A proposito di caratteri progettati per titoli e insegne, è notevole la diffusione negli ultimi anni di un carattere di oltre un secolo fa, il Copperplate, di Frederic Goudy (vedi Wikipedia, o ancora meglio, la pagina di Identifont). Non tanto per i titoli, ma se vi guardate attorno per le strade, o se sfogliate le pagine pubblicitarie delle riviste, non sarà difficile accorgervi del rinnovato successo di questo carattere.
Vorrei cercare di coglierne le ragioni, o almeno di fare qualche ipotesi.
Intanto, trattandosi di un carattere per titoli e insegne, la sua leggibilità è certamente meno rilevante che quando si parla di caratteri per il corpo del testo. Naturalmente, il carattere deve restare leggibile, ma è fatto per applicarsi a testi così brevi che le ragioni del guardare possono prevalere su quelle del leggere (prevalere non vuol dire soverchiare: se la leggibilità si perde, si perde il senso stesso della scrittura). In questo senso, il carattere inteso come figura trasmette più senso del carattere inteso come componente del testo verbale. Poiché un’insegna contiene tipicamente un nome proprio, o un nome comune che chiede di essere qualificato, la figura del carattere è esattamente ciò che fornisce la qualifica, ciò che dà senso (visivamente) a un testo verbale in sé abbastanza neutro.
Copperplate è un carattere elegante. Ostenta questa eleganza attraverso due caratteristiche volutamente notevoli (in quanto opposte alla forma normale dei caratteri): l’accostamento delle grazie con linee dal tratto non modulato (cioè di spessore costante – tipico dei caratteri senza grazie), e l’allargamento dei glifi sino a ottenere, nelle forme tondeggianti, degli ovali più larghi che alti (in quanto opposte alle forme tonde o più alte che larghe che costituiscono la norma). L’allontanamento dalla norma, ovvero da come sono di solito fatti i caratteri, viene qui ostentato, e poiché il carattere risulta per questi aspetti troppo particolare (troppo attirante l’attenzione su di sé anziché sul testo che ne fa uso), è chiaro che sono ragioni estetiche a motivarlo.
A differenza di altri caratteri di Goudy, tuttavia, il riferimento all’epoca (e agli stili) nel cui contesto è stato prodotto è molto leggero. Persino un lineare come il Goudy Sans, più “normale” e leggibile, tradisce gli anni in cui è stato disegnato più di quanto non faccia il Copperplate. Anzi, forse l’immaginario visivo di Goudy nel 1930 è rimasto leggermente indietro rispetto alle forme di quegli anni. Ma non tutti i font si costruiscono per esprimere lo spirito del presente.
Il Goudy Sans ha questa grazia da vecchie scrivanie dai cassetti bombati, con borchie in ferro battuto, e questa vocazione ancora molto liberty alle curve che cambiano frequentemente raggio. È un carattere assai raffinato, forse ancora più elegante del Copperplate, ma porta con sé quella sfumatura di estenuatezza che associamo costantemente alle forme dominanti all’inizio del secolo.
Il Copperplate è molto più ambiguo, da questo punto di vista. Contiene anche lui, per noi, mi pare, un riferimento all’inizio del secolo, ma non alle forme estenuate del liberty, dell’art nouveau, dello jugendstil. Il riferimento è semmai a una certa qual solidità industriale, relativa però a un momento in cui l’industria è nascente, e ha ancora forti legami con l’artigianato e con le gestioni famigliari.
È forse questo, allora, il segreto del Copperplate: dichiarare una natura industriale (che non si potrebbe comunque nascondere) alludendo alla sua matrice artigianale, e alla cura manuale che essa implica. In un mondo come il nostro, dove il “fatto a mano” rappresenta il non plus ultra, ma l’industria è comunque inevitabile, i suggerimenti del Copperplate sembrano l’ideale per connotare negozi e prodotti – almeno sino a quando non avranno saturato la nostra vista, e non ne potremo più di vederli per ogni dove. La saturazione, quando alla fine si dà, rivela la natura dell’inganno: non ci possono essere tanti negozi e prodotti connotati al medesimo modo, e quello finisce per diventare, di conseguenza, un modo che puzza di falso.
C’è un altro carattere creato da Goudy che mi ha sempre divertito molto, ed è il Goudy Stout (cioè il Goudy robusto), con la sua eccessività e (anche qui) ostentata manualità. Ultimamente, me lo sono ritrovato davanti in più occasioni, ma non come carattere da insegne: si trova, in questi giorni, su due fogli A4 stampati al computer che fanno bella vista di sé sugli ingressi dei bagni della stazione di Pesaro (“Bagno uomini” e “Bagno donne”); e l’ho visto anche su un foglio, sempre di produzione artigianale, davanti a un bar, e la scritta era “Panini al prosciutto”.
Dovrei provarmi a decifrare quindi le misteriose ragioni per queste scelte (scelte chiaramente più estemporanee e meno riflettute di quelle che si fanno per una costosa e stabile insegna). Una ragione è facile: il Goudy Stout è evidentemente un font scherzoso, e mille volte meglio dell’insopportabile Comics Sans. Ma ce n’è una, che ipotizzo, ancora più facile: il Goudy Stout dev’essere entrato nel repertorio dei font standard, quelli che sono presenti per default su tanti computer, pronti all’uso per tutti i grafici improvvisati del mondo.
Ma questa disincantata riflessione mi getta di colpo una strana luce anche sulle ragioni vere del revival del Copperplate. Non che le ragioni eviscerate sopra non restino valide, ma non si può certo escludere che abbiano fatto la loro parte pure la diffusione in elettronica del font, e la pubblicità con cui sarà stato accompagnato presso gli studi grafici.
Un’ultima nota. Per chi ne vuole sapere di più sui font di caratteri, c’è l’ottimo sito Identifont che può rispondere a molte domande (tra cui aiutarvi a dare nome a un font che avete sotto gli occhi e non sapete cos’è) e da cui sono state tratte le immagini di questo post. Se invece volete una veloce ma consigliabile scorsa, secondo il sistema di classificazione dei caratteri Vox, potete consultare questa pagina dell’ottimo blog di grafica Misstypo.
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