Qualche giorno fa ho conosciuto Robin Wood (lo sceneggiatore di Dago, Nippur, Amanda, Martin Hel, Gilgamesh, Savarese, Mojado, Dax, Morgan e una quantità inverosimile di altri personaggi e serie). Tra le varie cose che ci ha raccontato c’è il fatto che “Robin Wood” non è uno pseudonimo, bensì un nome vero che gli ha tormentato l’infanzia, ma in seguito si è rivelato un vantaggio; c’è il fatto che ha fatto ben pochi anni di scuola, nonostante la competenza storica che dimostra nelle sue sceneggiature sia sempre esemplare; e c’è quella che mi ha colpito di più, ovvero il fatto che quando lui inizia a scrivere una storia non ha la più pallida idea di come proseguirà e di come andrà a finire.
Potrebbe sembrare una confutazione delle idee strutturaliste sul racconto, ovvero del principio che tutti i racconti si basano su schemi, ma non lo è affatto. Anzi, forse ne è una conferma: Wood avanza brillantemente nella stesura dei suoi racconti proprio perché questi schemi sono stati da lui interiorizzati, e anche molto bene, con tutta la casistica delle potenziali varianti canoniche e delle possibili variazioni non canoniche. Tanto più perché Wood è un maestro della narrativa seriale, e il lettore seriale ha bisogno di riconoscere gli schemi (magari, se è raffinato, per apprezzarne le variazioni) anche più del lettore non seriale.
Non è questo il punto, dunque. Se Wood progettasse le sue storie in maniera diversa, e magari più strutturale anche nella loro genesi, io non credo che vi si potrebbero trovare né più né meno schemi di quanti se ne possano trovare ora. Tuttavia, una differenza, e non da poco, potrebbe esserci lo stesso.
Pensiamo alla differenza che c’è tra il jazz e la tradizione musicale classica, o, per dirlo in maniera più esplicita, tra la musica che si basa sull’improvvisazione e quella che si basa sulla scrittura. La scrittura permette senz’altro alla musica un livello di complessità che l’improvvisazione non potrebbe mai raggiungere: non si possono far suonare insieme 90 strumentisti senza una partitura, a meno che non ci si basi su giri armonici stranoti e banali. Eppure c’è qualcosa nell’improvvisazione che la musica scritta non riesce mai a trovare: un livello di freschezza e di immediatezza che dipende proprio dall’entusiasmo dello stare trovando.
Trovare, tra l’altro, è una bella parola, che è entrata in italiano (come in francese) a partire dalla sua origine in campo musicale. Trovare voleva dire, in epoca medievale, inventare tropi, cioè variazioni, novità: era l’arte, appunto, dei trovatori. Trovare voleva dire avere l’intuizione improvvisa di un modo migliore per dire quella stessa cosa; l’arte di John Coltrane, insomma, il più grande trovatore del XX secolo.
Ora, certamente Coltrane conosceva benissimo tutti gli schemi possibili del suo campo musicale; eppure quando suonava, improvvisando, trovando, questi gli apparivano semplicemente come possibili prosecuzioni alternative, o come spunti per inventarne (dal latino invenio, che significa trovare) una nuova che solo assomigliasse alle vecchie; o anche per sceglierne una (vecchia) che nessuno aveva previsto che si potesse mettere lì.
I racconti, come la musica, sono certamente fatti per schemi. Ma quello che fa la differenza tra diversi livelli di qualità è il modo in cui questi schemi si combinano o si innestano tra loro. L’arte dell’improvvisazione ha certamente dei limiti, ma possiede il grande vantaggio dell’estemporaneità, del dover seguire il flusso che si sta implicitamente creando. E, qualche volta, sono proprio questi limiti a costringerci a uscire dal prevedibile.
Insomma, non mi dispiace pensare a Robin Wood come a una specie di Coltrane della sceneggiatura, con i limiti, ma anche le potenziali fluidità che questo comporta. Poi, certo, Wood può sempre rivedere quello che ha scritto, correggere e limare, o buttare e riscrivere. Coltrane non poteva.
Questa cosa che Wood comincia a scrivere senza sapere come si svilupperà la storia l’avevo già letta e la trovavo assurda. Soprattutto se abbinata alle dinamiche del racconto a fumetti. Ho letto che anche qualche scrittore si adopera in questo modo. In questo caso, forse, è un po’ più semplice perchè in corso d’opera si hanno i tempi per metabolizzare quello che sta accadendo.
Adesso, avendo letto molto di più di Wood, posso dire, a mia volta, di aver “interiorizzato” come lettore la sua scrittura, e la cosa non mi sembra più così tanto azzardata. Certo ci sarebbe da capire come riesce ad infondere tanta freschezza alle sue opere. Eppure alcune di queste (come il Cosacco, Nippur o lo stesso Dago) non credo siano tanto immediate nel processo di scrittura. Ma evidentemente riesce comunque a imprimere il suo metodo. Non a caso stiamo parlando di uno dei migliori scrittori sulla piazza 🙂
Intanto ho un’invidia profonda per l’incontro!
Robin Wood è il più misterioso e affascinante scrittore di fumetti in circolazione.
Si raccontano storie leggendarie sul suo gioravagare nomade per il sudamerica…
Ora anche questa cosa dello scrivere, senza un traguardo, sembra abbastanza inverosimile, per uno sceneggiatore di così lunga esperienza.
Ma forse, visto il personaggio, suona reale, incredibilmente reale.
Mi risulta che anche Isabel Allende, per lo meno nei suoi primi libri, senz’altro i (più) riusciti, scrivesse così, senza sapere dove la storia la portasse. Addirittura iniziò a scrivere Eva Luna pensando solo la prima fase (Mi chiamo Eva, che vuol dire vita, secondo un libro che mia madre consultò per scegliermi il nome.)
Però la Allende ha un vantaggio su Wood, ovvero che non è legata a una forma specifica di racconto; cioè il suo range di possibilità è enormemente più vasto.
Wood è legato a un formato, a un numero di pagine fisso, e a un tipo di storie che non può differenziarsi troppo. E’ un po’ come iniziare un sudoku vuoto mettendo dei numeri a caso come chiave, e poi cercare la soluzione a partire da quei numeri.
Certo che quando sei diventato bravissimo, quei primi numeri non sono proprio casuali, però comunque alla fine il gioco deve quadrare.
Nel caso della Allende le quadrature possibili sono molte di più.
Ho sempre avuto il sospetto che Wood tenda alla scrittura letteraria pura, e questa cosa me lo conferma. Wood è uno sceneggiatore della parola, secondo me nella scrittura del racconto a fumetti non procede per immagini ma per parole, non so se sono stato chiaro. Evoca attraverso le parole e racconta molto più con quelle che con le immagini delle vignette. In realtà nel fumetto, che è un racconto per immagini, si dovrebbe fare al contrario, cioè usare le parole solo quando le immagini hanno esaurito il loro racconto.
Sì, è chiaro e anche plausibile. Però credo che in questo Wood non faccia che proseguire un modo tradizionale di raccontare tipico del fumetto argentino.
Wood non è certo – mi pare – quello che si potrebbe definire un innovatore. È semmai la sintesi del fumetto da cui proviene.
È però vero, d’altra parte, che ormai ne è responsabile di una percentuale così alta che si fatica a distinguere tra lo stile medio argentino e quello di Wood.
il paragone con il jazz e con coltrane in particolare mi convince a metà.
non mi convince in particolare la differenza tra “scrittura” e “performance”. per quanto wood “improvvisi” non fa performance. la sua fiamma, per così dire, non si consuma sul momento.
l’improvvisazione jazzistica sì.
però è vero, tra i tanti esempi, cogli quello giusto a proposito della profondità di conoscenze, studi e interiorizzazioni (sonore, armoniche, ecc.) che caratterizzavano coltrane. le sue “strisce sonore” erano strumenti tecnici che john ripeteva all’infinito nei suoi studi, in modo da poterli “giustapporre” nei suoi soli, a piacimento, con grandissima velocità.
piuttosto mi vengono in mente altri autori “trovatori” degni di nota. per esempio il gipi di lmvdm, che realizza il suo fumetto mentre lo pensa. così come sfar, o recentemente fior. certo, partono da un’idea, da un progetto definito, ma poi, la realizzazione, dove prendono forma parole, linee, ritmo, colori, ecc. sono definite nel loro farsi.
questo spiega in parte, per es. nel caso di fior, la sua grande freschezza e immediatezza. la sua capacità di coinvolgere.
h.
Caro Harry
i paragoni sono sempre imperfetti, e in questo caso l’imperfezione sta proprio dove dici tu (come peraltro accenno anch’io alla fine del post).
E condivido l’apprezzamento per altri autori “trovatori”. Ma quello che mi colpisce, di Wood, è il suo lavoro seriale: una storia al giorno, sempre, e poi quella va. È questo che mi autorizza al paragone (un po’ forzato, certo) con la performance del jazz, in cui tutto deve accadere in quei tempi lì, e non puoi certo smettere di suonare per pensarci su.
Tutto sommato, Gipi, Sfar e Fior lo possono fare, e possono tornare anche indietro. Le scadenze non sono ugualmente pressanti. (e naturalmente questo permette anche loro una raffinatezza maggiore e un diverso pubblico)