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Immaginate una lunga, ossessiva ripetizione di varie quotidianità, fatti banali, pensieri di ogni giorno, oggetti consueti. È quello di cui di solito non si scrive: non ci interessa il banale, il consueto, quello che conosciamo già benissimo perché ci viviamo dentro.
Adesso immaginate che in mezzo a queste banalità ce ne siano altre, che non si distinguono dalle prime per il modo in cui appaiono descritte, e che ugualmente sembrano fatte di piccole cose irrilevanti. E invece sono gesti di violenza, violenza terribile e mortale, o le banali conseguenze di questi gesti: i buchi nel corpo, la pelle come un vestito ristretto, il liquido rosso che cola, e sporca dappertutto.
Di colpo non solo la nostra attenzione si accende, i segnali del pericolo si mettono a strillare, la presenza del male traluce sgarbatamente nella trama rassicurante della quotidianità, ma per contrasto anche questa quotidianità si rivela rilevante, importante, cruciale. Come a dirci che per accorgerci di quanto sia importante questa cosa così inimportante da non valer la pena di scriverne, bisogna che sia sul punto di smettere di esserci, bisogna che sia compromessa, bisogna che il demone oscuro che essa nasconde stia arrivando in superficie, per mostrare che il demone oscuro non è meno presente e quotidiano e vitale dei gesti che lo tengono sedato, dei gesti che ci permettono di vivere.
Ma perché tutto questo dovrebbe essere detto in versi? Perché non utilizzare la forma racconto, piuttosto, che è quella ormai deputata a parlare di queste cose?
Magari c’è qualcosa, nell’iterazione dell’a capo del verso, che ha strettamente a che fare con l’iterazione dei gesti della quotidianità, col ritornare ossessivo dei pensieri delle cose di ogni giorno, col ritmo un po’ incerto, ma persistente, con cui le cose normali ci arrivano o escono da noi. E allora l’emergenza del male non solo si staglia contro i gesti della quotidianità, ma finisce per essere raccontata con il loro stesso ritmo, con la loro stessa modalità. Ed è questo l’orrore: trovarsi dentro alla morte, alla non-normalità per antonomasia, senza davvero essere usciti dalla normalità, senza aver cambiato mood, senza salti di registro, senza avvisi, senza colonna sonora ansiogena. Siamo ancora nel ritmo irregolare ma persistente del presente, del quotidiano interagire, del preoccuparci e dell’attesa; ma siamo anche, insensibilmente, dentro il dominio del male, della violenza che si fa e che si subisce, della forza del maschio che si fa rabbia e morte contro la debolezza della femmina, del dramma che fino all’ultimo pretende di non essere dramma, e che tutto è normale, tutto è come è sempre stato.
E poi, questo ritmo martellante, verso dopo verso, della normalità, si trova riprodotto, a livello più macroscopico, dal ritmo della successione dei componimenti, uno ogni doppia pagina, a sinistra una scarna descrizione dell’evento di cronaca, a mo’ di titolo, a destra le parole, i versi, la normalità, la violenza (qui, per ragioni di organizzazione dello spazio, li abbiamo invece dovuti montare in sequenza).
Solo che questo macro-ritmo, a differenza di quello dei versi, è una ricorrenza di morti – morti descritte come normali, certo, quotidianità violate e insieme ribadite, una dopo l’altra, una dopo l’altra, una dopo l’altra. Pagina dopo pagina, l’effetto complessivo è come quello di una serie di rintocchi funebri, una liturgia della carne e del dolore che si rifiuta di essere tale, ma lo è, e continua a esserlo, ostinatamente.
Si parla di violenza sulle donne, di nudi e distanti fatti di cronaca, in questo libro di Alessandra Carnaroli. Si parla della violenza che uccide la rete delle cose, e di come questa rete si difende sino all’ultimo, simulando la normalità persino nella propria espressione, senza riuscire a nascondere (o magari volutamente rivelando) che questa medesima normalità è gravida della propria distruzione, e che il ritmo non viene inficiato dalla propria irregolarità, che è anzi espressione vitale, passionale. Ma l’irregolarità contiene anche l’eccesso, e persino l’eccesso più mortale cerca disperatamente di restare a tempo, almeno sino a quando, all’ultimo, la coscienza non svanisce.
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P.S. Questo post, come alcuni altri che usciranno nelle prossime settimane, è una conseguenza della mia partecipazione a due delle tre giornate di RicercaBo, San Lazzaro di Savena (Bo) i gg. 18-20 novembre 2011.
oggi avrei scritto erba e detto
altro
grazie
“oggi avrei scritto erba e detto
altro”
intenso e breve frase lasciata come commento dall’ autrice immagino – un flash minimale – un punctum fotografico – come fosse una dedica a sigillo in calce alla “fine” del libro – trova a mio sentire accoglienza con gli altri qui efficacemente presentati. stile asciutto originale che s’ impone non al lettore ma nel lettore informandolo permeandolo con i suoi risalti dell'”ovvio della violenza normale” una scelta poetica ardita e riuscita questa di radicarsi a sondare un sociale sconvolgente e sommerso in cui le donne scontano gradi di violenza sulla loro psiche e sul loro corpo. la poesia quando trova la voce e la trae alla nebbia mostra (anche) il vero
a futura memoria
un saluto
paola
[…] le appartengono pure i versi di altri poeti di cui ho parlato in questo blog, come Giuliano Mesa, o Alessandra Carnaroli, o ancora, in diverso modo, Sergio Rotino. Non c’è dubbio che il tema affascini anche me, […]
[…] e di Andrea Raos, ma vanno in quella direzione anche certe cose di Sergio Rotino, Giuliano Mesa, Alessandra Carnaroli… Indipendentemente dalla qualità, a volte anche piuttosto alta, dei risultati, si tratta di […]