Oggi pomeriggio alle 18, al Centro delle Donne in via del Piombo 5 a Bologna, parlo di Diane Arbus. Non sarà una conferenza vera e propria. Mi è stato chiesto, qualche mese fa, se ci fosse qualche autrice che mi ha particolarmente colpito, e di raccontare, quindi, le ragioni di questo particolare interesse – all’interno di un ciclo tutto strutturato così. Certo, non è la Arbus l’unica autrice al mondo che mi ha colpito, però, per qualche ragione, ho subito pensato a lei.
La Arbus mi ha colpito in tempi molto antichi. Difficile dire quando e in che occasione ho visto per la prima volta le sue foto. Però, leggendomi un po’ di cose della sua vita (quella di cui stasera dirò solo i sommi capi: perché è delle sue foto che voglio parlare, e di lei solo attraverso di loro) ho scoperto che la mostra che l’ha resa famosa si è tenuta alla Biennale di Venezia nel 1972. Nell’estate del 1972 io avevo 15 anni, e facevo il mio primo viaggio da solo proprio a Venezia. I ricordi delle varie Biennali che ho visitato si sovrappongono, per cui non posso dire di avere ricordi di quell’edizione specifica. Ma sapendo quello che facevo in quegli anni, e le modalità del mio turismo, è estremamente probabile che io sia entrato alla Biennale e abbia visto quella mostra – del tutto all’oscuro di quello che stavo vedendo. Probabilmente nemmeno ho memorizzato il nome della Arbus, salvo riconoscere qualche anno dopo le sue foto, e imparare ad associarglielo.
È successo un sacco di volte nella mia adolescenza (e anche dopo, in verità) che delle immagini mi si imponessero senza associare loro un’identità, magari a volte senza nemmeno sapere che erano opera di un medesimo autore. Poi, a un certo punto, arrivava la scoperta.
La Arbus è nota come la fotografa dei mostri, e tuttavia sono proprio le sue foto di mostri a inquietarmi di meno. I suoi nani, le sue terrificanti drag queen, i suoi fenomeni da baraccone, i suoi giganti, mongoloidi, ermafroditi sono spesso semplicemente belli, malinconicamente teneri, molto umani. Del resto è lei stessa a confessare di sentirsi più a suo agio con loro, quando dice “La maggior parte delle persone vive nel timore di poter avere un’esperienza traumatica. I mostri sono nati già con il loro specifico trauma. Hanno già passato il loro test per la vita. Sono degli aristocratici.”
I veri mostri delle foto della Arbus non sono dunque i mostri, ma gli altri, quelli che ostentano una indubitabile normalità, mentre rivelano, nelle sue foto sempre (in questi casi) crudeli, una profondità di squallore, di perdizione, di incolpevole ma definitiva ottusità. Basta guardare questa coppia di adolescenti, colta nelle strade di New York nel 1963: poco più che bambini, da un lato; mentre dall’altro i vestiti, la posa e l’espressione dei volti sono mimati da un mondo adulto che appare come un destino obbligato, senza scampo – chiuso come quel muro alle loro spalle. Solo la presa nervosa della mano di lui sulla spalla di lei tradisce l’avventatezza del gioco: loro sanno di non essere ancora così, ma recitano a esserlo, perché è così che vogliono essere – e hanno trovato la fotografa che permette loro per un attimo di essere quello che ambiscono a essere: dei grandi, e dei grandi standard, normali.
Tutte le foto della Arbus sono duplici, a partire dalla banalità apparente delle inquadrature (figura centrata, sguardo in macchina, magari lei che sta dicendo “guarda l’uccellino”) che nasconde una finezza straordinaria di costruzione. Una banalità della forma che si rispecchia nella banalità delle vite fotografate, e a cui corrisponde invece un malessere profondo, uno sconfinato male di vivere. Potremmo chiamare in gioco quella che Hannah Arendt chiamò, ad altro proposito, la banalità del male, o magari la malignità del banale.
Certo, non è necessario vedere tutto questo grottesco, questa tristezza, all’interno delle vite normali. Il normale, il banale, sono tali proprio perché di solito non ci danno motivo di interesse, né in positivo né in negativo. Probabilmente, la capacità della Arbus di tirare fuori tutto questo malessere nascosto, di rivelare il male, deriva dal fatto che questo male stesso ha casa dentro di lei – e ogni volta, nel fotografare il mondo, lei sta fotografando se stessa, quello che ama e insieme odia di più.
Mi fermo qui. Il resto lo dirò stasera, guardando le 80 foto che ho scelto – o che mi hanno scelto.
La info ufficiale dell’evento (e il commento è ancora scritto da me) si trova comunque qui, mentre un’informativa sul ciclo nel suo insieme può essere letta qui.
Grazie per questo piccolo ma saporito assaggio … un vero peccato non aver potuto partecipare. Leila
Complimenti.
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