Ho improvvisamente capito, in questi giorni, perché sono così restio a parlare della rivista di satira Mamma!. Certo, sono restio perché non riesco a farmene un giudizio chiaro; questo già lo sapevo. Ma quello che ho capito ora è proprio la ragione per cui io non riesco a comprendere se quella satira sia buona oppure no, se mi piaccia o no. E con questo non voglio suggerire, implicitamente, una valutazione negativa, però nemmeno una positiva. Il problema è proprio che io non sono in grado di comprenderlo, non sono in grado di sentirlo, se mi piaccia o meno. E ora ho capito il perché.
Ci è voluta la barzelletta sulla mela al sapore di fica raccontata dal nostro grande capo (che conoscevo già, da anni, e a suo tempo mi aveva anche fatto modestamente ridere – ma così, in quel contesto, raccontata in quel modo da colui che mi dovrebbe rappresentare, mi ha suscitato un sentimento di vero orrore, nausea, spavento). Ci è voluta una riflessione sullo humor come strumento di potere fatta dal lettore Sandro e riportata dal blog di Giovanna Cosenza. E ci è voluto, a suggellare il tutto, l’articolo di Francesco Merlo, su La Repubblica di ieri, martedì 5 aprile.
È proprio Merlo che a un certo punto dice: “forse dovremmo persino astenerci dal ridere, come nel Risorgimento, quando gli italiani rinunziavano a comperare il divertente ‘Figaro’, vale a dire rinunziavano a ridere per non sovvenzionare gli austriaci.” Ve li vedete gli italiani, anche quelli di sinistra, dico, che rinunciano a guardare le reti Mediaset? L’analisi di Sandro sull’uso della barzelletta come strumento di potere fate prima a leggervela direttamente qui: sono poche righe, e ne vale la pena. (Non condivido però l’aggiunta della stessa Cosenza, secondo cui “tutti i media che riprendono, più o meno scandalizzati, la scenetta non fanno altro che sottolineare e amplificare – una volta di più – la leadership di Berlusconi”. Sarà anche vero che sottolineano la leadership; però cosa facciamo di queste cose? Le ignoriamo? Facciamo finta che il grande capo non ci sia? O che sia una persona seria? Le leadership non sottolineate non vengono neanche abbattute. Stanno lì, perché non ce ne importa a sufficienza.)
Sono cresciuto in un ambiente in cui girava lo slogan “Una risata vi seppellirà”. Era eccessivo come tutti gli slogan, ma conteneva un fondo di verità, perché il dissacrare può far male al potere; e il mitico pernacchio napoletano di Edoardo De Filippo ne è un esempio memorabile.
Ma oggi le cose sono diverse. Il grande capo è spregiudicato, e non gli importa da dove vengano le idee. A lui basta che servano. Le sue risate stanno seppellendo oggi tutto quello in cui crediamo: lo stato di diritto, la legge, la giustizia… E ridere di lui non serve, perché il meccanismo gli è chiaro, e sarà lui il primo a ridere con te, neutralizzando qualsiasi tuo potere dissacratorio.
Non si può dissacrare il grande capo. Ormai più dissacrato di così è impossibile. Eppure sta ancora in piedi, indifferente, anzi persino rafforzato dalle messe in ridicolo. Lui sa di essere ridicolo, e sa anche che questo fa parte della sua forza, perché il suo potere si basa su qualcosa a cui il ridicolo non può nuocere.
Per questo non riesco a leggere Mamma!. Per questo la satira oggi mi sembra un esercizio di cattivo gusto autolesionista; uno sconsolato vorrei ma non posso. E la complicità che l’umorismo richiede e produce mi sembra, quando va bene, la complicità dei rassegnati, di chi non ha altre armi che queste, inutili. Quando va male, poi, mi sembra complicità col grande capo stesso, il padrone delle barzellette, il signore della risata inutile.
A suo tempo sono stato lettore affezionato del Male, e poi di Tango e Cuore. Non mi facevano questo effetto qua. Mi piaceva ridere. Il grande capo mi ha rubato anche la possibilità di ridere, persino di lui stesso.
Che tristezza, davvero! Magari non ci resta che piangere? Andiamo in piazza, piuttosto. Non so quanto davvero serva, però oggi, di sicuro, serve più che ridere; e facciamolo prima che una risata ci seppellisca del tutto, ahinoi!
Tu dici: “Le leadership non sottolineate non vengono neanche abbattute. Stanno lì, perché non ce ne importa a sufficienza.”
“Abbattere” una leadership si fa in regime di dittatura: partigiani, guerriglia, rivoluzioni di piazza con armi, morti e feriti. Cioè “si abbatte” (anche) con la violenza fisica.
In democrazia invece si vota (vogliamo lamentarcene?) e, se si vuole cambiare chi ha la maggioranza, occorre persuadere a votare da un’altra parte non coloro che non cambieranno mai idea, che ci sono sempre e sempre ci saranno, ma gli indecisi (la buona notizia è che sono sempre più numerosi) e i delusi e propensi ad astenersi (anche questi sempre più numerosi) .
Ma se quest’altra parte non comunica mai in modo autonomo, perché le mancano idee, programmi e contenuti e preferisce nascondersi sempre dietro la magnificazione del capo attuale (nel bene o nel male, sempre magnificato è), a questi indecisi si continua a mostrare che il capo è uno. Dunque, finiranno o per astenersi o per votare a loro volta quel capo lì (o suoi fiancheggiatori meno barzellettieri come la Lega).
Il tuo non essere d’accordo con la mia aggiunta è esattamente il motivo per cui la sinistra italiana, specie da quando c’è il Pd, ma anche prima, continua a perdere.
Banale ma duro da digerire, semplicemente perché la sinistra da salotto ha ancora in testa il mito della rivoluzione di piazza (che peraltro non ha mai fatto, ma ha letto male sui libri), dove i regimi si “abbattono” anche con la violenza (più tutta una serie di strategie internazionali di intelligence e di sostegno economico e militare agli abbattitori, che però la sinistra del salotto non ha mai studiato).
Ma in democrazia non si “abbatte” un bel nulla. Il che è una fortuna, naturalmente.
Non a caso – dimenticavo – pure tu dici: “andiamo in piazza”. In piazza la gente ci va in continuazione in Italia…
O pensi alle piazze nord africane? Che non sono comparabili alle nostre per le ragioni che ho appena detto?
Il mito della piazza, appunto. È questo che frega gli intellettuali di sinistra italiani.
Con affetto, eh.
🙂
Giovanna, lo so che quella è la tua posizione; e ho usato la parola “abbattere” in maniera volutamente un po’ eccessiva, perché quello che sta succedendo in Italia ha molto poco a che fare con la dialettica delle democrazie, che sono quei posti in cui quando uno è sospettato di aver copiato una tesi di dottorato si dimette dalla carica politica che ricopre. Anche se non condivido la linea politica della Merkel, non mi sognerei mai di usare la parola “abbattere” nei suoi confronti.
Detto questo, l’inutilità della satira di sinistra è parente anche della scarsa utilità di mostrare il video di Berlusconi che racconta una barzelletta. Sono del tutto d’accordo che il punto non è lì, e che il discorso va fatto principalmente in altro modo.
Tuttavia, anche solo per vedere la cosa in termini elettorali, la necessità di conquistare dei voti è solo una parte del problema. L’altra (o UN’altra) è quella di non disperdere i voti potenzialmente già antiberlusconiani. L’indignazione serve anche a questo; e diffondere quella roba serve ad alimentare l’indignazione.
Le piazze (non quelle disperate maghrebine) sono il luogo in cui questa indignazione si manifesta e si rafforza reciprocamente tra le persone. Forse non fanno acquistare voti. Ma forse evitano di perdere quelli che già ci sono. O almeno mi fanno sentire meno solo.
Sul fatto poi che la sinistra debba imparare a comunicare in modo autonomo, sono evidentemente d’accordo con te – così come sulla tristezza infinita delle campagne di Bersani. È qualcosa che ci vuole, senza dubbio. Probabilmente è anche la cosa più importante. Ma il mio discorso in questo post era un altro.
Aggiungo, perché mi pare utile, il collegamento al commento di Barbara Spinelli su Repubblica di oggi (segnalato dalla lettrice Ilaria in un commento al post della Cosenza di cui sopra).
Vale la pena di riprendere anche la citazione che Ilaria ne fa: “Ha un suo sogno ridicolo e non sottile, l’uomo Berlusconi, ma c’è del metodo e anche una cinica conoscenza delle cose, nel suo architettare villaggi finti: c’è la rappresentazione di una gioventù scombussolata da lavori senza futuro, e di un’Italia ridanciana, indifferente alle leggi perché dalle leggi non protetta. Un’Italia con la quale Ubu s’identifica, e che s’identifica con Ubu. Basta divenire padrone delle parole e delle leggi, per storcere gli eventi e capovolgerli. Risultato: quello di oggi non è un processo per concussione e minorenni prostituite. È un monumentale processo al desiderio, alla simpatia, alla leggerezza, alle risate. L’ironia, la più eccelsa delle arti, è usata come arma micidiale che sminuzza i fatti e li rende irriconoscibili. Niente mi minaccia, se ci rido sopra. Niente m’insidia, se come Napoleone m’impossesso dei sogni di soldati ed elettori. È il sotterfugio offerto sin dall’inizio dalle sue tv, tramite le quali conquistò le menti e l’etere. Lui ri-crea un mondo ma frantumato, e nel frammento vivi bene perché non vedi il tutto, non connetti i fatti tra loro sicché li scordi presto. Robin Lakoff, denunciando i nuovi demagoghi delle destre americane, parla di agenda dell’ignoranza.”
Poi, guarda caso, il commento della Spinelli finisce col citare il mio medesimo slogan.
Daniele, tu a che numero della rivista ti riferisci? Dopo il primo, gli altri sono decisamente “deberlusconizzati”.
In ogni caso credo che di strumenti per ribellarsi ed esprimersi ce ne siano tanti oltre alla piazza che tu invochi.
Mettila cosi’: se il valore della nostra rivista puo’ essere relativo per i lettori, per noi che la scriviamo, la disegnamo e la facciamo ha il valore assoluto di un atto di ribellione, un grido che rompe il silenzio di una generazione mandata al macero dalla gerontocrazia che non si schioda dai posti di potere, anche e soprattutto a sinistra e nel settore editoriale.
E questo e’ qualcosa che richiede molta piu’ fatica e a mio giudizio produce molto piu’ cambiamento delle solite processioni di piazza, che per giunta negli ultimi tempi sono degenerate al punto da portare sul palco l’avvocato di Andreotti, quella che ha fatto il tifo da stadio davanti alle telecamere quando il suo assistito e’ stato prescritto perche’ il suo legame con la mafia era stato accertato troppo tardi. Di quella piazza ne abbiamo parlato abbastanza male qui:
http://www.mamma.am/mamma/articoli/art_8311.html
In ogni caso, anche se tu li usi come concetti intercambiabili, credo che ci sia differenza tra comicita’ e la satira. Nel secondo caso il punto non e’ ridere, ma dire oggi con un linguaggio diverso che il potente tizio e’ un mafioso, perche’ i tribunali lo diranno tra vent’anni quando tizio sara’ stato prescritto, e i giornalisti potranno dirlo solo quando lo avranno detto i tribunali. A questo aggiungici che la satira e’ solo una delle tre gambe su cui si regge il piano editoriale di Mamma!, le altre due sono il giornalismo di approfondimento e il giornalismo a fumetti.
Insomma, non abbiamo la pretesa di piacere a tutti, ma non mandarci tutti in piazza, c’e’ bisogno anche di qualcuno che provi ad aprire strade nuove con strumenti di carta.
In ogni caso e’ sintomatico del clima culturale in cui viviamo che anche di fronte ad una rivista che finora ha parlato di editoria, grandi opere, africa e follia, il centro di tutta la riflessione sia Berlusconi e il metro per valutare ogni azione sia la sua presunta efficacia nel far cadere Berlusconi.
Da questo punto di vista, hai ragione: la nostra rivista non cambiera’ di una virgola il potere del capo. Ma d’altronde se non c’e’ riuscito neanche il Fatto Quotidiano, noi cosa potevamo pretendere?
Il mio metro di valutazione invece e’ diverso, e non e’ la pericolosita’ della rivista per il capo dei capi. Se riusciremo a radunare un piccolo gruppo di lettori che ci permetta di pagare tutti i collaboratori a tariffe di mercato entro i 30 giorni previsti dalla legge avremo fatto una piccola rivoluzione nel panorama dell’editoria. E forse il primo battito d’ali di farfalla che puo’ innescare una valanga puo’ essere una rivista che non ha nemmeno un centimetro quadrato di pubblicita’, e’ autoprodotta dai suoi autori ed e’ libera dal controllo di partiti, banche e cricche. Saremo davvero liberi dalla nostra schiavitu’ culturale quando torneremo a ridere, leggere e informarci per il gusto di farlo, e non solo perche’ quella risata, quel giornale o quel libro possono far cadere dal trono il re.
Anche la tua visione del pernacchio mi sembra troppo berluscocentrica. E’ vero, non e’ servito alla dissacrazione del Capo per antonomasia, ma quest’estate proprio una serie di pernacchie ha fatto gettare la maschera a Fassino e a tutta la sinistra al caviale che ha srotolato i tappeti per un collega in odore di mafia chiamando squadristi quelli che lo contestavano in nome del decoro istutizionale. E per me le pernacchie servono come antidoto alla megalomania di tutti i potenti, non soltanto di quelli che siedono a palazzo chigi.
Insomma, Daniele, quando hai finito i riti di piazza se ti resta un po’ di tempo per noi, ospiteremo volentieri i tuoi scritti, anche per ragionare sul senso che ha adesso in Italia fare una rivista e aprirsi con l’accetta spazi liberi da riempire con disegni parole e fumetti. Secondo me la parola scritta, l’illustrazione e la carta stampata un senso ce l’hanno ancora. Almeno per noi che stiamo nel retrobottega.
Insomma, magari e’ un gioco innocuo, non stiamo scrivendo pagine di storia, non saremo la rivista da cui partira l’assalto al palazzo, ma che ti costa, lasciaci giocare, che non facciamo male a nessuno, e di questi tempi non far danni e’ gia’ un grande merito. Tanto poi in piazza ci andiamo lo stesso.
Un cordiale saluto
CG
Caro Carlo, ho premesso da subito a tutto il mio discorso che non ce l’avevo con Mamma! e che non volevo suggerirne nessuna valutazione specifica. Il punto è semmai che volevo capire il perché di questa mia resistenza, o di questa mia difficoltà a farmi un’opinone.
Se vuoi, l’intervento è stato uno sfogo demoralizzato, che vi tocca tangenzialmente.
Ora, capisco bene il vostro impegno, e lo condivido pure. E questa è la parte positiva, che forse avrei dovuto a sua volta sottolineare (ma il tema non era quello).
Poi, tu mi dici ora che le pernacchie sono servite a far gettare la maschera a Fassino. E anche questo va bene, è positivo. Ma Fassino è una persona normale, come in generale la sinistra italiana. Li si vorrebbe più attivi e intelligenti, non c’è dubbio. Ma fa parte di una persona normale il fatto di avere un fondo etico, persino quando è un mascalzone. Il fondo etico di Arnaldo Forlani, per esempio, veniva fuori in forma di bava bianca alla bocca quando era sotto processo a Tangentopoli. Forlani era tutt’altro che uno stinco di santo, ma lì era ben consapevole di essere stato preso con le mani dentro la marmellata, e si vergognava come un cane. La satira non è un processo, ma quando ha effetto è perché riesce a mettere qualcuno di fronte alle sue responsabilità, e a mettere alla luce quel fondo etico – fosse anche solo per salvare la faccia di fronte al fondo etico degli altri.
La sinistra il fondo etico ce l’ha. Credo che ce l’abbia persino Casini (molto in fondo, visto che l’aveva persino Forlani…) e persino Fini.
Ma dove il fondo etico non c’è, la satira mi sembra un’arma spuntata, inutile, in qualche caso persino controproducente. Questi sono impermeabili persino ai processi! I Leghisti si sentono mandati da Dio, autentici fondamentalisti. Gli altri sono mandati da B., che è più o meno lo stesso. Lui, poi, è B., e credo che della parola etica non conosca nemmeno il significato (le divinità sono esentate, come è noto).
La piazza, anche questo l’ho detto, non sono affatto certo che serva – se non a noi, e a chi sta dalla parte giusta, per sentirsi sostenuto. Non so se sia davvero quello il punto. Forse ha davvero ragione la Cosenza: dovremmo evitare di parlare dell’elefante, e concentrarci sulla comunicazione della sinistra. In teoria è giustissimo. In pratica mi appare impossibile, nell’attuale situazione dei media in Italia.
Insomma, voi andate avanti. Potete contare sul fatto che chi vota a destra certamente non vi legge. Magari potremmo provare a far finta che questa destra non esista, o prenderla alla larga come fanno Bucchi e Altan. Capisco che è difficile lasciar perdere uno Scilipoti, o un Calderoli, che sembrano creati apposta per essere oggetto di satira – e le pagine bisogna pur riempirle – e magari la gente si aspetta pure che se ne parli. Ma non sono certo che ci faccia bene. Nella misura in cui riusciamo a fare come propone la Cosenza, credo che dovremmo provare a farlo.
Scusate lo spirito demoralizzato, e buon lavoro.
db
Ciao Daniele,
Avevo perfettamente colto il senso del “pessimismo cosmico” che traspariva dal tuo scritto, e quindi non l’ho mai presa sul personale. E anche se fosse, ognuno e’ libero di dire che una rivista non gli piace.
Ma cio’ nonostante, ci tengo a proseguire il contronto perche’ mi sembra interessante, e per farlo riprendo un tuo passaggio chiave: “Ma dove il fondo etico non c’è, la satira mi sembra un’arma spuntata, inutile, in qualche caso persino controproducente”.
Premesso che dopo le bombe sulla Serbia io il fondo etico di Fassino ancora non riesco a vedere dove sia, e si scende sempre piu’ in basso 🙂
Il punto e’ che a mio avviso si dovrebbe allargare l’orizzonte di riferimento, per dare una valutazione piu’ ampia dell’utilita’ di qualunque iniziativa sociale che vada al di la’ della domanda “danneggia Mr B. oppure no?” Oltre ad essere un’arma contro il potere, l’atto stesso di partecipare ad un laboratorio di artigianato editoriale puo’ cambiare in meglio la vita di chi ne fa parte, sicuramente piu’ dello stesso tempo affidato all’esposizione televisiva.
Tanto per fare un esempio, e con le dovute proporzioni: a che diamine e’ servita la “Lettera ad una professoressa” di Don Milani? La scuola di oggi e’ piu’ classista di quella criticata da Don Milani.
Ma se proviamo a distogliere l’attenzione dal potere per ragionare su QUEI ragazzi e su quelli che hanno letto QUEL libro, io credo che l’impatto di quel testo sia stato formidabile.
E forse il nodo della questione e’ proprio questo: stiamo cercando l’azione comunicativa di massa che possa rovesciare il regime, ma fare massa e’ gia’ assecondare il regime. (Cfr Danilo Dolci, “La comunicazione di massa non esiste”).
La mia personale convinzione e’ che l’editoria, come il fumetto, la politica, il giornalismo e l’alternativa, sono cose che vanno PRATICATE per essere efficaci, evitando che restino solamente DISCUSSE.
Un’altra convinzione che ti porgo e’ che l’antidoto piu’ efficace alla subcultura di massa sia la biodiversita’ editoriale e la controcultura di nicchia, anzi la sommatoria di mille controculture di nicchia. Mi auguro che grazie alle tecnologie che ci hanno permesso di andare in stampa con 800 euro nascano centinaia di riviste capaci di strappare ragazzi in gamba dalla televisione, dalla pubblicita’, dall’editoria di plastica e da tutto quel veleno che continua a scorrere copioso mentre noi ci agitiamo impotenti come pesci in barile, forse perche’ rimpiangiamo vecchie soluzioni (il partito o il movimento popolare di massa) e quindi quelle nuove ci sfuggono sotto il naso.
Tanto per dire, noi oltre alla rivista stiamo provando a fare libri ( http://www.mamma.am/nonuke ) e a breve vorremmo avviare anche degli eventi di formazione. Tutto questo non sara’ di certo la spallata decisiva ad un ventennio di populismo fininvest, ma di certo fino a quando avremo un secondo e un centesimo da dedicare a queste cose credo che non potra’ farci che bene la dimensione del FARE in abbinata a quella del dibattere e del protestare.
In sintesi, il mio cruccio e’ quello che avvenga un passaggio generazionale di competenze, perche’ io ho avuto la fortuna di avere qualcuno che mi spiegasse come funzionava un giornale e come si mette in pagina un testo, e quindi mi sento debitore verso chi avrebbe voglia di imparare a farlo.
Se vuoi non chiamarla rivista, chiamala “laboratorio popolare autarchico di editoria” 🙂
E comunque grazie per l’attenzione che ci hai dato 🙂
Caro Carlo
sulla positività del fare, con me sfondi una porta aperta. I post immediatamente precedenti a questo sono proprio su questo tema (anche se in un ambito differente). Non c’è dubbio che fare una rivista (o il fumetto, o dei libri o il giornalismo o un sacco di altre cose) sia utile e positivo, e in sé molto più utile e positivo che discuterne (che pure è una cosa utile). Ma poiché non si possono fare le cose solamente per farle, le facciamo per uno scopo: una rivista deve vendere, almeno per continuare a esistere, e deve dare qualche idea o informazione a qualcuno, perché è per questo che facciamo una rivista invece che fare i salumieri (onesto mestiere che ci farebbe guadagnare mooooolto di più). Fare le cose e insegnarle a fare a qualcun altro è una cosa molto bella; però quante persone può mettere in gioco? 10? 50? 100? comunque poche rispetto ai lettori che una rivista può avere, e che non potremo mai trascinare nella dimensione del fare editoriale o giornalistico.
A meno che il fare trasmissibile non diventi un fare politico (che sia lo scendere in piazza, o trovare magari qualche modo più intelligente – che io non so immaginare, ma che mi piacerebbe – per mettere in crisi quella gente là); e che qualche effetto del nostro fare editoriale non si possa trasmettere a un fare diverso, come per certi versi è accaduto con don Milani. Non mi potete convincere che una rivista va fatta perché è bello farla – a meno che non siamo a scuola. Anche se è un “laboratorio popolare autarchico di editoria”, non può essere né solo né principalmente questo – a meno che non riusciate a trovare diecimila autori da coinvolgere, un intero social network. Be’, se così fosse, sarebbe fantastico. Ancora insufficiente per liberarci dell’infame, ma fantastico.
Insomma, cerchiamo di liberarci di lui, e prima di tutto nelle nostre menti (cosa non facile). E buon lavoro
db
B è come l’aria che respiriamo. Il fatto che continuiamo a respirare, non ci esime dal capire che l’aria è inquinata.
Chiedere ad autori di satira di far finta che B non esista sarebbe impossibile. Come chiedere a un cuoco di fare a meno del sale.
Che poi questo sale non abbia più sapore. che non riusciamo a nemmeno più a ridere di questa farsa che ci siamo scelti di recitare da un ventennio, e vabbeh, non lo si può rimproverare a chi fa satira.
Daniele, permettimi, B fa ancora ridere, siamo noi che abbiamo i muscoli della faccia atrofizzata. E sembriamo tanti, infelici, joker.
Daniele, che dirti? Se ci ragiono con la testa devo darti ragione: una rivista come la nostra e’ sprecata se rimane ristretta a pochi lettori, e bisogna avere obiettivi piu’ ambiziosi, o cambiare attivita’. (O cercare un editore puro, ma quelli sono ormai estinti peggio dei panda).
Ma poi ragionando di pancia la storia e’ come quella dello scorpione che uccide la rana che lo trasportava nel fiume, annegando assieme a lei. “E’ la mia natura, non potevo farne a meno”, diceva lo scorpione.
Tra penne e matite, di autori ne abbiamo coinvolti un’ottantina, non saranno quel “social network” che tu auspichi, ma comunque a me sembrano tanti e bravi. Il problema per molti di noi e’ che gli spazi per il tipo di cose che facciamo ormai si sono irrimediabilmente azzerati nell’editoria tradizionale, quelli per il giornalismo a fumetti non si sono mai aperti, e quindi ci siamo ritagliati questo spazio fuori mercato semplicemente perche’ non poossiamo fare a meno di scrivere, disegnare, sceneggiare e fumettare come piace a noi. Magari affonderemo nel fiume assieme a questa rivista come lo scorpione assieme alla tartaruga, ma e’ piu’ forte di noi: dobbiamo seguire la nostra natura.
Invano abbiamo atteso che qualche “grande vecchio” della satira ci guidasse verso una nuova terra promessa editoriale. Ormai ci siamo rassegnati all’autarchia, nella speranza che qualcuno capisca il potenziale nascosto di un genere che finora non e’ stato capace di rinnovarsi perche’ troppo legato a formule di successo del passato.
Quando saremo sul fondo del fiume, pensaci con affetto e non avere rimpianti per noi: saremo morti affogati, ma liberi, e lontani dalle finte zattere dei quotidiani dove ormai le ciambelle di salvataggio sono contate e riservate ai soliti pochi.
Un caro saluto.
PS Per Marco D: “far finta che B non esista” e’ proprio quello che abbiamo chiesto ai nostri autori negli ultimi due numeri, dove abbiamo affrontato i temi delle grandi opere, dell’Africa e della follia a prescindere dal tormentone nazionale. Il risultato mi sembra valido, proprio perche’ abbiamo potuto spaziare al di la’ della cazzata del giorno del capo o della notizia di cronaca. Provare per credere.
[…] poi nel caso di B – lo ricordava qualche giorno fa Daniele Barbieri – non ci sia più niente da ridere, nemmeno per ischerzo satirico, è pure vero. Magari, a guardare […]
E se un giorno iniziasse a dire “cose serie”? in quel caso ci sarebbe da ridere, o no?