Rispondo a Matteo Stefanelli che commenta il mio post del 26 febbraio (che a sua volta commentava il suo del 3 febbraio).
Direi che tra la situazione dell’origine del cinema e quella dell’origine del fumetto c’è una differenza cruciale, che cambia tutto il modo in cui si possono considerare le cose. Il cinema deve la sua esistenza a un’invenzione tecnica, quella dei fratelli Lumière. Prima non poteva proprio esistere, per banali ed evidenti ragioni tecniche. Non c’è dunque problema a posizionare l’origine del cinema. E tutto quello che è accaduto prima e che in qualche modo lo anticipa ne è chiaramente preistoria.
Ma il fumetto non si basa sostanzialmente su nessuna invenzione tecnica. Tutti gli elementi che lo costituiscono sono già comparsi prima che compaia Yellow Kid. È un poco come cercare di decidere quando nasce il jazz: il periodo lo sappiamo, ma qualsiasi anno di nascita preciso si possa proporre è facilmente e legittimamente contestabile. L’origine del jazz è un fatto sfumato.
A meno che non si possa decidere, con una certa dose di convenzionalità, un evento particolare e particolarmente importante che faccia da spartiacque. È ovvio che la vita di un cittadino romano non è cambiata gran che dopo quel fatidico 476 d.C., e non sono stati in molti ad accorgersi di quel venerdì 12 ottobre 1492: sono date simboliche, per le quali si è scelto un evento le cui conseguenze avrebbero poi, col tempo, mutato la storia.
Il 1895 o 1896 (a seconda che prendiamo la data di pubblicazione di Hogan’s Alley, oppure il momento in cui Outcault si mette a usare il balloon e la sequenza) è dunque una data simbolica. Poiché non possiamo adagiarci sulla sponda tranquilla di un’invenzione tecnica, la più turbinosa e discutibile subitanea diffusione di massa che avviene negli USA in quel momento può essere una buona data per posizionare lo spartiacque.
Non che in Francia e Inghilterra e Germania non fosse già successo niente: era successo un sacco di roba, lo sappiamo! Ma Caran d’Ache, poniamo, era davvero consapevole di stare utilizzando un linguaggio nuovo? Sapeva di essere bravo, quello sì. Ma in fondo non faceva che realizzare (moolto brillantemente) dei racconti illustrati che potevano fare a meno delle parole.
Io ho la sensazione che il successo industriale del fumetto negli USA, proprio perché così improvviso e dilagante, dia da subito la sensazione agli autori dell’epoca di avere per le mani qualcosa di nuovo. E magari si sbagliavano (perché gli Americani, di solito, non sono particolarmente colti, e amano pensare di aver inventato qualcosa di nuovo, in barba alla vecchia Europa), ma, anche sbagliandosi, si sbagliavano tutti insieme: e in questa (forse) illusione collettiva l’espressione comics è passata ad essere un sostantivo dall’aggettivo che era.
Se non ci fossero stati gli americani, gli eleganti autori europei avrebbero continuato – come già facevano – a realizzare raccontini per immagini senza balloon e senza invenzioni di messa in pagina: non avremmo cioè avuto McCay, per esempio. Di fatto, è proprio questo che è successo in Europa sino a tutti gli anni Venti; e solo le spinte innovative provenienti dall’America hanno cambiato la situazione.
Poi, Rubino e Tofano sono ugualmente dei maestri, e io li amo molto entrambi; ma non dimentichiamo che fine facevano le tavole di Little Nemo quando diventavano il Bubu del Corriere dei Piccoli! È un po’ come quando, studiando la preistoria, si scopre che c’erano regioni in cui si era già all’età del ferro, mentre altre, poco distanti, magari stavano ancora scoprendo il bronzo. Ecco, rispetto al fumetto è andata un po’ così: il bronzo l’abbiamo scoperto noi, e l’abbiamo insegnato agli americani, poi loro hanno capito come si faceva il ferro e noi no.
Per questo, finché qualcuno non mi propone uno spartiacque altrettanto forte, io continuo a metterlo lì, tra il 1895 e il (meglio) 1896. Non è cambiata molto la narrazione per immagini tra poco prima e poco dopo quel momento; ma senza quel momento non so se avremmo la narrazione a fumetti oggi.
Accolgo l’invito di Daniele con piacere. Condivido quasi del tutto il suo commento alle note di Matteo: sono sempre stato infastidito dalla pretesa storiografica di sistemare in maniera “definitiva” gli eventi, datandoli e ipostatizzandone la vocazione dinamica. Chi ha letto le mie cose, sa che alcune delle acquisizioni di Smolderen (autore di un saggio davvero importante) fanno parte da tempo del mio approccio socio-mediologico ai comics. Affermare che ciò che definiamo “fumetto” abbia uno oppure due secoli, insomma, è una querelle che mi lascia del tutto indifferente. Mi interessano di più altre cose. Tra cui: il fumetto è l’unico medium che non goda di un unico nome o piattaforma semantica (a differenza di cinema, radio, televisione ecc.), confermando la sua difficile “afferrabilità” o identificazione – qualcosa vorrà pur dire in termini di sistema comunicativo. L’altra (spingendomi oltre lo stesso Daniele) è che – più che gli autori – ciò che oggi identifichiamo come fumetto abbia goduto non solo di una consacrazione creativa da parte degli artisti, ma che sia stato sostanzialmente “inventato” dal pubblico metropolitano. Senza questa basilare componente “produttiva” (il consumo), la virtuosa sinergia tra ricerca espressiva individuale e logica degli apparati industriali (partendo, non dimentichiamolo, dalla grande stampa quotidiana di massa) non si sarebbe mai verificata. E oggi, forse, parleremmo d’altro.
Anche senza voler andare a caccia di certezze storiografiche, come ha ribadito Sergio Brancato, l’invenzione “sociale” del fumetto va fatta coincidere con l’affermazione di certe dinamiche produttive industriali americane.
Il che trova anche una conferma se analizziamo in termini semiotici gran parte dei fumetti delle origini. Notiamo che, al debutto, dimostrano gli stessi limiti del cinema di quegli anni (sto generalizzando, ma grosso modo…). Vi è una forte derivazione teatrale, la cornice dell’inquadratura viene interpretata come quinta. E perfino la tavola nel complesso tende ad assumere i ritmi narrativi aristotelici del teatro.
Se guardassimo solo al cinema, potremmo pensare a un semplice limite tecnologico, ma il parallelo con il fumetto ci permette di cogliere l’aspetto vero della rivoluzione di cui i “new media” si fecero portatori all’epoca. Un nuovo modo di guardare il tempo e lo spazio e, di conseguenza, nuovi modi di raccontare.
Con buona pace di Toppfer e dei suoi estimatori europei (questa la dico sottovoce, visto che scrivo dalla Francia…)
daniele: pare che i blog fumettologici si stiano animando. Proseguiamo 😉
Lo spazio è tiranno, però. Lo dico subito, perché le osservazioni che vorrei fare sono molte, troppe per una sede di questo tipo. Servirebbe un anno di tavole rotonde. Ma belle toste. Speriamo di poterne organizzare una, a breve.
Dico 3 cose a commento:
– condivido che per il fumetto non valgano considerazioni “tecnocentriche”, come l’idea di “invenzione di un dispositivo tecnico”, come per il cinema.
– condivido l’idea che 1895 o ’96 non siano che date simboliche. Ma pongo la domanda: simbolo di cosa?
– la risposta tua (subitanea diffusione di massa) e di sergio (“inventato” dal pubblico metropolitano) sono quelle con cui mi sono formato, e che continuano a darmi elementi utili e importanti. Ma che non chiudono il dibattito.
Problematizzo, allora, in 7 righe (orribile illusione):
– i tuoi azzeccati paragoni con il jazz o con le età del bronzo/ferro mi paiono ottime metafore per vedere il problema. Perché a mio avviso vanno viste così: l’età del bronzo è comunque una fase della storia dei metalli; e il jazz è comunque parte della musica contemporanea. Ovvero: non sono metafore di archeologie “generali” di una storia dei materiali o della musica, ma di genealogie su aspetti specifici. E’ così che si sposta l’asse dalla riflessione sulla narrazione per immagini (la musica, o i materiali) alla specifica specie “fumetto” (i metalli, o la musica contemporanea).
Il nostro problema: sono 40 anni che si studia l’età del ferro, ma l’età del bronzo? Oppure: sono decenni che sappiamo quali sono i primi blockbuster del jazz, ma da quanto (poco) tempo si sta approfondendo la fase “aurorale” della formazione di questo linguaggio e dei suoi pubblici?
Quel che hanno fatto gli americani e gli italiani (più influenzati dalla prospettiva USA che da quella francese) è stato “ipostatizzare” alcuni elementi: il mercato (leggi: il boom di Yellow Kid) e il consumo (leggi: il successo dei Sunday Comics Supplement) come fattori definitori. Ma attenzione: gli autori che pensavano di fare qualcosa di “nuovo” erano già Topffer & C. E di successi analoghi, extra-USA, ce n’erano già stati: il boom inglese intorno a Alley Sloper precede Yellow Kid. Dunque questo non basta a perimetrare un data “convenzionale”. Inoltre, la prospettiva linguistica: Little Nemo o altri inventano una nuova “messa in pagina”? Mica tanto vero (settimana prossima farò un esempio preciso di questo, sul mio blog, e poi ne riparliamo).
Una precisazione: anche a me interessa poco se ciò che definiamo “fumetto” abbia uno oppure due secoli. Anche a me non interessa perseguire obiettivi di “sistemazione definitiva” dei dati storici. Non servono a molto, in termini né di legittimazione (un’ansia tipica dei francesi, schiacciati da Bourdieu…) né di analisi estetica. E quindi combatto contro l’atteggiamento di chi vuole mettere su un piedistallo un “inventore” del fumetto (quel che sta accadendo a Topffer in Francia…).
Eppure il dibattito è cruciale, perché permette di iniziare a cogliere meglio una questione culturologica che pone anche Marco D’Angelo nel suo commento: il fumetto ottocentesco è un linguaggio visivo la cui identità non ha a che fare con il cinema, ma con la più generale frammentazione spazio-temporale – dello sguardo, dell’esperienza urbanam, della circolazione dei testi, ecc. – tipica della modernità che (solo più tardi) troverà un’incarnazioine nel cinema, ma che nel fumetto ottocentesco è pur presente e annunciata, sotto le forme (tradizionali) dello spettacolo teatrale “differito” in una scrittura visiva. L’età del “picturesque”, direbbe qualcuno…
Il dibattito che stiamo facendo mi sembra stimolante perché contiene un ingrediente in più, rispetto a quanto portato avanti in Francia nell’ultimo decennio: una serie di considerazioni sociologiche, che integrano l’approccio più linguistico dei vari Groensteen, Smolderen & C.
Non ha senso cercare primogeniture. Ma la convenzione sul 1895 o 1896, quella no, non la posso più accettare, al di là di una storia del mercato.
Il bello? E’ che stiamo iniziando solo ora a cercare una risposta diversa. La storiografia fumettologica di gente come Smolderen o Ian Gordon è interessante perché ha ricominciato (pianino, pochetto, e ancora impregnata di vecchi limiti) a “fare ricerca”, rischiando persino di mettere in discussione alcune precedenti acquisizioni che continuano a funzionare bene, ma che non bastano più. Con buona pace di Coulton Waugh.
[…] delle immagini finalizzate al racconto. Ma quella volta poi il discorso si spostò, grazie alla polemica con Stefanelli, sul tema dell’origine del fumetto. Voglio tornarci sopra ora, per vedere le cose da un altro […]