanto banalmente un rumore, ma nei fumetti si usa fare così “.
Da letterista trovo questa analisi estremamente interessante. E pensare che è di 17 anni fa…