Immagini di Claudio Calia per "Piccola cucina cannibale", SquiLibri 2011
Negli ultimi decenni del Cinquecento, a Firenze, un gruppo di intellettuali innamorati di un mito prese un gigantesco granchio storico, e sulla base di quello inventò una delle forme artistiche di maggior successo dei secoli a venire: il Melodramma, detto anche Opera Lirica, o Teatro musicale. Bardi, Galilei (Vincenzo, padre di Galileo), Rinuccini, Peri, Caccini, de’ Cavalieri e Mei credevano di stare facendo rivivere la recitazione musicata dell’antica Grecia. Ancora oggi non abbiamo un’idea chiara di cosa accadesse in verità nei teatri dell’antica Atene, ma di sicuro non è quello che loro credevano. Tuttavia, sulla base di un principio errato, gli amici della Camerata fiorentina avevano fatto l’invenzione giusta, e gettato le basi per quattro secoli e più di ininterrotto successo.
C’è un principio che potremmo definire multimediale all’origine del Melodramma: parola, musica e scena agiscono insieme per determinare uno spettacolo totale, insieme sonoro, verbale e visivo, di grande capacità di coinvolgimento. Certo, per loro si trattava principalmente di un’amplificazione della parola poetica, un recitar cantando in cui la musica doveva sostenere l’espressività, e la scena visiva fornire le coordinate narrative. Solo l’opera francese (pur creata da un italiano) cercherà il più a lungo possibile di mantenere questo modello. In Italia (e l’Italia in musica dettava legge) ci volle poco perché il bel canto trionfasse, facendo del libretto poco più che una scusa – e quindi pazienza se non era gran che. In seguito, certo, tra i librettisti c’è stato pure Da Ponte; ma la grande rivoluzione del Wort-Ton-Drama wagneriano, che a sua volta tornava a inseguire pervicacemente il mito di una musica che esprimesse l’emozione che il testo diceva, non si fonda certo sulle qualità di poeta di Wagner…
Comunque andasse, nella storia del Melodramma, la componente musicale ha finito regolarmente per trionfare su quella poetica. Presumibilmente, quando parola e musica vengono emesse insieme, il portato emotivo della seconda finisce per mangiarsi quello della prima. Se poi c’è anche la componente visiva, cioè la scena (coi fondali, gli attori, l’azione drammatica), la parola conta ancora meno. Non potrebbe scomparire, certo, perché la presenza di certe parole o espressioni chiave è quello che permette di capire lo sviluppo drammatico; ma tutte quelle sottigliezze poetiche che potrebbe avere, o che magari che la parola davvero ha, finiscono poco o per nulla percepite. E allora, perché sforzarsi per mettercele? poco ascoltato per poco ascoltato, un testo banale varrà praticamente come uno interessante!
Questo resta vero anche per le canzoni di oggi. Quanti sono i cantautori che scrivono testi che reggerebbero anche senza la musica? Quanto davvero ci importa dei testi di tante canzoni, anche belle, se non come il supporto su cui articolarne le note? Quanto ci importa delle qualità dei librettisti dell’opera? Sorridiamo con ironia nel leggere certi testi, ma poi La Traviata resta La Traviata!
Poesia e musica sono state a lungo molto vicine. Così vicine che, se si generalizza quello che abbiamo appena detto, viene il sospetto che la poesia si sia separata dalla musica, sostanzialmente diventando poesia scritta, per acquisire visibilità. E la parola magica, visibilità, mi è uscita quasi accidentalmente: la poesia sarebbe quindi stata scritta per poter essere finalmente vista (e non solo udita), ma anche per acquisire un’autonomia che la sottraesse al dominio della musica, rendendola anche culturalmente visibile. Poi, certo, la poesia ha continuato a prestarsi alla musica: l’essenziale è il possedere anche una dimensione che sia interamente propria, non il sottrarsi a quelle condivise.
Piccola cucina cannibale è un’opera a tre mani: il poeta (e performer) Lello Voce, il musicista Frank Nemola, il disegnatore Claudio Calia. Ritrovo, nel loro lavoro, lo spirito mitologico e utopistico della Camerata fiorentina, e la stessa propensione a realizzare un’opera che coinvolga la parola come il suono come l’immagine. Il mito non è forse quello della grecità, ma quello della voce come essenza profonda della poesia, nella sua arcaica radice orale – ma certo è anche, in fin dei conti, quello della grecità, se pensiamo all’aedo Omero, quando la scrittura non era ancora stata adottata. E la multimedialità non è quella del Melodramma, ma comunque qualcosa di più adatto all’epoca della riproducibilità tecnica: un libro scritto, con immagini disegnate, e un cd con le esecuzioni dei brani poetici, accompagnati da musiche.
Il tutto è di ottima qualità. I testi poetici, che sono il centro del lavoro, si leggono e si ascoltano con piacere, accompagnati da belle musiche, con immagini evocative. Il risultato, qualunque cosa esso sia, è interessante, spesso coinvolgente… Alcuni pezzi, come la riscrittura della Canzone del maggio, o il componimento Il verbo essere, con cui si chiudono libro e disco, sono davvero memorabili.
I testi di Voce, non c’è dubbio, reggono anche senza la musica. Eppure, nel loro essere stati concepiti evidentemente per la performance, guadagnano qualcosa mentre perdono qualcos’altro. E tanto più, questo, nell’esecuzione orale, accompagnata dalla musica, nella quale certamente il fatto di essere recitati (e non cantati) li mantiene comunque fortemente presenti, in netto primo piano.
Guadagnano, direi, il portato della voce e dei suoi specifici andamenti e ritmi intonativi, e guadagnano l’intorno emotivo della musica, e quello visivo della scena che in verità non vediamo ma che ci viene in parte restituito dai disegni di Calia. Guadagnano quindi in complessità, in ricchezza.
Perdono però, mi sembra, in essenzialità, in nitidezza, in precisione.
Perdono, presumibilmente, qualcosa che non sono particolarmente interessati ad avere. Come facevo osservare la scorsa settimana, è spesso l’andamento liturgico a essere l’elemento dominante in poesia, e tanto più nella sua versione orale. Quello che la poesia effettivamente dice non è necessariamente dominante rispetto a quello con cui essa ci chiede di metterci in sintonia. L’elemento rituale è indubbiamente più forte in una poesia fatta per l’ascolto, piuttosto che in una nata per la lettura concentrata.
L’operazione di Lello Voce è indubbiamente legittima e interessante, ma corre il rischio di fare la fine del Melodramma: il successo storico, a dispetto del non essere ciò che avrebbe preteso di essere. E solleva un dubbio: tornare alle origini orali della poesia non ci mette a rischio di perdere quello che si è acquisito con la sua dimensione scritta? O, in altre parole: dopo tanti secoli di poesia scritta, quella orale e sonora è ancora poesia per noi? Siamo capaci di sentirla come tale, oppure la nostra sensibilità è ormai diversa, e chiediamo a ciò che chiamiamo poesia qualcosa di differente da quello che le veniva chiesto quando la poesia era davvero orale?
E ancora. Se si rafforza l’elemento rituale, si indebolisce quello dell’io, quello dell’espressione emotiva. E questo appare in linea con le tendenze antiliriche che si agitano in questi giorni. Ma si tratta di una coincidenza apparente. O forse è davvero questa l’unica vera possibile riduzione dell’io, in poesia. Nelle altre, il soggetto tende sempre surrettiziamente a rientrare.
Insomma, Lello, vai avanti, che la strada è interessante. Però permetterci di vedere le differenze, e di salvare non solo la tradizione orale, ma anche quella scritta, più vicina a noi e a quello che immaginiamo, quotidianamente, quando diciamo poesia.
15 Febbraio 2012 | Tags: Edoardo Sanguineti, poesia, ritmo, rito, sacro | Category: poesia | Edoardo Sanguineti, “Laborintus” 1 (1956)
Devo a un piccolo dibattito con Lello Voce (iniziato qui e poi proseguito in privato) la lettura che sto facendo di Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale (Il Mulino, 1984). Vi ritrovo molte cose che mi sono note, ma anche delle osservazioni interessanti, e qua e là annotazioni che mi stimolano la riflessione.
A un certo punto Zumthor fa un accenno alle situazioni di diglossia, dicendo (p. 170) che “quando regna una situazione di diglossia, una delle due lingue può farsi carico, sotto la spinta delle circostanze e grazie all’iniziativa di alcuni individui, di una funzione poetica particolare: si pensi ad esempio al joual dei cantanti del Québec intorno al 1970, in un contesto di rivendicazione nazionale… […] O si pensi ancora a certe canzoni parzialmente o interamente in bretone di Gilles Servat o di Alan Stivell” (il joual è una varietà popolare del francese del Québec). La mia attenzione si è fatta qui acuta e non ho potuto fare a meno di domandarmi in quante tradizioni sia o sia stata presente una seconda lingua dedicata alla ritualità, di carattere sacro: il latino per l’Europa, l’ebraico per l’antichità che parlava aramaico, il sanscrito per l’India, o tutte le lingue sacre sciamaniche, come quella di cui descrive l’uso Carlo Severi (in Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria, Einaudi 2004, pp. 227 segg.) parlando del rituale del parto difficile dei Kuna.
Nel rituale di guarigione descritto da Severi (è lo stesso di cui parla Lévi-Strauss nel noto articolo sull’efficacia simbolica contenuto in Antropologia strutturale) la partoriente comprende solo in piccola parte le parole dello sciamano, il quale parla una lingua differente, esoterica, solo in parte coincidente con quella di uso quotidiano. Ma il rituale funziona lo stesso, un po’ come se la donna proiettasse, come su una sorta di macchia di Rorschach, quello che desidera intendere realmente.
Credo che questo funzionamento proiettivo, alla macchia di Rorschach, sia comune a tutte le situazioni rituali in cui entra in gioco una seconda lingua, diversa da quella corrente (latino, ebraico, sanscrito o qualsiasi altra). C’è naturalmente chi (come i sacerdoti) è pienamente in possesso del codice e dunque pienamente in grado di interpretare, ma il rito funziona anche nei confronti di coloro che capiscono poco o nulla. Sono altri fattori, di carattere ritmico e compartecipativo, a garantirne il successo; non esclusa l’oscurità stessa delle parole, garanzia, per il normale partecipante, che si sta avendo accesso a una dimensione differente, quella, appunto, del sacro.
La poesia orale di cui parla Zumthor sembra essere assimilabile più facilmente all’ambito della canzone, cioè a un ambito in cui la funzione rituale (su base ritmica e compartecipativa) è sostanzialmente delegata alla musica. Io stesso, quasi come i francesi di Bretagna, ascolto Alan Stivell, e capisco e partecipo quasi come loro. Per questo penso a Stivell come a un musicista, e non come un poeta.
Nel medioevo, prima di arrivare a essere in volgare, la poesia era inevitabilmente in latino. E la poesia veniva cantata, e non esisteva la separazione che per noi è del tutto corrente tra le due. Quando la poesia assume le forme della lingua volgare aggiunge di colpo al proprio appeal i vantaggi della comprensibilità, ma cerca di non perdere quelli della ritualità. Per questo, per esempio, conserva e coltiva assiduamente la propria metrica, permettendosi di trasformarla nel tempo solo quando è certa che le innovazioni non vanno a inficiare la sua forza rituale di fondo.
Questa forza rituale tende a conservarsi anche quando la poesia non è più legata alla religione, e persino quando non è più legata strettamente all’oralità. I riti si trasformano, sono ormai del tutto diversi da quelli di qualche secolo fa; ma sono nondimeno riti, che richiedono la parola (almeno in una pronuncia interiore, che però mantiene tutta la sua durata). Della poesia non si danno riassunti, né lettura puramente ottica (come quella che state facendo di queste parole), senza pronuncia almeno interiore.
Con tutte le sue trasformazioni, la poesia conserva gelosamente non solo le strutture metriche, ma anche il proprio esprimersi in una lingua speciale, diversa, sacralizzata dallo stesso contatto con la poesia. È la lingua della poesia, una lingua che, per noi, ha le stesse regole di base e quasi lo stesso lessico dell’italiano, ma un uso che può essere anche molto differente da quello della prosa o del discorso quotidiano.
Questa necessità di separazione dalla lingua ordinaria ha certo anche relegato la poesia in un ambito particolare. Sappiamo bene come l’enfatizzazione di questa differenza abbia segnato l’Ottocento poetico italiano sino a D’Annunzio; sino a provocare la reazione dei Crepuscolari e di ciò che ne è seguito. Ma si noti bene che il Novecento non è sfuggito al principio della diversità della lingua poetica: in un contesto in cui la separatezza della lingua poetica è la norma, persino la parlata colloquiale di Corazzini e Gozzano può apparire come una separatezza: è, perlomeno, infatti, la separatezza dalla separatezza. Ma persino in loro, in realtà, la riacquisizione del linguaggio quotidiano è parziale. Per quanto infatti ci si provi a utilizzare le parole e le strutture sintattiche di ogni giorno, l’immissione medesima in un contesto di versi e di a capo forzati, e di pertinenza dei fenomeni prosodici e fonetici, rende inevitabilmente differenti quelle parole e quelle strutture.
Tanti poeti del Novecento poi non si sono affatto riavvicinati alla lingua quotidiana, preferendo semmai cercare un linguaggio rituale differente anche da quello dei propri predecessori, ma indubbiamente riconoscibile come rituale. In questo indimenticabile inizio del suo Laborintus, Edoardo Sanguineti faceva esattamente questo – avendo presumibilmente come riferimento negativo la lingua separata dei poeti ermetisti, con tutta la sua ripresa ottocentesca e dannunziana.
Non tutto è comprensibile in questi versi, né tutto vuole essere comprensibile. Non è solo l’intromissione di parole dal latino a creare questa oscurità: l’intera costruzione sintattica, la scelta di parole inconsuete o inconsuetamente utilizzate, l’assenza di punteggiatura, mirano a una costruzione oscura. In questa oscurità semantica, l’andamento liturgico della recitazione rimane l’elemento dominante. Proprio come la partoriente kuna in presenza del suo sciamano, noi comprendiamo solo in parte, solo qua e là, per sprazzi, ma il ritmo ci prende lo stesso, ci coinvolge, ci trasporta in una realtà che si sta sviluppando, della quale cogliamo faticosamente elementi noti e fascinosi, e ci costruiamo il nostro racconto, la nostra personale veduta, ci immergiamo nella Palus Putredinis del Senso e della Storia. Tanto più potente è la parola poetica (e qui lo è moltissimo) e tanto più ricco e intrigante sarà il racconto che possiamo ogni volta costruire sulla base di quello che si presenta ai nostri occhi, o risuona alle nostre orecchie.
Se invece di leggere con gli occhi stessimo ascoltando una voce recitante, dovremmo essere consapevoli che la possibilità di cogliere il senso effettivo delle parole è ancora, ulteriormente, ridotto, perché la voce corre, e non può ritornare indietro nel testo come l’occhio può fare. La voce può però aggiungere sfumature al suono, può dare corpo al ritmo, può dare musica alla prosodia; può insomma rendere ancora più concreta e avvolgente la situazione rituale.
Se cercate soluzioni, la poesia non è cosa per voi. La poesia si limita ad avanzare proposte, o addirittura accenni di proposte, che ciascuno farà sue a modo proprio. Nel frattempo, proprio nel seguire il suo percorso e nello sforzarci di sentirlo e di dargli un senso, ci ritroveremo in sintonia rituale con tutti coloro che stanno compiendo (o hanno compiuto, o compiranno) la medesima operazione. Molto più che comunicare, la poesia è infatti fare, poiein, anche quando la si sta solo fruendo. E tanto meno la poesia comunica emozioni; al massimo, qualche volta, le produce.
8 Febbraio 2012 | Tags: Giuliano Mesa, narratività, poesia, racconto | Category: poesia |
Giuliano Mesa, da "Quattro quaderni"
C’è questa problematica del racconto che mi tormenta da quando ho incominciato a possedere le prime nozioni di semiotica – anzi, in verità ancora da prima, all’epoca delle mie poesie da adolescente. Condivido la posizione di Paul Ricoeur, secondo cui il racconto “è il modo umano di comprendere il tempo”, e penso anch’io che la ricostruzione che facciamo di qualcosa che abbia avuto uno sviluppo temporale sia inevitabilmente di carattere narrativo. Di conseguenza, dove c’è testo e dove ciò di cui si parla ha in qualche modo tempo, allora là c’è racconto.
Ma questo non comporta, di per sé, che tutti i testi siano narrativi. Contenere del racconto non è una condizione sufficiente per fare di un testo un testo narrativo, cioè un testo che ha una struttura narrativa (perlomeno implicita o nascosta) persino quando è narrativa la lettura che ne viene fatta. Se io assisto a un evento del mondo, poniamo un incidente stradale, non ho assistito a un racconto – anche se poi lo ricorderò e riporterò ad altri inevitabilmente in termini narrativi. Sono io, qui, a sovrimporre la forma narrativa a un semplice fenomeno mondano. Se il racconto è “il modo umano di comprendere il tempo”, dovrò essere consapevole che il racconto sta non nelle cose bensì nella comprensione che io ne ho.
Detto questo, potrei scoprire che esistono testi che si propongono, almeno in parte, proprio come il mio incidente stradale: chiedono cioè di essere interpretati anche in maniera narrativa, ma non sono narrativi in sé (se non magari qua e là, occasionalmente o localmente). Quando pensiamo a un testo, siamo abituati a pensarlo (per esempio in termini di teoria dell’enunciazione) come un discorso, ovvero come la trasmissione di un senso da un enunciante a un enunciatario – a loro volta implicitamente inscritti nel testo stesso. In molti casi questo discorso riguarda eventi, ed è quindi racconto. Concepiamo dunque tipicamente un testo come una piccola interpretazione del mondo, quale ogni racconto, in sé, è: la forma-racconto è, infatti, già una forma esplicativa.
Ma i testi artistici non sono necessariamente fatti così. Naturalmente un romanzo è prima di tutto fatto di racconto; e molte volte anche una poesia lo è. Ma altre volte un testo poetico contiene solo brandelli di racconto, accenni; un po’ come se durante l’evento del nostro incidente stradale ci fosse qualcuno che mi sta raccontando qualcosa, e il racconto che mi sta venendo fatto entrerebbe quindi a far parte dell’evento – ma non sarebbe, evidentemente, il racconto dell’evento. Quando racconterò l’incidente, magari racconterò anche che cosa mi si stava raccontando: però nel farlo sto dando un senso nuovo alle parole del racconto che stavo ascoltando nel momento dell’incidente.
Certe poesie, come le due di Giuliano Mesa che ho riportato qui sopra, non sono, in sé, testi narrativi. Esse contengono momenti di racconto, indubbiamente, e, nel momento in cui io ne arrivassi a fornire un’interpretazione, questa non potrebbe che essere narrativa. Però quest’ultima sarebbe la mia interpretazione.
Certo, si tratta di testi che si prestano a letture di carattere narrativo – però più di una, come il nostro incidente stradale, suscettibile, in quanto evento reale, di molte letture narrative differenti. Ogni struttura narrativa profonda che vi rinvenissi non sarebbe, molto probabilmente, che la struttura della mia interpretazione. Il testo non vuole raccontare, consapevole che raccontare è già spiegare, è già dichiarare un livello di comprensione.
Ma come è possibile che un testo non racconti? Credo che basti uscire, almeno in parte, dalle pastoie della visione enunciazionale dei testi. Comprendere, spiegare, sono prerogative del soggetto. Nella misura in cui assumiamo la presenza di un soggetto, il testo ne sarà l’enunciazione. Ma i surrealisti ci hanno a loro tempo insegnato che il soggetto non è necessariamente presente in un testo artistico: i loro automatistici cadaveri squisiti servivano proprio per tagliare fuori del tutto il soggetto, lasciando produrre la scrittura all’inconscio, o alla macchina, o al caso.
Senza arrivare a questi squisiti estremi, sarà sufficiente non poter decidere in che misura il soggetto è veramente implicato nella scrittura. In una certa misura il testo sarà dunque il prodotto di un evento del mondo, evento “naturale” esso stesso, quasi una secrezione dell’umano; e, in quanto tale, non spiegazione o espressione della comprensione di alcunché – ma semplice espressione di qualcosa, nemmeno di qualcuno. L’inconscio freudiano è un buon candidato a questo ruolo di qualcosa, ma anche quello collettivo junghiano, o anche – senza scomodare la psicoanalisi – lo spirito del tempo, le parole che stanno nell’aria; o anche quello che Lacan chiamava a suo tempo il reale sarebbe un ottimo candidato, proprio per la sua intrinseca incompatibilità col soggetto che comprende.
In misura complementare, il testo poetico sarà però anche espressione consapevole del soggetto, e quindi abbozzo di spiegazione, messa in scena. Eppure l’abilità del poeta starà anche nel non permetterci di capire che cosa nel testo sia artificio e che cosa sia “natura”, e di come la “natura” si celi magari dentro l’artificio, e l’artificio a sua volta dentro la “natura”. È così che la poesia finisce tanto spesso per essere tanto più difficile della prosa, proprio per questo suo possibile rifiuto di dare spiegazioni, per questa sua capacità di gettarci nella situazione, e non di raccontarcela, per la sua oscurità che è rifiuto del racconto, rifiuto della spiegazione.
Anche l’andamento, per così dire, musicale, fa parte di questo gioco di ambiguità tra secrezione e costruzione. Poiché il testo poetico è un evento del mondo, le sue qualità sonore non sono meno importanti di quelle semantico-narrative. La sensibilità musicale di Giuliano Mesa, per esempio, è notevole. Il modo in cui le parole escono una dopo l’altra, ripetendosi o richiamandosi, è parte determinante dell’evento e della sua forma che ci colpisce percettivamente.
Il che lascia pensare che quello che ho detto prenderebbe una natura ancora più densa e concreta, se la parola poetica si trovasse a essere letta da una voce materiale, sonora, e non solo dai nostri occhi e dalla voce virtuale che ricostruiamo in noi. Indubbiamente, in un caso simile, l’evento sarebbe ancora più vividamente tale, ancora più “natura”, ancora più mondo; e ancora di più il soggetto, con il suo racconto, faticherebbe a manifestarsi. Ma, di questo, prossimamente.
Avevo programmato di scrivere questo post da un po’ di tempo, e buttato giù qualche appunto in attesa di stenderlo per bene. Poi c’è stato il dibattito sul post di Andrea Inglese su Nazione Indiana a proposito del libro di Alessandro Broggi, nel corso del quale sono uscite una serie di questioni interessanti, e non solo tra Andrea a me. Inevitabile quindi partire da lì.
Il tema è il ruolo della critica o, in altre parole, che cosa ci si debba aspettare dalla critica. Un tema trasversale: anche se l’intervento di Inglese riguarda un testo poetico, la questione della critica riguarda la poesia come il fumetto come qualsiasi altra forma espressiva su cui la critica si esprima. Sto parlando della critica, in senso ampio, “militante”, quella, cioè, che propone testi all’attenzione del pubblico – che ha un ruolo del tutto diverso dalla storiografia di settore (storia dell’arte, del fumetto, della poesia…) o dalle analisi testuali.
Ritrovo nei miei appunti la stessa parola chiave con cui Inglese a un certo punto del dibattito cerca di focalizzare la questione: rilevanza. Dice Andrea: “trovo molto azzeccato il termine ‘rilevanza’. Il critico non può che persuadere, attraverso prove specifiche – che sono le trame di relazioni, ecc. -, della rilevanza di un certo testo, come ‘testo poetico’, di un certo insieme di colori, come ‘dipinto’, ecc. Il lettore potrà poi farsi portare da questo tessuto ‘ricostruito’ verso il testo stesso, e sperimentare in proprio quanto può accadere. E qui può avvenire o non avvenire una risonanza tra testo e lettore, che in nessun modo può essere anticipata, inclusa, governata dal discorso critico.”
Il discorso di Inglese mi sembra sensato e condivisibile, ma si basa su una nozione a rischio, quella, appunto, di rilevanza. Che cosa vuol dire che un testo è rilevante? Rilevante per che cosa, insomma?
Le risposte possibili sono diverse. Ce n’è una, più diffusa di quanto non sembri a uno sguardo superficiale, che dipende ed è legata alla concezione storicista che la nostra cultura tende ad avere di se stessa, la stessa concezione, per intendersi, a cui è legata la nozione di progresso, o quella di crescita. Non intendo attaccare lo storicismo. È la stessa visione del mondo in cui mi muovo anch’io. Ogni concezione alternativa mi pare più primitiva e grossolana. E tuttavia non posso fare a meno anche di vederne i limiti e i problemi.
All’interno di una concezione storicista un testo artistico (permettetemi di usare qui questa nozione generica e imprecisa per intendere in un sol colpo i testi poetici, letterari, fumettistici, pittorici, filmici…) ha valore se contiene qualche elemento di novità rispetto al passato, o meglio di novità rilevante. Nel fare la storia di un ambito artistico (poesia, fumetto o quant’altro) è inevitabile e doveroso mettere in primo piano non tanto le opere (e i rispettivi autori) che sono state più apprezzate dal pubblico, bensì quelle che più hanno influenzato le opere (e gli autori) successivi, modificando il corso della storia. Spesso, ma non sempre, le opere più apprezzate sono state anche le più influenti; o perlomeno è difficile che un’opera molto apprezzata non sia anche in qualche modo influente. Ma capita anche che vi siano opere influenti che pur non hanno goduto di un grande apprezzamento. I due campi sono ampiamente sovrapposti, ma ben lontani dal coincidere.
Le opere influenti sono quelle che hanno introdotto molte novità rilevanti, quelle novità che poi sono diventate merce consueta negli autori successivi. Le opere apprezzate sono quelle che, in contesti più generali o più specifici, hanno avuto successo. L’atteggiamento storiografico non esclude le seconde solo perché esse di solito stanno anche tra le prime; ma non è raro il caso di autori baciati dal successo in vita, che poi la storia ha quasi dimenticato, non sapendo come posizionarli nella linea dello sviluppo evolutivo.
In un contesto culturale storicista, quando facciamo critica militante, tendiamo spesso a comportarci un po’ come degli storici. La rilevanza che attribuiamo al nostro oggetto di presentazione è, appunto, una supposta rilevanza storica, basata sulla presunzione di una qualche novità significativa, e quindi di un qualche apporto originale al dibattito complessivo. Presentiamo il nostro oggetto, insomma, come una migliore risposta a un qualche problema espressivo, almeno da un qualche punto di vista: certo non si tratta ogni volta di inventarsi un novello Dante Alighieri. La novità che pretendiamo di stare individuando può essere piccola, locale, minore, particolare; ma in quell’ambito così ristretto è nondimeno una novità, e il lavoro di cui parliamo è rilevante in quanto presenta una rilevante (piccola) novità.
Il problema, rispetto allo storico vero e proprio, è che il critico militante lavora sul presente. La novità, e tantopiù la novità rilevante, è qualcosa che può essere riconosciuto solo a patto che la direzione in cui si sta andando sia sufficientemente chiara al critico. Anche quando si sta facendo della storiografia, individuare le tendenze di un epoca artistica non è un fatto pacifico, ma almeno in questo caso esistono dei precedenti di riferimento, e qualche certezza è legittima (almeno sino al prossimo ribaltamento di paradigma). Ma se parliamo del presente, la tendenza rispetto alla quale decidiamo che qualcosa costituisce una novità non può che essere un’assunzione rischiosa, talora arbitraria. Sarà molto facile (e assai spesso accade proprio così) estrapolare una qualche tendenza della storia recente, estendendola al presente e all’immediato futuro; vedendo dunque come progressisti coloro che immettono qualche novità all’interno di un discorso già avviato e sostanzialmente assestato, ma magari essendo incapaci di riconoscere delle nuove e influenti tendenze, in quanto estranee o addirittura contrarie alla tendenza che stiamo privilegiando.
Tanto più saremo critici “di parte”, e tanto più questo rischio sarà forte, sino al caso limite del restare ciechi di fronte alle novità effettive, e ai cambiamenti storici veri e forti. Per questo, pure il critico “di parte” dovrebbe fare attenzione non solo alla novità rilevante, ma anche all’apprezzamento effettivo ottenuto da parte del pubblico, sforzandosi di comprenderne le ragioni, anche a costo di mettere in crisi le proprie ipotesi evolutive.
Ma questo significherà che il critico non può fare a meno di considerare l’apprezzamento, il successo, come indici di rilevanza. Non potrà ignorare se un certo testo piace o non piace al pubblico cui è destinato. Tuttavia, come si porrà se, da critico militante, sta presentando al pubblico un testo di fresca uscita, del quale evidentemente non potrà già conoscere l’esito di pubblico? Dovrà in questo caso basarsi solo sulla (ipotetica) tendenza, e valutare, ideologicamente, sulla base di ciò che ritiene progressivo? Un buon critico dovrà dunque, necessariamente, essere di parte? avere un’ideologia, qualunque essa sia, che lo guidi e lo illumini nelle sue scelte?
È evidente, comunque, che non esiste una critica neutra, cioè non esiste una critica che non abbia dei presupposti ideologici, perlomeno impliciti. Il punto non è quello di cercare di neutralizzare la critica, operazione che non farebbe che nascondere sotto il tappeto degli inevitabili presupposti ideologici. Il punto è semmai cercare di capire attraverso quale operazione questi presupposti possano diventare il più possibile espliciti, ed essere espressi insieme alle valutazioni specifiche che ne conseguono, a proposito del nostro oggetto di critica.
Tornando alla breve citazione di Andrea Inglese riportata sopra, si può osservare che viene fatta una netta opposizione tra critico e lettore: al critico spetta ricostruire le trame di relazioni che stanno alla base della rilevanza del testo, mentre il lettore troverà (o non troverà) una risonanza nel testo. Certo i ruoli sono diversi; ma il critico, prima di essere critico, non dovrà essere stato anche lettore, vivendo (o non vivendo) a sua volta quella risonanza? Se rispondiamo di no, decidendo di separare nettamente la lettura del critico da quella del lettore, dovremo rispondere a un’ulteriore domanda: visto che il critico non può basarsi sulla risonanza col testo per valutarne la rilevanza, su che cosa si baserà? In questo caso, non vedo altre risposte possibili: si baserà sull’aderenza del testo oggetto a un qualche canone che (ideologicamente) viene ritenuto valido. Se separiamo completamente l’azione del critico da quella del lettore, dunque, ricadiamo inevitabilmente nel caso descritto sopra, quello che facilmente sfocia nella cecità ideologica, malattia piuttosto diffusa nel XX secolo (e anche dopo).
Postulando dunque che critico e lettore siano sì figure diverse, ma che in qualche modo il ruolo di lettore debba far parte di quello di critico, si tratterà allora di cercare di capire in che modo questo debba o possa accadere. Suppongo che ci possano essere non uno, ma una serie di modus operandi positivi. Mi limiterò a esporre quello a cui io stesso cerco (non sempre con facilità, non sempre con coerenza) di attenermi.
Prima di tutto mi considero un lettore, e come lettore cerco una risonanza nel testo. Ma poiché so di essere un critico, e che prima o poi dovrò produrne una valutazione, il mio tentativo, costante e a monte, è quello di costruirmi come un lettore il più generico e aperto possibile, pronto a cogliere nell’opera aspetti positivi di qualsiasi tipo. Per fare questo cerco di aver già letto molto, e cose molto diversificate; cerco di aver già costruito il mio gusto come un potenziale gusto del pubblico. È ovvio che un compito di questo genere non può arrivare davvero a compimento, perché per quanto riesca ad ampliare i miei orizzonti, essi resteranno comunque i miei, inevitabilmente. E tuttavia la tensione verso questo (pur intattingibile) fine non è inutile, perché mi porterà sempre a domandarmi se non ci sia altro da prendere in considerazione.
Supponiamo che, in qualche modo, io trovi una risonanza nel testo, come lettore. A questo punto ha inizio il lavoro di critico, perché ora io ho l’obbligo di capire su che cosa si basi questa risonanza, e di trovare un modo di descrivere il testo che mi renda ragione di quello che provo leggendolo. Sarà questo, poi, che cercherò di trasmettere al mio lettore per presentargli il testo di cui sto parlando. Nel farlo, dovrò anche esplicitare i miei presupposti ideologici del caso, perché pure loro sono oggetto dell’analisi.
Se non trovo la risonanza, posso decidere che il testo è banale, senza scampo; posso decidere che il testo è banale, con riserva – perché non sono certo del mio giudizio e dovrò, prima o poi, provare a tornarci su; posso decidere che non capisco, e sospendere il giudizio. Quello che personalmente, in ogni caso, mi rifiuto di fare è promuovere un testo solo perché ideologicamente mi è sufficientemente vicino; se si trattasse di un testo critico, questa sarebbe invece, ovviamente, la cosa che conta di più – ma per un testo artistico non è una condizione sufficiente.
Questo metodo non è esente da errori. Per quanto io cerchi di affinare la mia sensibilità, posso trovarmi oggi in sintonia con testi che magari in seguito riconoscerò come banali, o non trovare sintonia con testi che in seguito mi si imporranno come interessanti. Mi è già successo e mi succederà ancora. Per questo è poi così importante la successiva fase di analisi ed esposizione, che costringe a riflettere sulla sensazione iniziale.
Ma questo metodo mi mette un po’ di più al sicuro dagli aspetti peggiori di una visione storicista del mondo, ovvero dal ritenere che ci sia una linea evolutiva vincente, progressiva, rispetto ad altre perdenti e regressive, e che sia la mia. Questo è stato (tra gli altri) il male del materialismo storico e il male delle avanguardie, che ha gettato forti ombre anche sul bene che materialismo storico e avanguardie hanno comunque portato. In altre parole, cerco di sfruttare il fatto di non essere un io, ma – come tutti – una costellazione di io che trovano, ciascuno, il proprio momento di espressione, per ritrovare in me delle differenze di giudizio e di impostazione ideologica che mi permettano di capire e di trovare risonanza anche al di là dell’accordo ideologico.
Una critica di questo genere segnalerà dunque la rilevanza di un testo, ma cercando di fornire al lettore ragioni per trovare a sua volta la risonanza che il critico ha trovato. Poi, certo, il lettore è libero; ed è diverso da me. Posso tentare di essere tanti. Non posso sperare di essere tutti.
18 Gennaio 2012 | Tags: poesia, poesia in dialetto | Category: poesia | Non sono mai riuscito a farmi amare la poesia in dialetto. Non mi era nemmeno chiaro il perché di questa spontanea personale ostilità sino a quando non ho sentito leggere Fabio Franzin a Ricercabo. Franzin era bravissimo, e lo potevo ascoltare leggendomi visivamente testo e traduzione in italiano dei suoi versi: ho goduto molto la sua lettura e le sue belle poesie. E poi ho capito qual è il problema della poesia in dialetto.
Anticipo che condivido le riflessioni sulla opportunità della poesia in dialetto (o in lingua, veneta o friulana o qual altra, se si preferisce). Trovo anch’io che il dialetto permetta alla poesia di non confrontarsi con la deriva della poesia in italiano, e di restare più legata alla vita, alla quotidianità, al fare concreto a cui quelle parole del dialetto sono naturalmente più legate (come spiegava lo stesso Franzin in quell’occasione). Ma nonostante questa opportunità, io non posso negarmi di riconoscere che la poesia in dialetto patisce di un enorme handicap, che mi impedisce quasi costantemente di goderne davvero.
Il punto è questo: la poesia non è prosa, e la sua dimensione sonora è cruciale non meno del suo significato. Quando leggo una poesia in una lingua che non è la mia, io fatico non solo per la ricostruzione adeguata del senso, ma anche per ritrovarne l’andamento sonoro, cui non sono del tutto familiare, e soprattutto per sentire come quell’andamento sonoro si relaziona con l’andamento sonoro standard di quella lingua. A forza di insistere, mi sento abbastanza a mio agio ormai leggendo poesia in spagnolo, e con un po’ di fatica mi immedesimo abbastanza nelle sonorità del francese e dell’inglese. Qualcosa, con enorme sforzo, mi passa persino per il tedesco.
Ma non ho la stessa familiarità quando passo al dialetto, nemmeno con il faentino, che pure non è così lontano da me; figuriamoci col veneto, col lombardo, col napoletano… Gran parte di questi dialetti, compreso il mio (visto che io provengo da una famiglia che in casa parlava italiano, e ho imparato – male – il dialetto da grande), mi sono poi noti nel suono soprattutto attraverso il loro uso televisivo, molto spesso di carattere umoristico – o comunque attraverso un uso pubblico, abbastanza purificato dal portato emotivo che hanno le parole quando ti risuonano dentro perché sono le tue. Persino quando si parla in un’altra lingua, con un po’ di immersione, le parole di quella lingua ti risuonano dentro, e diventano emotivamente tue.
Ma coi dialetti, come faccio? Dovrei parlarli tutti, per davvero. Oppure rassegnarmi a godere solo della poesia scritta in dialetti con i quali ho sufficiente familiarità attiva; cioè praticamente nessuno, nemmeno il mio. Non posso accettare di confrontarmi con una poesia che non mi permette accesso a metà del suo mondo, quella sonora.
D’altra parte, in quell’occasione Franzin mi ha anche implicitamente indicato la via per uscire dall’impasse. Se io non posso figurarmi interiormente la voce del dialetto, è allora necessario che quella voce si materializzi davvero, si faccia sentire nella sua materialità. La voce virtuale che mi risuona dentro quando leggo in una lingua i cui suoni mi sono familiari può essere qui sostituita solo da una voce reale, che mi trasmetta quello che io non sono in grado di ricostruire.
Non sono sicuro di condividere le posizioni di Lello Voce e Rosaria Lo Russo, quando sostengono che ogni volume di testi poetici dovrebbe contenere un Cd con la voce che li legge/recita. Molta poesia in italiano non nasce per quella destinazione, e vive fortemente anche della ricostruzione interna che il lettore si fa della voce sonora. E tuttavia là dove, come per la poesia dialettale, quella voce interna non ha modo di essere ricostruita, mi pare che la lettura orale da parte dell’autore (o da chi per lui, purché sappia leggere quel dialetto davvero) sia una condizione indispensabile per godere davvero dei versi, per fruirne davvero come poesia, e non solo come (un po’ morta, secca) parafrasi in italiano.
Sarà magari perché l’idea stessa del dialetto scritto (con buona pace dei suoi grandi, da Goldoni a Porta a Belli in giù) non è del tutto pacifica. O magari perché, anche là dove lo si scrive, il legame con l’oralità resta stretto, e il dialetto scritto va comunque ricostruito ad alta voce, come facevano gli antichi con tutta la scrittura prima dell’invenzione medievale della lettura interiorizzata, fatta con gli occhi…
12 Gennaio 2012 | Tags: Giuliano Mesa, paronomasia, poesia | Category: poesia | I. ornitomanzia. la discarica. Sitio Pangako
vedi. vento col volo, dentro, delle folaghe.
vedi che vengono dal mare e non vi tornano,
che fanno stormo con gli storni neri, lungo il fiume.
guarda come si avventano sul cibo,
come lo sbranano, sbranandosi,
piroettando in aria.
senti come gli stride il becco, gli speroni,
che gridano, artigliando, facendo scaravento, in muta,
ascoltane la lunga parata di conquista, il tanfo,
senti che vola su dalla discarica, l’alveo,
dove c’è il rigagnolo del fiume,
l’impasto di macerie,
dove c’è la casa dei dormienti.
che sognano di fare muta in ali
casa dei renitenti, repellenti,
ricovero al rigetto, e nutrimento, a loro,
scaraventati lì chissà da dove,
nel letame, nel loro lete, lenti,
a fare chicchi della terra nuova,
gomitoli di cenci, bipedi scarabei
che volano su in alto, a spicchi,
quando dall’alto arriva un’altra fame.
prova a guardare, prova a coprirti gli occhi.
Note
I. ornitomanzia. la discarica, Sitio Pangako.
Nel luglio 2000, la più grande discarica di Manila frana, seppellendo Sitio Pangako (“Terra Promessa”), una delle baraccopoli che la circondano, e uccidendo centinaia dei suoi abitanti, che vi sopravvivevano scavando tra i rifiuti.
Quella che trovate qui sopra (nota compresa) è la prima sezione di un poemetto di Giuliano Mesa (che io, tra parentesi, trovo straordinario). Lo potete leggere nella sua interezza su questa pagina del blog Le parole e le cose, che lo ha recentemente riproposto. È nato come parte verbale di un’opera per voce e musica (con Agostino Di Scipio), di cui potete ascoltare su Youtube alcune parti (ma non questa).
Lo cito perché mi dà l’occasione di portare avanti il discorso già iniziato sull’allitterazione, passando a una figura retorica ad essa piuttosto simile, la paronomasia, che rappresenta una componente fondamentale del discorso poetico di Mesa, in questo componimento come altrove. Potremmo dire della paronomasia quello che abbiamo già detto dell’allitterazione, cioè che si tratta di un indicatore di poeticità che non paga lo scotto che pagherebbero le rime e altre figure retoriche più legate alla tradizione. Ma non solo questa sarebbe (come pure per l’allitterazione) solo una parte della verità, ma anche (in questo caso) una parte piuttosto piccola. Mentre infatti l’allitterazione può riuscire a non farsi osservare da un lettore troppo concentrato sul senso per percepire il suono, nella paronomasia la ripetizione fonetica e il gioco sonoro sono troppo forti per poter passare in qualsiasi caso inosservati. Quello che l’allitterazione cerca di fare sottovoce, insomma, la paronomasia lo fa ostentandosi, quasi gridando la propria presenza.
“che fanno stormo con gli storni neri”, “nel letame, nel loro lete, lenti,” e poi ancora vento, dentro, vengono, avventano, nei primi versi del componimento: sono tutte corrispondenze sonore troppo forti per sfuggire persino al lettore meno attento. Certo, rappresentano per questo delle marcature di rilievo molto decise, delle accentuazioni estremamente marcate – ma sono talmente intense, in verità, da sfiorare l’eccessivo, da suggerire che il suono possa essere più forte del senso, come una sorte di gioco alla ricorrenza, di uso più sonoro che semantico della parola. È quello che succede, per esempio, in molti lavori di Gabriele Frasca, che a quelli di Mesa assomigliano proprio per un certo uso sonoro della parola.
Mentre però in Frasca il gioco sembra fermarsi lì, giustificando una diffusa sensazione di manierismo, di dilagante nonsensicalismo, in Mesa, né qui né altrove, si riceve mai la stessa impressione. Non c’è nulla che si fermi lì, in questi giochi di parole: sia lo stormo che gli storni sono pertinenti, qui, e anche il letame a fianco del lete, e così via. Il sospetto del gioco di superficie si trova fugato ancora prima di riuscire a formarsi davvero nel lettore. E così, senza dubbio, le parole ci appaiono drammatiche e pertinenti. Ma il senso di gioco sul fondo resta, non scompare.
L’effetto complessivo è perciò quello di uno scherzo amaro, dell’amaro confronto tra un desiderio di gioco e di sogno, e l’ostentazione di una crudezza reale, di una tragedia effettiva. Le parole di Mesa sono giocose e fantastiche mentre ci descrivono il male, ma non lo sono per cinismo, o per superficialità: al contrario, sembrano testimoniare la consapevolezza che è solo attraverso questi filtri che il male può davvero arrivare sino a noi, superando le nostre difese naturali, il nostro naturale rifiuto nei suoi confronti. Una scena troppo cruda e realistica può apparirci insopportabile, ma ci può apparire anche banale, noiosa quanto tutte le altre scene dello stesso tipo che conosciamo, prese dal vasto repertorio di verità o di finzioni orrorifiche che abbiamo attraversato nella nostra vita. Per questo, mostrare il male è così difficile: se te ne allontani troppo, esso diventa irrilevante; se ti ci avvicini troppo, è insopportabile o noioso.
Le parole di Mesa scorrono come un flusso musicale, una musica che sta nel suono quanto nel senso. La fitta rete di paronomasie, allitterazioni, quasi rime, è certamente una dichiarazione di poeticità, e quindi di distacco, ma è anche la costruzione di un ambiente sonoro, di un ritmo di accenti e di suoni (questo succede qui certamente anche per la destinazione musicale di questo testo – e tuttavia la situazione non è diversa negli altri testi di Mesa, quelli che non prevedono un’esplicita destinazione musicale). Lo si capisce dal modo in cui sono accostati i suoni di parole simili, e persino dall’attenta costruzione metrica dei versi, che scivolano in diverse occasioni verso la misura epica e tradizionale dell’endecasillabo, quasi a fornire degli appoggi conosciuti alla melodia.
Nel frattempo, ci si parla di uccelli, del loro volo, del loro avventarsi, combattere, “fare scaravento” (espressione inconsueta, ma che certamente evoca un movimento alato che ha a che fare con il vento); così che, poche righe più sotto, quando dall’alto dei voli si è passati al basso dei sogni, la parola “scaraventati” si ritrova carica anche di quel senso evocato poco sopra. Al male degli uccelli che si avventano sul cibo sbranandolo, sbranandosi, corrisponde l’altro male, quello dei renitenti, repellenti. Al salire degli uccelli corrisponde il precipitare della frana, e persino i sogni sono fatti di quella stessa materia di immondizia, di cui si nutrono gli uccelli, incapaci di andare oltre, di essere sogni di un mondo davvero differente.
Nella scrittura di Mesa diventa particolarmente, acutamente evidente che la poesia è una sorta di musica del suono e del senso, e così come la musica tout court possiede quelli che essa chiama i suoi parametri (melodia, armonia, ritmo, dinamica, agogica…), anche la poesia ha i propri: fonetica, accenti, silenzi, ritmi, racconto, senso. Non leggiamo la poesia per ottenere il suo senso; ci sforziamo piuttosto di sentirne il senso (insieme al suono, al ritmo, al racconto…) per arrivare alla poesia, per essere portati da lei e con lei – e, in questo essere portati, per trovarci insieme con i tanti altri lettori che possono ritrovarsi portati dai medesimi versi. Succede lo stesso anche con la musica. Se davvero fosse il senso quello che ci interessa, una buona spiegazione varrebbe più di qualsiasi poesia.
Non il senso ci interessa, ma il percorso su cui la poesia ci porta. Di questo percorso sicuramente il senso è un elemento importante, ma non quello finale. Le paronomasie e le semirime aspre e chiocce di Mesa ci conducono attraverso le volute di un male barocco, musicale, spettacolare, e insieme crudo, cieco, nudo; ci conducono cioè al centro del contrasto tra la leggerezza e il dolore, il medesimo contrasto di cui, in profondità, noi ogni giorno viviamo. Mesa ne ha solo scambiato i termini: per questo, così facendo, lui ci permette di vedere lucidamente quello che, proprio perché ci è troppo familiare, noi di solito non vediamo più; ci permette di sentire aspramente, baroccamente, quel male così profondo e incistato in noi che altrimenti non sentiamo più.
p.s. Qualche testo su Mesa, per approfondire, qui. Altre poesie di Mesa sul Web, qui (e in altre pagine della sezione “Testi” dello stesso sito), qui, qui, e anche altrove. La raccolta (quasi) completa della produzione di Mesa si trova in Poesie 1977-2008, La Camera Verde, 2010.
5 Gennaio 2012 | Tags: allitterazione, Giovanni Giudici, poesia | Category: poesia | Giovanni Giudici, da "Il ristorante dei morti", 1981
Per quello che voglio dire in questo post questa poesia potrebbe essere sostituita da molte altre, ma è una bella poesia, e prenderla come esempio è anche un’occasione per farla leggere. Il tema di questo post è l’allitterazione, e a cosa serve.
L’allitterazione è un parente della rima, ma può ricorrere con molta più frequenza, dimostrando che il principio del parallelismo con cui Roman Jakobson pretenderebbe di spiegarne la ragione può essere certamente valido in casi particolari, ma è lontano dall’avere valore generale. Secondo Jakobson, infatti, il parallelismo sul piano dell’espressione (creato, per esempio, dalla presenza della rima) dovrebbe implicitamente suggerire un analogo parallelismo su quello del contenuto, portandoci a ipotizzare relazioni semantiche nascoste tra parole avvicinate da elementi comuni di suono. Ma in un caso come quello esemplare del dantesco “e caddi come corpo morto cade” – in cui tutte le parole sono legate da allitterazione o quasi-rima con quelle circostanti – se il principio del parallelismo dovesse avere valore universale, il verso si ritroverebbe coperto da un’alluvione di sospetti di legami di senso tra tutte le sue parole. Non mi sembra che sia così.
Trovo più proficuo semmai un approccio che va nella direzione delle proposte di Henri Meschonnic, che porta a considerare la presenza dell’allitterazione e di altre figure fonetiche come strumenti di accentuazione, capaci di focalizzare l’attenzione e produrre rilievo, grazie all’improvvisa e innaturale presenza di una ricorrenza regolare dei medesimi suoni in un contesto – quello della normale sequenza linguistica – in cui solitamente i suoni sono distribuiti senza uno schema fonetico preciso, essendo utilizzati come semplici mattoni da costruzione delle parole, e queste a loro volta come veicoli del senso, a prescindere dal loro suono.
La presenza stessa del verso, che inquadra e permette di focalizzare gruppi ristretti di parole, favorisce l’osservazione dei fenomeni fonetici (che esistono anche in prosa, ovviamente, ma si trovano a essere molto meno sottolineati). La presenza di schemi di suono regolari attira la nostra attenzione per lo stesso motivo per cui questo accade anche al di fuori del linguaggio, nell’interazione col mondo: là dove ci sono strutture regolari c’è potenzialmente vita, e quindi ragione di interesse per noi in quanto viventi, vuoi che si tratti di una preda, di un pericolo, di un amico o di un manufatto (Gregory Bateson insegna). Le strutture dotate di qualche regolarità sono i principali candidati ad essere forme non solo salienti ma anche pregnanti: come minimo la nostra attenzione viene risvegliata e ci spinge ad almeno una prima analisi. Intanto, però, l’allitterazione (come pure assonanze, consonanze, rime…) ha creato rilievo, motivo di attenzione sulle parole che la contengono, e il senso che esse trasmettono ne risulta sottolineato, a sua volta messo in rilievo.
Anche questo approccio ispirato alle posizioni di Meschonnic non esaurisce però il valore dell’allitterazione. Se infatti da una parte, in un ambiente tendenzialmente irregolare la presenza di locali regolarità si fa notare come eccezione, d’altra parte si può trattare di un’eccezione di carattere tranquillizzante, non appena si arrivi a riconoscere la sua natura di manufatto, ovvero di oggetto realizzato secondo le regole dell’uomo, a noi comunque più familiari di quelle della natura extraumana. Questa percezione di regolarità tranquillizzante sarà tanto più forte quanto più ampiamente diffusa nel testo (come accade alle rime nella metrica italiana tradizionale; o come accadeva all’allitterazione stessa nei metri germanici antichi, il cui verso prevedeva obbligatoriamente la presenza di più parole allitterate). Ma l’allitterazione si presta molto più della rima a creare aree particolarmente dense di queste iterazioni, organizzando il testo (da questo specifico punto di vista) in aree strutturate e non strutturate (zone allitterate e rimanente del testo), o di confortante senso sonoro e di neutro rumore bianco. Teniamo sempre presente che la poesia non è, a differenza della prosa, un semplice dominio del senso, discorsivo o narrativo, dove le parole sono puri tramiti trasparenti. Un componimento poetico assomiglia piuttosto a un luogo, del quale sappiamo che molte – magari tutte – le cose che lo popolano hanno un significato nascosto; tuttavia per scoprire questi significati nascosti non abbiamo altra strada che iniziare a valutare gli oggetti per il loro aspetto esteriore. Gli oggetti della poesia sono le parole di cui essa è fatta, e il loro aspetto esteriore è dato dal suono non meno che dal loro significato più immediato ed evidente.
Il componimento di Giudici è scritto in una lingua mediamente piuttosto piana e colloquiale, con una normale distribuzione dei fonemi della lingua italiana. Solo in alcuni punti si aggregano alcuni fenomeni di ricorrenza fonetica, creando aree di rilievo. Altri rilievi, che non approfondiremo qui, vengono suggeriti da sorprese di carattere discorsivo o narrativo, come il “puzzo di cavoli” del decimo verso, nonché naturalmente dal procedere stesso dell’argomentazione sino all’effetto liberatorio della fine.
L’inizio del componimento è già allitterato, con l’insistenza sulle liquide (il luogo era lo), seguito da alcune parole in assonanza e rima (stesso, ma preso di peso), che si incrociano con una seconda, più forte, allitterazione (preso di peso e portato). Segue un verso senza particolari ricorrenze che però annuncia, già nella sua parte finale (non nel) l’allitterazione lunga e forte che segue (vicolo / fitto di facce da festa di streghe), dove la dominanza del suono f rende pertinenti i vicini suoni simili v e s.
Questo terzo verso è particolare anche per altre ragioni: è infatti un endecasillabo, il primo che incontriamo in un componimento in versi liberi, e possiede un sistema di accenti estremamente regolare, di carattere dattilico (1, 4, 7, 10). Un verso che si fa notare, insomma, sotto diversi aspetti, un verso costruito con forme tradizionali innestato in un contesto di linguaggio apparentemente più prosastico e colloquiale, un verso talmente concluso in sé che la scoperta dell’esistenza di un enjambement viene fatta solo a posteriori, quando già si sta percorrendo il verso successivo, e ci accorgiamo che in verità quell’andamento così ritmicamente definito dovrebbe sciogliersi nella continuità del discorso – mentre è impossibile che possa farlo del tutto.
Ce ne sono ancora altre, nei versi successivi, di queste ricorrenze allitterative: “L’ognigiorno del sogno”, “femmina e maschio che tremano ai minimi rumori”, “via vai a voce”, “succedeva / Volevo semplicemente un po’ scherzare”, “nessuno ci conosce”.
Escludo che il principio del parallelismo di Jakobson possa essere di qualche utilità per spiegare questa presenza diffusa: le parole allitterate sono troppo vicine tra loro perché abbia senso postulare un richiamo semantico basato sulla somiglianza fonetica, visto che ce n’è già un altro, molto più forte ed evidente, che si basa sulla vicinanza, o addirittura sull’appartenere alla medesima proposizione, se non anche al medesimo sintagma.
La funzione di creazione di rilievo è invece plausibile, però si trova in concorrenza con creazioni di rilievo di altro tipo. E poi, quando i rilievi sono troppi, o troppo frequenti, finiscono per neutralizzarsi a vicenda.
C’è piuttosto, io credo, in questa frequenza dell’allitterazione, un indice di poeticità, che ha il particolare vantaggio di non pagare alcun debito nei confronti della nostra tradizione (come fa invece l’endecasillabo al terzo verso). In altre parole, un po’ come il verso germanico antico aveva bisogno dell’allitterazione per dimostrarsi verso, perché la sua natura unicamente accentuativa (senza nessuna quantità definita di sillabe o di piedi) era di per sé troppo debole per permettere di riconoscere a orecchio il verso, in maniera simile una poesia come quella di Giudici (e di molti altri poeti del Novecento), basata sul verso libero e su una lingua “non poetica”, può utilizzare l’allitterazione (e altre ricorrenze fonetiche poco canonizzate dalla tradizione italiana) per rendere evidente la propria natura di ambiente verbale costruito, ovvero di poesia. L’allitterazione è cioè uno stratagemma artificiale, un manufatto esplicito, una deformazione della normalità della lingua che si mostra come tale, e perciò un indice di poeticità – ma col vantaggio di non richiamare la tradizione (come invece farebbero le rime, i versi regolari o canonici, la scelta di termini più aulici, e così via). A differenza delle ricorrenze della tradizione, infatti, l’allitterazione è locale, e può quindi essere di carattere tranquillizzante (in quanto evidente manufatto, secondo il principio che enunciavamo sopra) senza che il testo nel suo complesso appaia tranquillizzante – come invece accade inevitabilmente con l’assunzione tradizionale globale di un metro rigido o di un sistema di rime. La poesia del Novecento rifiuta l’inquadramento tranquillizzante della tradizione, in nome di una più efficace espressività – e perché quella maniera di tranquillizzare verrebbe ormai sentita come falsa. La località dell’allitterazione ne fa uno strumento espressivo anche in questo senso, permettendo persino di mettere a contrasto aree più esplicitamente manufatte (e quindi più tranquillizzanti in questo senso) con aree più “prosastiche” e selvagge.
Naturalmente non è l’unico stratagemma possibile a questo scopo; parlando di Amelia Rosselli ne avevamo già identificati altri – e anche lì, nella Rosselli, il rapporto con la prosa e con l’ostentazione del manufatto è indubbiamente forte.
22 Dicembre 2011 | Tags: critica, Marco Giovenale, poesia | Category: poesia | .
La lepre scalcia per rientrare nella tana
Fumo degli odori, insetti, niente si accorge.
In realtà aperta nel centro della strada,
la strada assorbe il rosso, occhi, crema.
Entra la Notte, si sparge.
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Quando sono finite le siepi
sversano la foto delle siepi.
Teste, fai il sigillo autentico,
cola cera. (Dal sole).
Argomento e destinazione.
Ma al muro dei due arsi
sotto il camminamento a castello
che curva le edere, potus, l’olivo largo
abbracciabile poco, ricorda la traccia all’olfatto
di umido, la gabbia-finestra di croci
come la osservava dal vetro verde grasso
essendo ancora pochi gli anni del corpo
gli anni del principio
– lì la cucina ingrandisce ricordata
ma la spende la polvere, la raggia.
Stamattina entra, ha ritorno con le lingue
di memoria. Nel nero di mura, nel viola
che forza o sfiora serrature poi travi
orizzontali di ferro, a vuoto. Sente
Allora sarà bello quando noi
che qui abbiamo abitato (amato)
saremo tutti nomi morti
saremo tutti dai nostri stessi
semi – gli ultimi esiti pieni –
perfettamente finiti, senza resti
in nessuno che abbia
– sia pure irriflessa – parola
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Il freezer perde acqua, già, funziona ancora –
il tubo butta nella ruggine,
servono soldi per cambiare.
Il fetore si sente a trenta metri.
La casa tutta la notte è al buio
fuori; sono fulminati i fari,
la scala altissima da qualche anno è marcia,
non ha sostituzione.
Lui stesso non vorrebbe dirne.
C’è il nero delle api, si vergogna.
Non sopportabile ne sciama – altro
buio dentro, per chi distingue ancora.
Il 19 è la sua festa ma sta senza
telefono. Interrotto, o: sogno opaco.
I rami morti spuntano da quelli vivi
e prendono tutta la luce dando
in cambio niente. Così fanno le ombre
sotto, ai pochi quasi nuovi fiori
che respirano forte nel vetro
bianco del sonno
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Tre poesie da La casa esposta, di Marco Giovenale, Le lettere, 2007
.
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Per parlare della poesia di Marco Giovenale devo fare attentamente astrazione dal suo discorso critico. Questo è naturalmente vero in generale, è cioè un principio valido per qualsiasi poeta; ma per Giovenale la cosa è particolarmente difficile, perché la presenza e il peso del suo discorso critico sono forti. In generale, certo, la poesia è più profonda e pesante del discorso critico, ma il discorso critico è per sua natura più accessibile, più facile. Per questo la tentazione di rivolgersi a questo come chiave interpretativa per comprendere quella è sempre forte, là dove quella si presenti difficile, difficilmente appetibile. Ma si tratterebbe di uno sbaglio.
È sbagliata infatti l’idea stessa che il punto di vista critico interno sia privilegiato rispetto a quelli esterni, e che il poeta, rispetto alla propria poesia, ne sappia di più di quanto ne potrebbe comprendere un altro, un esterno. Quello che all’autore si può certamente concedere, in generale, è una buona conoscenza dell’oggetto del proprio discorso, se non altro perché quando si trova in veste di critico sa bene che cosa abbia fatto in veste di poeta. Ma questa ottima conoscenza dei dettagli spesso gli nasconde l’effetto d’insieme, e il poeta che fa il critico di se stesso (attraverso, per esempio, dichiarazioni di poetica – o anche il poeta che, onestamente, non fa il critico di se stesso, ma che, pur parlando solo di altri, viene letto alla ricerca di una chiave per la sua stessa poesia) ha un punto di vista troppo ravvicinato e coinvolto per potere davvero vedere quello che fa.
La chiave per comprendere la poesia va cercata unicamente nella poesia stessa, ed è solo quando ne siamo in possesso che ci possono essere utili eventuali indizi provenienti dal discorso critico dell’autore. Sin quando ci rivolgiamo a questo per comprendere quella, e interpretiamo il discorso poetico sulla base di quello critico, stiamo facendo un lavoro superficiale, schiacciando quello che la poesia è su quello che il suo autore vorrebbe che fosse.
Anche per questo intendo parlare qui solo della poesia e non delle prose di Marco Giovenale, visto che le prose continuano ad apparirmi, inesorabilmente, astruse e costruite a tavolino (quasi che chiedessero il supporto del voler essere fornito dal discorso critico). Data la qualità dei componimenti in versi, posso sospettare che la carenza stia in me, che ancora non ho trovato la chiave delle prose, e non nell’autore. Capisco bene quanta importanza attribuisca Giovenale alle proprie prose (alla propria Prosa in prosa, tanto per citare sino in fondo l’operazione), visto che il suo discorso critico insiste moltissimo sul tema; ma anche questa insistenza mi fa sospettare che il nodo vero si trovi nei versi, proprio in quanto più lontani dal voler essere.
Ho letto e riletto con piacere La casa esposta, e quanto sono riuscito a trovare di Shelter e di Storia dei minuti. Mi dispiace di non essere riuscito a completare il quadro (prima o poi accadrà), ma l’impressione che ho intanto ricevuto è quella di una produzione sufficientemente coerente nel suo sviluppo da lasciarmi pensare che l’idea che mi sono fatto della poesia di Giovenale continuerebbe a valere sino in fondo.
I componimenti di Giovenale non esibiscono in sé nulla di asemantic o di googlism; si fatica persino a riconoscere in loro le tracce del passaggio, in Italia, di una Neo-avanguardia, se non, tangenzialmente, del più atipico tra i Novissimi, Antonio Porta. Sono liriche sentimentali, nel senso migliore della parola, quello che non ha a che fare con il sentimentalismo; poesie da cui emergono cioè emozioni profonde, trattenute, difficili da esprimere proprio per la loro intensità.
In verità, l’accostamento a Porta potrebbe derivare anche dal comune utilizzo di un dispositivo ricorrente, quello del correlativo oggettivo di eliotiana memoria; pure se, nel leggere questi versi, io ci vedevo in trasparenza assai più Montale che Eliot.
Il Montale che continua a risuonarmi nelle orecchie, leggendo Giovenale, è quello dei Mottetti, quello del suo particolare ed oggettuale ermetismo; ma anche, in particolare ne La casa esposta, probabilmente per la vicinanza tematica, quello specifico di Notizie dall’Amiata, con la sua casa isolata e antica e le sue presenze sulfuree. A uno sguardo più attento, questa vicinanza si concretizza in una certa ricorrenza di termini montaliani, o di scelte lessicali ricercate (alla maniera di Montale) nei punti cruciali – ma soprattutto nella sonorità del verso, libero ma continuamente riassestato nella figura dell’endecasillabo, o in altre misure musicali classiche.
Non c’è solo Montale, perché Giovenale, evidentemente, non è Montale. Si tratta di echi, così come echeggia nei suoi versi un certo uso dell’allitterazione molto inglese, e persino della paronomasia, che magari gli arrivano dalla Rosselli, che l’inglese ce l’aveva (letteralmente) nel sangue.
Ora, il riconoscere la natura di questi echi non spiega, in sé, la qualità delle poesie di Giovenale. Però mi spiega almeno in parte come mai, essendo cresciuto sui medesimi poeti, a pelle io mi ritrovi, per così dire, intonato con questi versi, e come mai possano risuonare al mio interno con tanta forza.
È solo su questa rispondenza di base, su questa sapienza di ritmi di immagini e suoni verbali con la quale la mia competenza e la mia passione entra in sintonia, che può venirmi voglia di scoprire lo specifico del discorso del poeta; nel quale poi, qui, nuovamente mi ritrovo, proprio per l’accostamento continuo, che vi incontro, dell’intensità emotiva con la reticenza, per quel suo dire che non può essere detto sino in fondo perché dire sino in fondo equivarrebbe a banalizzare, a ridurre l’indicibile al detto.
È dalla critica, semmai, che ci aspettiamo una simile riduzione; la critica deve fare il possibile per dire, spiegando, anche quello che non sembra possibile dire. La poesia, al contrario, non deve dire: deve piuttosto farci entrare, attraverso le sue parole (fatte di suono non meno che di senso), in un piccolo mondo, e poi lasciarci lì, di fronte alle sue cose, ai suoi andamenti, ai suoi limiti, dolori, piaceri, incomprensibilità. La qualità dell’esperienza che facciamo in questo mondo è la qualità del componimento poetico, al di là (e spesso persino indipendentemente) da quello che il suo autore vuole dire.
Quando agisco come critico, il mio compito non è dunque quello di tirar fuori il voler dire. Spesso le cose che la poesia vuole dire sono del tutto banali: e sto parlando anche della buona poesia. Come critico, io devo cercare di capire piuttosto, e poi di dire, come sia costruito quel piccolo mondo; come io ci venga fatto entrare, e perché mi colpisca. Non credo che quello che ho detto renda sufficiente merito alle poesie di Giovenale. Gli elementi che ho elencato sono indubbiamente presenti e indubbiamente hanno un ruolo importante – almeno per quel lettore che sono io e per chi mi può somigliare. Ma sono acutamente consapevole che non esauriscono affatto, nemmeno per me, il meccanismo del mio coinvolgimento.
Per questo continuerò a cercare, qui e altrove, delle chiavi migliori del mio sentire, per coglierne il più possibile la natura. E magari, nel farlo, troverò anche la chiave per entrare nelle prose di Giovenale, se c’è.
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Non si libera dagli aghi, se ne veste.
Vive nell’ultima stanza – ogni volta
sta varando il vascello con lo sguardo
nella fontana fuori, dove la potrebbero
condurre ma non vuole, dai sette anni
mentali e non mentali non si strecciano
il colore cenere – la testa, gli occhi.
Non possono trovarla assiderata.
Piuttosto a contare sul balcone, che sarebbe
il margine alfa della storia, da dove
la contesta e può ascoltarla; due
fibbie alle scarpe slacciate, rientra
sempre e cammina sempre scalza contro
la parete. Lì sta bene. Lì – dice alla fine
della casa – mi riconoscete.
Chi manca è più nitido,
si prende la ragione
___________________________da Shelter, Donzelli, 2010
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L’ultima colonna in fondo
nel quadro – svela: una piccola
riga di donna che (spórta
nel bordo buio una elle di fiaccola)
illumina l’uscita per lo sguardo.
È la Contemplazione, che si nega,
dice la guida dotta, che è identica
a chi vede, perché passa – ma diversa
perché è persuasa e spiega.
Rimasta indietro, sua figlia non si è persa.
È albina e condannata a ridere
rapida. (Chiaro, dimentica).
_________________________da Storia dei minuti, Transeuropa, 2010
15 Dicembre 2011 | Tags: poesia, Sergio Rotino, verso | Category: poesia | Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.16
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Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.20
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Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.28
I correlativi oggettivi di queste poesie di Sergio Rotino si manifestano in sequenze di versi lunghi o extra-lunghi e privi di punteggiatura, come emissioni interminabili di fiato sporcato dalle parole e dal loro senso. Le immagini nette, dure, occasionalmente crude, che rimandano a un evento (a un seguito di eventi) crudele della nostra storia, sembrano annegare in questo movimento omogeneo del respiro che dà loro vita materiale. Non che ne risultino indebolite: è piuttosto come se si trovassero registrate nel flusso di una pellicola che scorre senza potersi fermare, così che la loro giustapposizione in sequenza è più forte della natura di ciascuna.
Lo sguardo distaccato riservato a queste immagini finisce così per avere una tonalità apocalittica, perché la ragione di questi versi va fatta risalire a una tradizione che ha al suo principio come modello il versetto biblico, e il suo andamento apodittico e definitivo, sanzionante, alla William Blake o alla Walt Whitman. In questo respiro dilatato, prosodicamente atonale, le parole suonano come occorrenze del destino, presenze numinose anche in assenza di qualsiasi dio. In questo ritmo da Antico Testamento, sequenze di discorso che sarebbero normali in prosa si ritrovano qui straniate dalla sospensione di quei nessi logici che spetterebbero alla punteggiatura, e trasformate così, dai rari ma non meno significativi a capo, in qualcosa di diverso.
È quindi questo specifico straniamento a trasformare gli oggetti in correlativi, gli eventi del mondo in oscure allusioni alla dinamica del male, o alla vuotezza dell’essere, al dramma banale del trovarsi qui – o magari semplicemente al posto giusto, normale, ma nel momento sbagliato.
E poi, di quando in quando, qualcuno di questi oggetti finisce come per caso in un’ansa del discorso, un verso capricciosamente breve, da cui riemerge nitidissimo, violento, come radicalizzato dalla luce potente di un riflettore vicino. Il film si è fermato per un attimo, ci ha lasciato, anzi costretto, a mettere a fuoco il dettaglio adesso immobile – salvo poi ripartire, rigettarci nel flusso. Sembra di non arrivare mai in fondo, a volte, in questi versi: gli eventi si susseguono senza arrivare a una fine che dia loro un senso; il tempo resta sospeso talmente a lungo durante questo sterminato procedere che la fine del verso giunge poi come una sorpresa, quasi fosse quello il vero evento di cui si sta parlando, la possibilità, finalmente, di tirare il fiato, abbandonando per una frazione di secondo il ciclo doloroso delle reincarnazioni verbali e continue delle cose.
Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.64
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Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.65
8 Dicembre 2011 | Tags: Alessandra Carnaroli, poesia | Category: poesia | Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 24-25
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Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 34-35
Immaginate una lunga, ossessiva ripetizione di varie quotidianità, fatti banali, pensieri di ogni giorno, oggetti consueti. È quello di cui di solito non si scrive: non ci interessa il banale, il consueto, quello che conosciamo già benissimo perché ci viviamo dentro.
Adesso immaginate che in mezzo a queste banalità ce ne siano altre, che non si distinguono dalle prime per il modo in cui appaiono descritte, e che ugualmente sembrano fatte di piccole cose irrilevanti. E invece sono gesti di violenza, violenza terribile e mortale, o le banali conseguenze di questi gesti: i buchi nel corpo, la pelle come un vestito ristretto, il liquido rosso che cola, e sporca dappertutto.
Di colpo non solo la nostra attenzione si accende, i segnali del pericolo si mettono a strillare, la presenza del male traluce sgarbatamente nella trama rassicurante della quotidianità, ma per contrasto anche questa quotidianità si rivela rilevante, importante, cruciale. Come a dirci che per accorgerci di quanto sia importante questa cosa così inimportante da non valer la pena di scriverne, bisogna che sia sul punto di smettere di esserci, bisogna che sia compromessa, bisogna che il demone oscuro che essa nasconde stia arrivando in superficie, per mostrare che il demone oscuro non è meno presente e quotidiano e vitale dei gesti che lo tengono sedato, dei gesti che ci permettono di vivere.
Ma perché tutto questo dovrebbe essere detto in versi? Perché non utilizzare la forma racconto, piuttosto, che è quella ormai deputata a parlare di queste cose?
Magari c’è qualcosa, nell’iterazione dell’a capo del verso, che ha strettamente a che fare con l’iterazione dei gesti della quotidianità, col ritornare ossessivo dei pensieri delle cose di ogni giorno, col ritmo un po’ incerto, ma persistente, con cui le cose normali ci arrivano o escono da noi. E allora l’emergenza del male non solo si staglia contro i gesti della quotidianità, ma finisce per essere raccontata con il loro stesso ritmo, con la loro stessa modalità. Ed è questo l’orrore: trovarsi dentro alla morte, alla non-normalità per antonomasia, senza davvero essere usciti dalla normalità, senza aver cambiato mood, senza salti di registro, senza avvisi, senza colonna sonora ansiogena. Siamo ancora nel ritmo irregolare ma persistente del presente, del quotidiano interagire, del preoccuparci e dell’attesa; ma siamo anche, insensibilmente, dentro il dominio del male, della violenza che si fa e che si subisce, della forza del maschio che si fa rabbia e morte contro la debolezza della femmina, del dramma che fino all’ultimo pretende di non essere dramma, e che tutto è normale, tutto è come è sempre stato.
E poi, questo ritmo martellante, verso dopo verso, della normalità, si trova riprodotto, a livello più macroscopico, dal ritmo della successione dei componimenti, uno ogni doppia pagina, a sinistra una scarna descrizione dell’evento di cronaca, a mo’ di titolo, a destra le parole, i versi, la normalità, la violenza (qui, per ragioni di organizzazione dello spazio, li abbiamo invece dovuti montare in sequenza).
Solo che questo macro-ritmo, a differenza di quello dei versi, è una ricorrenza di morti – morti descritte come normali, certo, quotidianità violate e insieme ribadite, una dopo l’altra, una dopo l’altra, una dopo l’altra. Pagina dopo pagina, l’effetto complessivo è come quello di una serie di rintocchi funebri, una liturgia della carne e del dolore che si rifiuta di essere tale, ma lo è, e continua a esserlo, ostinatamente.
Si parla di violenza sulle donne, di nudi e distanti fatti di cronaca, in questo libro di Alessandra Carnaroli. Si parla della violenza che uccide la rete delle cose, e di come questa rete si difende sino all’ultimo, simulando la normalità persino nella propria espressione, senza riuscire a nascondere (o magari volutamente rivelando) che questa medesima normalità è gravida della propria distruzione, e che il ritmo non viene inficiato dalla propria irregolarità, che è anzi espressione vitale, passionale. Ma l’irregolarità contiene anche l’eccesso, e persino l’eccesso più mortale cerca disperatamente di restare a tempo, almeno sino a quando, all’ultimo, la coscienza non svanisce.
Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 38-39
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Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 50-51
P.S. Questo post, come alcuni altri che usciranno nelle prossime settimane, è una conseguenza della mia partecipazione a due delle tre giornate di RicercaBo, San Lazzaro di Savena (Bo) i gg. 18-20 novembre 2011.
Il linguaggio della poesia
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Non posso negare un poco di emozione. Ieri sera, nel tornare a casa ho trovato un pacco con le copie di spettanza del mio nuovo libro. Ho controllato nelle librerie on line, ed è già in vendita. Non sono riuscito ad andare a vedere in quelle tradizionali, ma se ancora non c’è è questione di giorni.
Per dare un’idea di che cosa si tratta, ecco qui di seguito l’Indice del volume e l’Introduzione. Se cliccate qui o sulla copertina a sinistra, potete vedere la scheda del libro sul sito Bompiani.
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Introduzione
0.1. Linguaggio
Argomento di questo libro è il linguaggio della poesia. La parola linguaggio, certo, può essere intesa in sensi abbastanza differenti: quando si parla, per esempio, del linguaggio di Alessandro Manzoni si può fare riferimento alle sue preferenze lessicali e di costruzione sintattica; ma quando si parla del linguaggio dell’arte visiva, o del linguaggio della musica, stiamo evidentemente parlando d’altro. Si parla persino del linguaggio delle api, o del linguaggio del DNA – e non abbiamo la sensazione che si tratti di estensioni metaforiche dell’uso di questo termine.
È bene puntualizzare da subito che l’oggetto di questo libro non è il linguaggio della poesia nel senso delle sue scelte lessicali e di costruzione sintattica. Anche di questi aspetti, senza dubbio, si parla in queste pagine – ma è piuttosto l’altra accezione di linguaggio quella che ci riguarda, quella che avvicina il problema del linguaggio della poesia a quello del linguaggio dell’arte visiva, o della musica, o persino delle api.
Per dirla con le parole più semplici possibili, l’oggetto di questo libro è il modo in cui la poesia comunica, o agisce su chi la legge. Questo modo è legato anche al problema delle scelte lessicali e sintattiche, ma è ben lontano dal ridursi a questo, così come il problema del linguaggio delle arti visive non si può ridurre al problema della scelta dei colori e delle forme, né il problema del linguaggio musicale può ridursi al problema della scelta delle note.
Si potrebbe discutere a lungo se il linguaggio delle api contempli davvero l’uso di un codice. Da fuori, si direbbe che possa essere così. Ma, anche ammettendo che un codice vi sia, nessun linguaggio naturale, compreso quello delle api, si limita e può essere ridotto alla sua componente codificata. Quando pensiamo al linguaggio della musica lo vediamo con chiarezza: la musica comunica, non ci sono dubbi, ma la sua componente codificata è talmente ridotta che la maggior parte della comunicazione ne passa al di fuori.
Ferdinand de Saussure (1922) ha parlato, a suo tempo, di fenomeni di langue – cioè legati alla componente codificata, più strettamente linguistica, del discorso verbale – e di fenomeni di parole – cioè dipendenti dalla situazione contingente, dalla particolare combinazione specifica di parole. Il significato delle nostre comunicazioni verbali è costituito sia da elementi di langue che da elementi di parole, e dunque il nostro linguaggio verbale è basato sugli uni non meno che sugli altri.
Il linguaggio della poesia enfatizza questa componente, locale e idiosincratica, di parole. Fa uso della langue, evidentemente, in quanto fa uso delle parole della lingua, e quindi del loro significato codificato; ma si allontana da questa base molto, molto di più di quanto non faccia il linguaggio ordinario, e anche più di quanto non faccia la prosa letteraria.
Il nostro intento, in queste pagine, è vedere da vicino alcuni degli aspetti di questo linguaggio della poesia, che prende il via dall’uso consueto della parola e arriva lontano.[1]
0.2. Comprensione, emozione e ritmo
Questo libro si occupa dunque del leggere la poesia, non solo del comprenderne il senso. Quando leggiamo cerchiamo sempre di comprendere, ma non leggiamo testi solo per comprenderli – cosa che è vera, in diversa misura, per tutti i tipi di testo, ma è particolarmente vera per i testi che hanno finalità estetiche: tra questi la poesia possiede un ulteriore statuto particolare.
Per esempio, non leggiamo un romanzo solo per capirne il significato. Se non ne comprendiamo almeno a qualche livello il significato non lo stiamo in realtà nemmeno leggendo; e, certo, più a fondo lo comprendiamo e più intensa potrà essere la nostra esperienza di lettore. Ma se un romanzo non ci coinvolgesse emotivamente e non ci portasse con sé in un viaggio di sensazioni vivide e profonde, che ragione avremmo di leggerlo? Quanto ci importa dell’ideologia dei nichilisti russi di fine Ottocento? Il nostro scarso interesse per questo specifico tema non ci impedisce di leggere appassionatamente I demoni di Fedor Dostoevskij. E che a un gentiluomo francese vissuto circa un secolo fa sia un giorno capitato di mangiare un biscottino che ha scatenato la sua memoria e la sua ossessione grafomaniacale, è qualcosa di davvero interessante per noi? Non è davvero per sapere che cosa sia accaduto al signor Proust che leggiamo la Recherche.
Dostoevskij, come Proust e come ogni altro scrittore di qualità, non ha mai pensato di produrre un semplice resoconto di fatti di relativo interesse. Ciò che ha fatto, piuttosto, è stato costruire un meccanismo emotivo, basato su questi fatti, in cui il lettore si possa immergere, e possa vivere, anche se in forma surrettizia, un percorso emotivo, con risvolti cognitivi (si impara senza dubbio un sacco di cose anche leggendo romanzi) ed etici.
Della poesia si può dire lo stesso, però in misura ancora maggiore. Se un qualche interesse a priori per la storia russa o per la vita quotidiana francese di inizio Novecento possono talvolta costituire una ragione per leggere i romanzi di Dostoevskij e di Proust, non riesco proprio a immaginare perché mi dovrei interessare alle fantasie di un signorotto marchigiano di inizio Ottocento al guardare la siepe del suo giardino. E nemmeno trovo particolarmente interessante, in sé, il pessimismo leopardiano, che non è una filosofia di particolare originalità storica, e che nessuno si sarebbe preoccupato di studiare se non stesse alla base di alcune tra le poesie più straordinarie che siano mai state scritte.
Ancora più che il romanzo, la poesia costruisce dentro di sé le proprie ragioni di interesse per il suo lettore. Essendo più breve, mira a costruire un’esperienza emotiva più intensa, e per farlo utilizza le risorse del linguaggio in maniera estrema, rendendo pertinenti aspetti che normalmente non lo sono o lo sono poco. Proprio come il romanzo, poi, ma con maggiore intensità, anche la poesia ci insegna qualcosa, ma lo fa a partire dall’esperienza emotiva che induce nel suo lettore.
Questa collina solitaria mi è sempre stata cara, come pure quella siepe, che mi impedisce di vedere oltre. Eppure, se mi siedo e guardo, io mi immagino spazi senza fine al di là, silenzi eccezionali e una grande tranquillità, al punto che quasi mi spavento. E quando sento il vento muovere gli alberi, mi viene da fare il paragone tra questo fruscio e quel silenzio: e così penso all’eternità, al passato, al presente e ai suoi rumori. E in questo senso di immensità il mio pensiero si perde, e questo perdersi è un sentimento dolcissimo.
Questo breve racconto segue evidentemente la falsariga del discorso di Leopardi ne L’infinito. Potremmo considerarlo come una parafrasi molto libera del testo originale. Probabilmente non tutto il fascino del componimento leopardiano si perde, e qualche ragione di interesse interno continua a sussistere – ma questo testo non sarebbe mai passato alla storia emozionando innumerevoli lettori. Senza l’emozione non si genera l’interesse, e senza interesse non ci può essere acquisizione cognitiva.
I meccanismi di sollecitazione emotiva ci interessano dunque per due ragioni: in primo luogo perché sono alla base di una migliore comprensione del significato del testo, e in secondo luogo perché non sempre possono essere ridotti a questo, e possiedono una propria autonomia e un proprio valore intrinseco.
C’è una situazione in cui il mio pensiero si perde, e questo perdersi è un sentimento dolcissimo. Infatti, quando mi siedo di fronte a questa collina solitaria, a me molto cara, e guardo quella siepe che mi impedisce di vedere oltre, finisco per immaginarmi al di là di quella un’enormità di spazio e di silenzio, quasi spaventandomi per questo. Ma poi, se paragono queste sensazioni al suono del vento tra gli alberi, mi viene da pensare all’eternità e alle epoche, e provo un senso di immensità che mi fa smarrire.
Confrontiamo ora questo breve testo con la parafrasi dell’Infinito proposta appena sopra. Qui non si può più nemmeno parlare di parafrasi, per quanto libera; al più parleremo di “liberamente tratto da”. Entrambe le versioni condividono con l’originale il mero resoconto dei fatti, ma la prima è abbastanza fedele all’originale anche per l’ordine in cui i fatti vengono esposti, e per il risalto che viene dato a ciascuno di loro, mentre la seconda stravolge sia l’ordine che il risalto.
Per quanto poco conservi dell’esperienza dell’originale, la prima versione conserva di più della seconda, ed è in grado di produrre nel lettore un percorso emotivo che, per quanto molto più blando, assomiglia a quello dell’originale più di quanto gli possa assomigliare quello prodotto dalla seconda versione.
La prima versione ha infatti (parzialmente) in comune con l’originale non solo un percorso discorsivo-narrativo ma anche un ritmo discorsivo-narrativo e un sistema di tensioni. Gli eventi raccontati si succedono grosso modo con lo stesso andamento e con lo stesso specifico rilievo, e producono quindi nel lettore un andamento di interesse simile.
In poesia, tradizionalmente, quando si parla di ritmo si fa riferimento a una regolarità di andamento di carattere prosodico e fonetico (ovvero relativo al succedersi delle sillabe e dei loro accenti, nonché di suoni sufficientemente simili) o al massimo sintattico. Quando si parla di ritmo poetico, cioè, si fa tradizionalmente riferimento a eventi situati sul piano del significante (che la semiotica chiama, più propriamente, piano dell’espressione).
Il ritmo discorsivo-narrativo si pone invece sul piano del significato (che la semiotica chiama piano del contenuto) e non è un fatto specifico della poesia: qualsiasi discorso verbale possiede un ritmo dell’esposizione dei propri concetti, qualsiasi racconto ha un ritmo narrativo, cioè un andamento del modo in cui gli eventi arrivano alla ricezione del fruitore.[2]
Anche i ritmi prosodici, fonetici e sintattici non sono specifici della poesia; tuttavia, mentre nel discorso in prosa sono di solito semplicemente non pertinenti o poco pertinenti, in poesia la relazione di contrasto con la dimensione metrica (che è a sua volta una dimensione ritmica) li rende significativi e influenti. Il ritmo discorsivo-narrativo è influente in qualsiasi tipo di testo, ma in poesia esiste una relazione di contrasto con altri tipi di ritmo dell’espressione e del contenuto – come vedremo più avanti – che modifica e spesso magnifica questa stessa influenza.
Analizzare la poesia e la sua efficacia emotiva significa dunque considerare non solo la dimensione ritmica tradizionale e la sua relazione con il metro, ed eventualmente le modalità in cui queste interagiscono con la dimensione del significato, ma anche tutta una sfera ritmica della dimensione del significato che produce effetti sia sul significato stesso che sul coinvolgimento emotivo diretto del lettore.
A questo si aggiunge la comprensione del sistema di aspettative e tensioni messo in moto dalla poesia. Anche in questo caso, tutti i testi generano aspettative nel loro fruitore, ma la poesia lo fa con le sue specifiche modalità e i suoi specifici effetti.
0.3. Leggere, guardare, ascoltare
Il leggere è naturalmente diverso dal guardare[3]. Certo per leggere è necessario guardare, ma qualsiasi guardare che non comporta un leggere è un guardare che segue regole diverse dal guardare per leggere. Nella sua bella storia dell’arte tipografica, Warren Chappell caratterizza come segue la differenza:
Molti dei lavori più notevoli del Settecento, dalle Médailles dell’Imprimerie Royal del 1702 al Manuale tipografico di Bodoni, testimoniano di vere e proprie innovazioni tecniche: una migliore fusione e giustificazione dei caratteri, carta con superfici di stampa più omogenee, inchiostri migliori e migliore impressione. La stampa assunse l’aspetto dell’incisione a un livello stupefacente. La tendenza era iniziata con le grazie artificiali del romain du roi di Grandjean per raggiungere piena espressione nelle lettere drammatiche e rigide di Bodoni e di Firmin Didot. Tali forme sono meravigliosamente immobili. Il carattere e la pagina chiedono di essere ammirati – cioè guardati – e in ciò niente di male, se non fosse per il fatto che guardare e leggere sono due azioni piuttosto diverse, anzi in contraddizione. Siamo legati a quello che leggiamo da un movimento ritmico. Per guardare le cose, o le liberiamo lasciandole vagare, oppure le blocchiamo nel loro movimento. Guardando, tratteniamo il respiro oppure (nel peggiore dei casi) ansimiamo. Leggendo invece respiriamo. (Chappell-Bringhurst 2004:194)
La differenza principale tra leggere e guardare è una differenza ritmica. Leggendo, respiriamo, ovvero seguiamo un percorso impostato in maniera più o meno diretta sui ritmi del respiro. Guardando, viceversa, seguiamo un percorso più o meno arbitrario a seconda del caso, ma in ogni caso del tutto indipendente da qualsiasi impostazione ritmica, in particolare da quella del respiro.
Per dirla in un altro modo, la scrittura è sì qualcosa che si guarda, ma che non perde mai del tutto la relazione che intrattiene con la dimensione lineare e sonora della lingua parlata. E la lingua parlata è per sua stessa natura impostata sul respiro, è emissione di fiato, ritmata dalla necessità di inspirare l’aria necessaria per produrre i suoni delle parole. Come vedremo tra breve, questa ineludibile natura sonora della lingua agisce in qualche modo anche attraverso la scrittura, e riverbera sulla parola scritta le proprie qualità.
La scrittura è però comunque un fatto grafico, ancor prima che sonoro. Di sicuro nella scrittura poetica la dimensione sonora procrastina la propria scomparsa molto più di quanto non faccia nella prosa – eppure sappiamo bene quanto i testi prodotti per essere letti con gli occhi siano differenti da quelli prodotti per essere ascoltati! E la poesia è fatta per essere letta o per essere ascoltata?
In questo libro assumiamo che la poesia sia fatta prima di tutto per essere letta, ma che, di questa lettura, una sorta di “recitazione ad alta voce interiore” sia una parte così importante che anche l’ascolto vero e proprio può giocare il suo ruolo. Non a caso una gran parte delle pagine di questo libro è dedicata alla dimensione sonora evocata dal testo poetico.
Di sicuro, la poesia è uno strano ibrido: gran parte dei testi poetici sono così complessi da pretendere di essere letti, piuttosto che ascoltati, per poter essere capiti; eppure per loro tradizione e natura sono così legati alla propria sostanza fonica da pretendere l’ascolto, almeno virtuale. Anche se dedicheremo molte pagine a questa sorta di ascolto che la poesia mette in scena, la natura scritta della poesia comporta inevitabilmente una certa rilevanza della sua dimensione visiva, ovvero di un qualche guardare che non si risolva in un leggere.
La lunghezza media dei versi, la divisione in strofe, la posizione sulla pagina, sono elementi tradizionali del testo poetico che non hanno necessariamente un effetto diretto nella dimensione sonora. Quando Stéphane Mallarmé scrive il suo Coup de dés[4], distribuendo graficamente i suoi versi sullo spazio bianco della pagina, sta sviluppando una possibilità che esiste da quando la poesia è sostanzialmente una testualità scritta. Nessuna recitazione del poemetto di Mallarmé può esprimere compiutamente la differenza tra la sua impaginazione e quella tradizionale. Quindi, l’impaginazione ha un valore visivo proprio, indipendente dalla qualità sonora della poesia, un valore che dipende da un guardare che, pur se accompagnato da un leggere, non si risolve in quel leggere.
All’esperimento di Mallarmé ne faranno seguito tanti, nel corso del Novecento, sino al costituirsi di una vera e propria poesia visiva, spesso molto più da guardare che non da leggere – anche se la componente della lettura non scompare mai del tutto.
Questa dimensione puramente visiva, legata al guardare, secondaria ma non assente nella poesia tradizionale e talvolta primaria nella poesia più recente, richiede di essere esplorata. Anche la componente visiva, cioè, contribuisce al significato di un testo poetico e alla sua sollecitazione emotiva. La natura ambigua della parola scritta costituisce un campo di possibilità espressive che la poesia può sfruttare, anche quando gioca soprattutto sull’evocazione della dimensione orale.
0.4. Immersivo vs frontale
Per capire la rilevanza specifica della dimensione orale, è necessario approfondire un poco le conseguenze delle differenze percettive che esistono tra visione e ascolto[5].
La visione ci pone di fronte a quello che vediamo. Noi vediamo le cose senza avere con loro necessariamente nessuna ulteriore relazione di carattere fisico: le vediamo senza che nessun tipo di contatto debba avvenire. È così che possiamo concepire le cose separatamente da noi stessi: questo siamo noi, quello è ciò che vediamo. La stessa metafora dell’“osservazione”, che si concretizza nell’osservazione di carattere medico, o nell’osservatore scientifico, rispecchia l’idea di un soggetto che percepisce (con attenzione critica) qualcosa che accade di fronte a lui.
Nell’ascolto, viceversa, non ci troviamo di fronte a ciò che percepiamo. Il suono invade l’ambiente e quindi, prima di tutto, vi siamo dentro. E il suono invade anche noi, ci tocca in profondità, producendo vibrazioni nel nostro stesso corpo. Percepiamo queste vibrazioni certamente attraverso i timpani dell’orecchio, ma in molti casi (specie se i suoni sono bassi e molto forti) le percepiamo in tutto il nostro corpo. Non siamo dunque solo dentro al suono, ma il suono entra dentro di noi, facendoci vibrare insieme a ciò che suona.
Un’esperienza frontale, come quella della vista, si contrappone dunque a un’esperienza immersiva; un percepire distaccato si contrappone a un percepire inevitabilmente compartecipe. Le metafore dell’ascolto, guarda caso, sono molto diverse da quelle della visione: in italiano, addirittura, abbiamo un verbo, sentire, che viene usato sia per la percezione dei suoni che per quella delle sensazioni ed emozioni: io sento una musica lontana, così come sento freddo, così come mi sento arrabbiato, turbato, innamorato.
Attraverso lo scambio di suoni un animale non si limita a segnalare ai suoi simili la propria presenza, o a comunicare la presenza di un pericolo o la propria disponibilità sessuale. Nelle specie più evolute il suono può essere usato a scopo empatico. Le vibrazioni sonore della madre possono ricreare la sensazione di unione che il piccolo ha perso con la nascita, e calmare il suo pianto o la sua paura; con le grida si può trasmettere l’eccitazione o la stessa paura, e comunque rafforzare il senso di appartenenza a una comunità, con la quale, appunto, ci si trova in sintonia.
Non c’è ragione di pensare che questa funzione empatica si perda quando nella specie umana il suono si evolve in linguaggio. Il comprendere il significato delle parole non inibisce il nostro vibrare al loro suono. Analogamente abbiamo ragione di pensare che la musica stessa nasca da un raffinamento delle potenzialità di questa dimensione compartecipativa su base immersiva.
Come vedremo meglio poco più avanti (par. 1.1), la musica non nasce per essere ascoltata, bensì compartecipata e vissuta, con un atteggiamento che ha caratteri simili a quelli che accompagnano il rito. La danza e la cerimonia sono i contesti in cui per molti secoli la musica viene eseguita, a cui si potrebbe aggiungere la dimensione empatica diretta del canto su base poetica. In questi contesti non esiste un ascoltatore come lo pensiamo oggi, posto di fronte alla musica in un’attività solo ricettiva-interpretativa. Nella danza come nella cerimonia – situazioni tradizionalmente rituali – la musica è il fattore socialmente unificante, è cioè il ritmo, l’andamento nel quale la collettività si può riconoscere come collettività.
In questa dimensione sostanzialmente immersiva, al suono, specie se prodotto dalla voce di qualcuno, non viene attribuita una funzione di informazione sul mondo come accade per l’immagine. Il suono è soprattutto latore di una funzione di consonanza, attraverso l’eventuale sintonia con chi lo produce o con gli altri che lo stanno percependo insieme a me: stiamo vibrando insieme, ondeggiando insieme, sentendo insieme.
L’andamento della vibrazione può finire per corrispondere all’andamento di sensazioni ed emozioni. Queste sensazioni ed emozioni possono essere comuni, compartecipate, condivise da tutti i presenti. E se questo andamento sonoro ed emotivo si accompagna a un discorso, per esempio sviluppato attraverso quelle stesse parole che sono state espresse con i suoni, inevitabilmente questo discorso verrà interpretato all’interno della dimensione sonora, sensitiva ed emotiva, e al senso di compartecipazione creato dai suoni.
Come vedremo in questo libro, la poesia ha una relazione complessa con la dimensione sonora, che necessita di un’analisi precisa. Tuttavia, pur con i limiti che vedremo, questa dimensione sonora è presente e determinante per la fruizione del testo poetico.
In altre parole, la fruizione di un testo poetico non si esaurisce nella sua comprensione. Benché la comprensione sia necessaria, l’esperienza del lettore di poesia non è fatta solo del capire quello che il testo gli sta dicendo. La poesia non è solo un discorso complesso e fascinoso, che sfrutta dimensioni del senso che la parola normalmente ignora: è anche l’occasione per un’esperienza immersiva, compartecipativa, rituale, con caratteristiche orfiche.
Capire le modalità di questa esperienza ci permette, in molti casi, anche di raggiungere un ulteriore livello di comprensione del testo poetico, e a sua volta questa comprensione può mettere in moto ulteriori risonanze orfiche, con un meccanismo che, nei casi più felici, davvero non si interrompe mai. Che continuiamo oggi a studiare Dante, Catullo, Saffo, a tanti secoli di distanza, è la dimostrazione che esistono testi poetici inesauribili, destinati a produrre nuove significazioni e nuove emozioni ogni volta che si confrontano con un’epoca nuova.
0.5. La questione della lirica
È ormai un luogo comune osservare che, dei diversi generi in cui era tradizionalmente divisa la poesia, solo la lirica è rimasto in auge, e che, di fatto, il campo della lirica oggi corrisponda a quello della poesia. La lirica è la poesia di espressione soggettiva, quella al centro della quale c’è un io, un io lirico, ingenuamente identificato di solito con l’io del poeta.
Ma non c’è bisogno di un io manifesto perché la poesia sia lirica. L’espressione può essere benissimo soggettiva anche se si sta utilizzando la terza persona. Il soggettivismo[6], cioè la tendenza a mettere il soggetto al centro del componimento poetico, si può esprimere anche, per esempio, attraverso la scelta di una forma metrico-ritmica particolare, al di fuori delle regole costituite. In questo senso, la nascita e lo sviluppo del verso libero a fine Ottocento è una conseguenza del dominio della lirica, perché il verso libero è quello attraverso cui il poeta esprime la propria soggettività anche nella forma metrica – che stia esplicitamente dicendo “io” oppure no.
Se vediamo le cose in questi termini, praticamente tutta la poesia del Novecento può essere vista come lirica, compresi i tentativi di riduzione dell’io, cioè i tentativi di costruire una modalità poetica che non si presenti come espressione del soggetto[7]. Il luogo comune che riduce la poesia a espressione spontanea della soggettività individuale è a sua voglia un figlio ingenuo di questa prospettiva. Ne riparleremo nelle ultimissime pagine.
Due cose vanno osservate a proposito del predominio della lirica. La prima è che esso corrisponde sì, certamente, a un imporsi del valore dell’individuo e del soggetto nella nostra società degli ultimi secoli[8]; ma all’interno di questo medesimo soggetto, la psicoanalisi e l’antropologia hanno situato delle aree che non gli appartengono affatto, e sono piuttosto sociali, condivise. Anche per questa acquisizione (o perdita intrinseca di soggettività, se preferiamo), la soggettività di oggi può pretendere di esprimere l’universale, visto che, in fin dei conti, essa ce l’ha, volente o nolente, dentro di sé.
La seconda è che la dimensione lirica si deve comunque confrontare con quella immersiva, rituale, di cui stiamo parlando in questo libro; e quindi confluire in un senso di condivisione sovra-soggettivo. Se non facesse questo, non sarebbe nemmeno riconoscibile come poesia.
0.6. Questo libro
Questo libro cerca di descrivere l’esperienza della fruizione poetica. Per fare questo deve parlare sia della dimensione discorsiva del testo poetico – che dipende dalla sequenza delle parole (proprio come nella prosa) ma anche dalle interazioni tra questa sequenza e una serie di caratteristiche specifiche della poesia – sia della sua dimensione immersiva, partecipativa, orfica. Questa seconda dimensione si articola in sistemi di ritmi e di tensioni che si manifestano sul piano dell’espressione come anche sul piano del contenuto: ritmi e tensioni morfologiche e sintattiche, ma anche ritmi e tensioni semantiche e narrative.
Inizieremo (cap. 1) parlando della fruizione musicale, cercando di definire che cosa caratterizzi l’esperienza sonora, quando è diretta a testi di carattere estetico. Questo ci sarà utile per capire subito dopo quale sia lo specifico sonoro della poesia; e su questo quadro di fondo esploreremo le caratteristiche del metro e del ritmo prosodico. Ma questa stessa comprensione ci sarà utile, nel capitolo successivo (cap. 2), anche per capire che cosa siano e come si manifestino i ritmi semantici e narrativi.
Un capitolo (cap. 3) sarà dedicato alla costruzione del discorso in prosa, ricercando al suo interno una serie di aspetti (alcuni anche di carattere emotivo) di cui pure la poesia fa uso. Ritroveremo questi aspetti anche nel capitolo 4, dedicato alla costruzione del discorso poetico, ma sarà a questo punto centrale la loro interazione con gli aspetti specificamente poetici che sono stati descritti nei capitoli precedenti.
Incominceremo ad avere, a questo punto, un quadro abbastanza dettagliato della situazione, e potremo permetterci di mettere in gioco (cap. 5) quegli elementi, puramente visivi, che non hanno nessuna relazione diretta con la dimensione sonora. La scrittura ha una sua specificità, come ce l’hanno una serie di aspetti visivi presenti da lungo tempo in poesia. Esiste però anche una poesia fortemente basata sulla dimensione visiva, cui è necessario dedicare uno spazio.
Nell’ultimo capitolo (cap. 6) cercheremo quindi di descrivere la fruizione poetica nella sua complessità, tracciando alcune linee di un’estetica poetica, con un accenno finale alla dimensione dello scrivere.
[1] Vedi il par.3.1, per un’espansione di questo discorso.
[2] Sui ritmi del contenuto, vedi sotto Cap. 2. Più in generale, su ritmi e tensioni nei testi, narrativi e non, cfr. Barbieri(2004).
[3] Al rapporto tra leggere e guardare nella comunicazione visiva (poesia visiva e poesia concreta incluse) ho dedicato il volume Barbieri (2011).
[4] Vedi sotto, par.5.2.1.
[5] Ho dedicato a questo tema diversi articoli (Barbieri 2008, 2009 e 2010), ma la problematica nasce in Ong (1967 e 1982). Per quanto riguarda la musica si trova affrontata anche in Piana (1991), in Capuano (2002) e in Sparti (2007).
[6] O meglio, quello che Guido Mazzoni (2005) chiama piuttosto espressivismo.
[7] Per lo sviluppo di questa tesi, vedi ancora Mazzoni (2005). L’espressione “riduzione dell’io” è invece di Alfredo Giuliani (1965), nell’Introduzione 1961 all’antologia de I Novissimi.
[8] Su questo tema, oltre a Mazzoni (2005) vedi anche Ferry (1990).
Anthony Braxton (con Dave Holland b, Barry Altschul dr, Kenny Wheeler tr.), Five Pieces, 1975
Visto che sono in tema di jazz, restiamo in tema di jazz. Nel 1979 sapevo pochissimo di jazz, e lo avevo scoperto, di fatto, da pochi mesi. C’ero entrato da un ingresso strano, non dallo swing né dal bebop. Tutto era iniziato l’autunno prima, quando un amico, che suonava il sax, mi aveva fatto ascoltare un disco di Anthony Braxton, “Five Pieces”. Io ci avevo riconosciuto gli stilemi delle avanguardie, e avevo drizzato le orecchie.
Poi avevo trovato un complice, anzi un maestro, che di jazz era un patito, e mi spiegava un sacco di cose, e mi faceva ascoltare i dischi giusti. Tanto per restare in zona Chicago, oltre ad altri dischi di Braxton, ascoltavo e riascoltavo The Art Ensemble of Chicago, e Muhal Richard Abrams; e poi di lì verso Cecil Taylor e Ornette Coleman, e ancora verso forme di jazz più tradizionali. Avevo molta puzza sotto il naso all’epoca, e benché facessi fatica a negare il piacere che mi procurava comunque Louis Armstrong, faticavo a giustificarne il valore a fronte degli anatemi di Theodor Wiesegrund Adorno.
Iniziai a frequentare i concerti, uno dopo l’altro. Ne ricordo uno molto bello (ma con un’acustica terribile) di Braxton alla sala della Gran Guardia di Verona. Quando il mio amico/maestro mi propose 5 giorni all’International Jazz Festival di Pisa, tutto dedicato alle avanguardie – e avremmo persino potuto dormire da un suo amico! – mi sembrò un’occasione straordinaria. E lo fu davvero.
Era fine maggio o primi di giugno, mi pare. Arrivammo a Pisa in autostop. Le giornate erano pienissime: mattina, pomeriggio e sera fitte di occasioni musicali. Di giorno concerti con caratteri didattici, quasi seminari a volte. Di sera, fino a molto tardi, gli spettacoli.
Ne ho ancora, di alcuni, un ricordo vivissimo. Han Bennink (con Misha Mengelberg e connessa sigaretta penzolante dal lato della bocca) che nel corso di un interminabile assolo si alza e, correndo, suona l’intera cancellata del palasport dove si svolgeva il concerto. Steve Lacy che esegue la sua preghiera tibetana camminando per il giardino Scotto (in seguito lo avrei sentito ripetere questo pezzo in molte, forse troppe occasioni, ma era la prima volta, quella). George Lewis che improvvisa al trombone da solo per un’ora (e forse dopo un po’ non ne potevamo più, ma non si poteva ammettere). Dave Holland pure da solo al contrabbasso, ma il tempo, alla fine, era volato via. Derek Bailey che improvvisava alla chitarra cose incomprensibili. Di molti concerti non ho più ricordo. Mi sembra che ci fosse Roscoe Mitchell, ma potrei confondermi con qualche concerto di qualche mese dopo altrove. Di sicuro il festival si concludeva con un evento differente, un’orchestra del gamelan di Bali, sul palcoscenico all’aperto del giardino Scotto. E sulle loro scenografie già pronte, oscillanti al vento della sera, Anthony Braxton aveva subito prima suonato da solo, in maniera memorabile.
Avevamo fatto gruppo con altri appassionati, amici di amici. La sera, tornando verso casa (e c’era un sacco di strada da fare), si improvvisavano jam session vocali. Ma quando qualcuno aveva buttato lì che però forse Charlie Mingus era anche meglio di quello che ascoltavamo lì (con tutta la passione che ci mettevamo), si era levato immediatamente un coro di approvazioni. Mingus era morto, piuttosto giovane, pochi mesi prima. Io un po’ ignorante e un po’ supponente, non dissi nulla. Pensai che però Mingus rappresentava la tradizione, e comunque l’avanguardia doveva essere meglio; ma mi appuntai di ascoltarlo, questo autore di cui tutti i presenti parlavano con aria sognante.
Racconto tutto questo un po’ perché mi va di condividere questo ricordo, e un po’ per via di un episodio significativo, un piccolo ma enorme passaggio di crinale, quei pochi metri di differenza che fanno sì che poi si scenda verso un mare piuttosto che verso un altro. Voglio dire che cinque giorni passati ad ascoltare, dodici ore al giorno, musica di avanguardia, lasciano per forza il segno. Quando inizi ti sembra tutto straordinario (anche perché è da tempo che corri dietro a questo mito) e dove non capisci dai comunque la colpa a te stesso. Ma poi, col succedersi dei concerti, ti rendi conto che anche nel contesto dell’avanguardia le forme finiscono per ripetersi, la quantità delle combinazioni è limitata, e talvolta quella che all’inizio ti era sembrato un problema di difficoltà per l’asprezza del linguaggio, a un certo punto si rivela come semplice noia: dopo tre, quattro giorni, quella roba lì l’avevamo già sentita, e un sacco di volte. Tra gli altri, emergevano comunque dei concerti di un livello differente, e Braxton e Holland si rivelavano certamente più bravi di molti altri, ma era difficile dire perché, visto che, tutto sommato, ritrovavamo anche nella loro musica quelle stesse forme, quello stesso modo di fare, quelle stesse strutture. Ci appariva quindi a un certo punto impossibile sostenere che Braxton (poniamo) ci piaceva perché faceva quel tipo di musica, il jazz di avanguardia. Lì, al festival di Pisa, tutti facevano quel tipo di musica, ma non tutti erano ugualmente apprezzabili.
Ricordo benissimo che l’ultima sera ebbi una discussione feroce con un amico di amico che sosteneva quello che io stesso avrei sostenuto sino a tre giorni prima, ovvero che il valore di quella musica stava nella sua componente di rottura, di contrapposizione, di non rispetto delle regole, di antagonismo al sistema commerciale. Ma come potevano le cose stare a questo modo quando, dopo tanti concerti, ci appariva evidente che esisteva una norma dell’avanguardia, un sistema di regole condivise anche lì, una – chiamiamola così – banalità del nuovo non meno noiosa della banalità del commerciale? Tanto più che quella stessa musica aveva la sua stessa – per quanto minore, di nicchia, marginale, ma non inesistente – dimensione commerciale.
Non ci era più possibile generalizzare, e salvare il genere per ragioni ideologiche, ora che dopo quattro giorni interi di ascolto, ci stava davanti agli occhi (o dentro alle orecchie) che quello era davvero un genere – contro tutto ciò che pensavamo sino a poco prima. Ma se l’avanguardia era un genere, con i suoi maestri e le sue mezzecalzette, le sue maniere e le sue regole, allora la denominazione “avanguardia” non le si poteva più attribuire in senso proprio; perché, in senso proprio, l’avanguardia è la punta estrema di un processo progressivo. Se la si riconosce come genere, allora le si toglie quel privilegio che la denominazione le vorrebbe attribuire. È solo un genere tra gli altri – magari quello che ci piace, ma non di più. Per bene che vada, può essere qualificato come un genere frequentato da molti artisti di valore: ma anche questo va appurato nei fatti, e si può persino scoprire che i musicisti di valore abbondano pure in altri generi, magari persino meno ideologicamente puri, magari persino più mefistofelicamente commerciali.
E allora tanto valeva davvero provare ad ascoltare Charlie Mingus, per scoprire che sarebbe stato bello sentire dal vivo pure lui, e che la sua intelligenza musicale era comunque straordinaria, anche se con l’“avanguardia” (adesso le virgolette sono diventate d’obbligo) non aveva contatti diretti. E magari poi, la scoperta che andavo facendo rispetto al jazz valeva anche per altri tipi di musica, e pure per altre arti; e chissà mai che persino la neoavanguardia letteraria italiana (quella del Gruppo 63 e dintorni) non fosse altro che l’espressione di un genere, uno tra gli altri, difeso, come tale, solo dalla protervia ideologica dei suoi teorici?
Non ho mai smesso di apprezzare Sanguineti e Porta, e di considerarli tra i più importanti poeti italiani del Novecento, ma l’ho fatto per le loro poesie, non per le loro teorizzazioni. In verità non ho nemmeno mai smesso di leggere Adorno, che continua ad apparirmi un critico musicale (e in generale, estetico) di grande qualità; ma lo è, paradossalmente, più a dispetto che a causa della sua concezione dell’arte come contrapposizione all’industria culturale. Lo trovo un concetto banale, quest’ultimo, alla fin fine: non mi spiega affatto perché in quel giugno del 1979 io abbia potuto trovare tanto più entusiasmanti Braxton e Holland di molti loro colleghi, né perché in seguito mi sia accaduto lo stesso nei confronti di Mingus, o perché in qualsiasi ambito io possa trovare delle differenze di qualità del tutto indipendenti dal genere, ma anche dal rapporto di adesione o contrapposizione al Moloch dell’industria culturale – benché non ne ami le regole, di questa, benché la rifugga ogni volta che posso, benché sia rimasto anche in me un po’ di quello spirito da vecchio aristocratico che certamente muoveva anche Adorno. Ma non posso chiudere gli occhi (o le orecchie) in nome di un’idea, qualunque essa sia.
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Miles
Qualche giorno fa, leggendo questo post di Sergio Pasquandrea, mi è venuto voglia di riascoltare Miles Davis. Con la musica di Miles ho uno strano rapporto. E non posso farci niente: ci ho già provato un sacco di volte. Insomma, finché suona il jazz tradizionale lo trovo noioso; non saprei neanche dire perché; so solo che la sua musica non mi prende, scorre su di me senza trovare appigli. Certo che come trombettista è bravo, ma è come se lui e io stessimo parlando lingue diverse: io sento che è fluente, e che può piacere, ma non capisco niente. Nei pezzi per il quartetto degli anni Cinquanta poi, quando ha al suo fianco il giovane Coltrane, la cosa mi diventa ancora più evidente, perché mi rendo conto che appena Coltrane attacca a suonare, di colpo sono tutto orecchi.
Poi c’è la svolta della fine dei Sessanta, e il mezzo milione di copie vendute di Bitches Brew, l’invenzione della fusion e le grida al tradimento, alla deriva commerciale. Bah. Sta di fatto che per me, Miles nasce con questo disco, che trovo straordinario – e gran parte di quello che ha fatto dopo mi piace da morire – al punto che non capisco bene come possa lo stesso musicista produrmi sensazioni così diverse.
Ora, io non sono un esperto di jazz e non ho nessuna pretesa di dire in merito qualcosa di interessante. Probabilmente c’è solo qualcosa che non capisco nel Miles classico, e sarei ben contento se qualcuno mi fornisse gli elementi per capire. A capire e a saper apprezzare c’è sempre solo da guadagnarci.
Quello, piuttosto, che sempre mi ha colpito, è l’anatema lanciato a suo tempo contro il Miles elettrico, e l’accusa di essere commerciale, di essersi venduto al successo. Mi colpisce, questa accusa, perché tradisce un certo atteggiamento purista che attraversa un po’ tutta la critica, di tutti i contesti, linguaggi e generi – con il correlato frequente di un atteggiamente contrario a quello che ho appena espresso, cioè il non voler apprezzare. Sembra quasi che il Miles del dopo la svolta non possa certamente fare della buona musica, perché siccome ha avuto successo commerciale quello che fa è necessariamente cattivo. Posso capire che il successo commerciale possa ingenerare dei sospetti sulla qualità, e che quello che ha avuto successo commerciale possa essere, abbia qualche probabilità in più, di essere cattivo. Ma poi le orecchie le abbiamo. I sospetti sono giustificati, ma solo finché non si tocca con mano come stanno le cose.
Eppure, stranamente, l’atteggiamento purista non solo esiste, ma è incredibilmente diffuso in tutti i contesti, e l’incapacità di apprezzare quello che esce dagli schemi è dilagante. Credo che contribuisca alla diffusione di questo atteggiamento anche un fraintendimento, sempre di origine aristocratica e adorniana come l’atteggiamento in sé: quando si parla di schemi (e dell’uscirne) sembra infatti che si parli necessariamente di industria culturale (e delle produzioni alternative, di nicchia, d’avanguardia, controcorrente). L’industria culturale ha i suoi schemi, certo, a cui di solito si deve adeguare un prodotto per essere commerciale; ma anche ciascuna delle sue alternative ce li ha (ce li hanno le produzioni alternative, quelle di nicchia, le avanguardie, l’essere controcorrente…). In una situazione di nicchia come quella del jazz degli anni Sessanta (una nicchia non troppo piccola, certo, ma sicuramente con le sue regole e il suo pubblico – e quindi i suoi schemi), andare verso il rock è certamente fare quello che non si deve fare, e quindi rompere lo schema.
Ora, essere puristi in una situazione di questo tipo vuol dire ritenere più importante lo schema dei risultati che si possono avere rompendolo. E questo non è un atteggiamento incomprensibile. Il rischio dell’operazione di Miles è quello – e tanto più se ha successo – di distruggere la nicchia; cioè, nello specifico, di distruggere il jazz, o almeno il jazz così come l’abbiamo amato sino a questo momento. La difesa dello schema è una difesa della casa in cui stiamo bene, che in qualche modo abitiamo, dove abbiamo amici con cui scambiamo opinioni, dove siamo riconosciuti e dove riconosciamo gli altri. Se la casa svanisce, come faremo? È per questo che la nuova musica di Miles, ancora prima che brutta, deve essere sbagliata, scorretta, intollerabile. In fin dei conti non abbiamo nemmeno bisogno di ascoltarla: questo è il senso dell’anatema.
Questo atteggiamento purista, di difesa degli schemi, non è una prerogativa di chi ama la tradizione. All’interno delle avanguardie, per esempio, è dominante. E tanto più piccolo è l’orto da salvaguardare, tanto più si sarà duri nel condannare ciò che ne fuoriesce; perché certo, se l’orto è piccolo, il pericolo che possa ridursi fino a scomparire è più grande, e sempre più grande.
Per la mia formazione e i miei interessi, io mi occupo di vari tipi di coltivazioni, tutti ambiti piuttosto piccoli, dove gli orti non hanno comunque modo di espandersi troppo. La varietà dei temi dei post di questo blog dà un’idea piuttosto chiara di quali siano queste coltivazioni. Tra loro, al giorno d’oggi, sicuramente la più piccola è quella del mondo poetico.
È la più piccola in termini quantitativi, di giro di affari e di visibilità pubblica, ma è anche quella che ha – e di gran lunga – la tradizione più antica. Questo produce un effetto paradossale: il prestigio dell’essere un poeta apprezzato non consiste tanto nel guadagno o nell’esposizione mediatica (quanti sono gli italiani che conoscono il nome di Milo De Angelis, per esempio?), ma nel potersi presentare, prima di tutto a se stessi, come qualcuno che è riconosciuto come appartenente alla stessa tradizione di Omero, Dante, Leopardi e Montale. Si tratta di un prestigio virtuale, in termini commerciali, ma estremamente reale e vincente in termini psicologici. Il poeta di oggi riconosciuto grande nel suo ambito non sposta una virgola a livello di cultura dominante, ma per chi lo conosce (e per se stesso, di conseguenza) il suo prestigio è enorme, superiore a quello di un famoso regista, o di una rockstar.
Questo enorme prestigio è però legato alla dimensione minuscola della coltivazione, e a quella microscopica dell’orto di riferimento. C’è da stupirsi se nel mondo della poesia l’orticello venga difeso con le unghie e con i denti? C’è da stupirsi se ci siano critici che forniscono il decalogo di quella che è la poesia buona? Purtroppo non tutti coloro che rompono gli schemi consolidati lo fanno con qualcosa paragonabile a Bitches Brew, perché il talento è raro; ed è quindi facile ai puristi trovare dei controesempi di scarsa qualità, portandoli come prove della miseria in cui vive e produce chi è uscito dall’orto, o non ci è mai entrato.
Il campo del fumetto, che mi è altrettanto caro, mostra, da questo punto di vista, dialettiche molto meno irritanti, spesso fin troppo poco irritanti. Il campo è un po’ più grande (non molto più grande), vi gira più denaro (non granché, certo, ma decisamente di più) e più esposizione mediatica (almeno un poco), ma molto molto molto meno prestigio (quello virtuale di cui sopra). In poco più di un secolo di vita è dura avere degli antenati paragonabili a quelli dei poeti. Per questo le certezze e le difese che contraddistinguono i purismi hanno meno ragione di esistere – e non ci si scanna per decidere che tipo di fumetto sia più autentico, così come succede nel campo della poesia, e in altri. Ci si scanna magari per altro – ma è anche un altro discorso.
Qualcuno, a questo punto, potrebbe anche cercare di spiegarmi perché il secondo Miles debba essere disprezzato, ma non credo che mi convincerà. Do invece qualche chance in più a chi mi volesse convincere della qualità del primo Miles – anche se ormai la vedo dura pure lì, ma non c’è nulla di ideologico in questo. Ci ho provato invano anche con Schumann a farmelo piacere, e lì non c’era né un Coltrane di riserva né una svolta elettrica a cambiare le carte in tavola. Quello che certamente non voglio è che le mie opinioni su ciò che è bene e ciò che è male determino i miei gusti. Se facessi così mi precluderei qualsiasi possibilità di cambiarle, le mie opinioni, qualsiasi possibilità di capire le cose meglio di quanto non le capisca adesso.
Nonostante le apparenze, questo non è un post (solo) sulla poesia. Ecco dunque queste apparenze.
Ci sono due eventi all’origine delle riflessioni che sto per esporre. Intanto, mi sono arrivate le bozze del mio libro sulla poesia (Il linguaggio della poesia, Bompiani – ne ho anticipato qualcosa qui), e nel correggerle mi si sono inevitabilmente scatenate varie riflessioni. L’altro è la segnalazione di un sonetto di Gongora (grande poeta spagnolo del Seicento), da parte di un’amica ispanista che mi ha promesso un riferimento più preciso di quello che ricordava a memoria e che, a quando ho capito, per parlare di una bellezza imperfetta, concluderebbe la sua sequenza con un endecasillabo eccedente e sgraziato, un po’ a modello di ciò di cui sta parlando.
Mentre sono in attesa del riferimento preciso, per leggermi davvero il sonetto, non posso fare a meno di pensare che l’uso di un verso a-metrico non fa certo di Gongora un precursore del verso libero. Anzi, se le cose stanno come ho capito, il verso “sbagliato” di Gongora deve la sua efficacia locale proprio al contesto in cui si trova, all’allusione che produce, e alla sostanziale validità del principio metrico: insomma, è la classica eccezione che conferma la regola, mettendola in evidenza proprio con il suo occasionale scarto.
Dunque, sinché lo scarto è occasionale, esso contribuisce a rafforzare la regola – ma quando comincia a diventare a sua volta regola, la nuova regola scaccia quella vecchia. E il verso libero vero e proprio non è in nessun senso una conferma della metrica tradizionale.
Nel mio libro sostengo, tra le altre cose, che la metrica tradizionale rappresenta un quadro regolare, sicuro e confortante, attraverso cui possono essere trasmessi anche i significati più inquietanti o spaventosi, rendendoli accettabili. Sono accettabili, in questi casi, perché la regolarità metrica funziona come metafora (o persino come locale implementazione) dell’ordine imposto dall’uomo alla natura selvaggia (ivi compresa quella, interiore, dei sentimenti). Il quadro regolare e assestato del sonetto, per esempio, fa da cornice, e rende più facilmente accettabili sin la disperazione e la tragedia, quando emergono. Proprio come gli elementi di antropizzazione del paesaggio, o il riconoscimento di una struttura narrativa in una situazione di angoscia incontrollata (e il mestiere degli psicoanalisti è fatto anche del saperla fare emergere dal caos mentale del paziente).
Così, possiamo pensare la metrica tradizionale come il corrispondente in poesia delle strutture sociali tradizionali – quelle al cui interno abbiamo vissuto per secoli, al riparo dagli eccessi della natura, esterna o interna a noi. Da questo punto di vista il sonetto di Gongora (così come me lo sto immaginando) non viola nulla: quello che fa è semplicemente giocare sul principio, suggerendo che l’imperfezione del suo oggetto possa riflettersi persino in un’imperfezione dell’ordine umano delle cose.
Ma il verso libero è un’altra cosa. Nel mio libro suggerisco che l’uscita dalle strette del metro permetta alla disperazione e alla tragedia (o a quant’altro) di esprimersi in maniera più diretta ed efficace, perché la cornice in cui vengono inserite è più leggera e meno distanziante. In altre parole, una poesia in versi liberi rimanderebbe molto meno (ma in qualche modo deve continuare a farlo) all’ordine umano e sociale imposto alla natura; e in questo modo ridurrebbe la distanza nei confronti del proprio oggetto emotivo, rendendolo più vivido ed efficace.
Continuo a pensarla così (nel libro tutto questo viene spiegato molto più ampiamente), ma ho la sensazione che ci sia dell’altro.
Il punto è che la poesia in versi libero non esclude il metro. Semmai, quello che è accaduto è che a una serie di strutture metriche (all’incirca) stabili da secoli si cerca di sostituire delle strutture nuove, adatte alla situazione espressiva particolare. Ma se la metafora (o locale implementazione) di cui parlavamo sopra resta valida, questo tentativo dovrebbe corrispondere anche a un tentativo di costruire strutture sociali nuove. È certamente un tentativo presuntuoso, ma è proprio quello che la modernità ha cercato di portare avanti, timidamente nel corso dell’Ottocento e poi molto più spavaldamente nel Novecento, sino alle utopie razionaliste del comunismo sovietico, che ha sognato di ricostruire l’ordine sociale da zero, coi risultati che sappiamo.
Senza arrivare a questi estremi, mi sembra comunque che il verso libero sia figlio della stessa presunzione che ci fa pensare di poter essere davvero i capitani della nostra stessa società e delle nostre vite, capaci di sottomettere tutto a un nuovo ordine, razionalmente fondato. Non è un’idea campata in aria, e soprattutto è l’idea dentro cui viviamo, ma ancora non sappiamo se sia destinata ad avere successo sul lungo termine, e in che misura andrà eventualmente emendata per poter funzionare a lungo. Rispetto alle società tradizionali, che funzionavano così perché si basavano su un ordine che, giusto o ingiusto che fosse, era validato da secoli o millenni di sopravvivenza, la nostra società pretende di sapersi progettare in termini nuovi, e magari anche più giusti. Allo stesso modo lo pretende la poesia moderna, che ha abbandonato le certezze dell’organizzazione assestata da secoli a favore delle incertezze del progetto.
Il punto non è, a questo punto, se il passato sia meglio del presente, o viceversa. Questo sarebbe oggi un problema unicamente virtuale, perché al punto in cui siamo non c’è possibilità di ritorno (se non attraverso una certo non auspicabile catastrofe). Nell’ambito ristretto del metro, non basta affatto recuperare la metrica tradizionale per ripristinare la situazione precedente. Oggi come oggi, dopo un secolo di intensivo verso libero (e a due secoli e passa dalla sua nascita), l’endecasillabo, per esempio, appare una possibilità come un’altra, e non come un obbligo. I poeti cosiddetti neo-metricisti non stanno riproponendo il passato, ma soltanto avanzando un progetto tra i tanti, magari profumato di classicismo, ma niente di più. Se anche una volta l’endecasillabo si contrapponeva (statisticamente vincente) ad altri metri ugualmente canonici, inevitabilmente in numero limitato, tra i quali era giocoforza scegliere, oggi l’endecasillabo non è che una scelta tra innumerevoli potenzialità progettuali per il quadro di riferimento.
La poesia, alla fin fine, socialmente ne patisce – ma non perché i poeti di oggi siano meno capaci di quelli di ieri (e certamente, oltretutto, ci rappresentano di più). È semmai perché quella funzione di conforto, di sostegno all’ordine umano e riconosciuto delle cose, non è più possibile – ed è passata, sostanzialmente, ad altre modalità di espressione. Nel leggere una poesia dell’ultimo secolo non posso contare su un quadro di sfondo condiviso: persino la presenza di un simile quadro (o la possibilità di condividerlo) va verificata caso per caso. È naturale che la situazione venga sentita come enormemente più complicata di prima: non solo sono scomparse le certezze, ma ciascuno ha il diritto di suggerire le proprie. Meraviglioso! e insieme devastante. Non ne possiamo fare a meno, perché ciò che non è così non ci rappresenta; ma questo non è necessariamente positivo.
Ancora un’osservazione: non sto parlando delle avanguardie, degli esperimenti estremi. Quello che ho detto vale per Sandro Penna come per Nanni Balestrini. E siccome, nonostante le apparenze, non sto parlando solo di poesia, vale per Frank Miller come per Lorenzo Mattotti o Chris Ware; con il vantaggio (o lo svantaggio) per il mondo del fumetto, di non avere secoli di tradizione regolatrice alle spalle, essendo nato già in un mondo orientato più al progetto che alla tradizione. Ma, di questo, in qualche prossimo post.
25
Así como a veces desearíamos
que Karl Marx y Arthur Rimbaud
se hubieran conocido en una mesa
de algún Café de Londres,
mientras en el agua sórdida del Támesis
– ahíta de grumos aceitosos
que flotan entre botellas y colillas
y ropa gris de gente ahogata –
espera el Barco Ebrio, ya sin anclas,
a que el fantasma que recorre Europa
suba también, para zarpar
(Karl, vestido con blue jeans marineros
se despite de Engels en el muelle
y Arthur hace lo propio con Verlaine
– los sueños insolentes ahora enfundados
en la gorra que usó él mismo en la Comuna);
así come, a estas alturas, quisiéramos
que Hegel, apeado del estrado de su cátedra,
hubiese visitado a Hölderlin un día
en su manicomio oculto de la torre
para escuchar cómo el demente
– sin reconocerlo tal vez en su delirio –
le habla de un viejo amigo de Tubinga
con quien, en mitad de una fiesta adolescente,
bailó una mañana, junto a un árbol
por ellos mismos levantado
(“Libertad”, lo llamarían),
tan fieros y felices como niños orinándose,
con el impudor de los puros, frente al rey
(en la siesta monocorde del verano,
recordando novias suavísimas de Heidelberg,
los dos compañeros se confiesan:
la razón debe pedirle a la locura
su danza irreductible, la inocencia
con que el loco Hiperión, desde su torre,
enseña al profesor que la luz blanca,
la rosa de los vientos del Espíritu,
no termina en el Estado de los Césares,
se burla de las Prusias de los káiseres);
así querría yo hoy que a William Blake
lo hubiesen dejado predicar un solo día
sobre el púlpito labrado de una iglesia
– la catedral de Westminster, por ejemplo –
en presencia de arzobispos y presbíteros
y de una moltitud de feligreses
harta, como todas, de sermones.
Imagino el viento sagrado resonando,
por primera vez, junto a los mármoles,
mientras los cuerpos, desnudados por fin
como a la hora del agua o del amor,
se erizan con el paso del Dios vivo
y tiemblan ante el olor de Cristo el Tigre
devorando las ingles de las almas,
ahora tan intactas, tan ebrias y tan vírgenes
como la de aquel niño canoso viendo ángeles
a la hora en que arde Venus sobre Lambeth
y hasta las prostitutas de Soho profetizan.
(Armando Rojas Guardia, da Poemas de Quebrada de la Virgen, 1985)
25
Così come a volte sogneremmo
che Karl Marx e Arthur Rimbaud
si fossero incontrati a un tavolino
di un qualche caffè a Londra,
mentre là nell’acqua sozza del Tamigi
– piena di grumi oleosi
che fluttuano tra bottiglie e mozziconi
e abiti grigi di gente annegata –
attende il Battello Ebbro, già senz’ancore,
che il fantasma in giro per l’Europa
salga anche lui, per salpare
(Karl, vestito con blue jeans da marinaio
sta salutando Engels là sul molo
mentre Arthur fa del proprio con Verlaine
– i suoi sogni insolenti adesso infoderati
nel berretto da lui usato alla Comune);
così come, a queste altezze, amassimo
che Hegel, disceso dal gradino della cattedra,
avesse un giorno visitato Hölderlin
nel manicomio occulto della torre
per ascoltare come il demente
– senza riconoscerlo forse nel delirio –
gli parla di un vecchio amico di Tubinga
con cui, a metà di una festa adolescente
ballò una mattina, presso un albero
fondato da essi stessi
(“Libertà”, lo chiamerebbero),
così felici e fieri come bimbi che pisciano,
con l’impudicizia dei puri, verso il re
(nella siesta monocorde dell’estate,
ricordando ragazze dolcissime di Heidelberg,
si stanno confessando i due compagni:
dalla follia la ragione deve avere
la danza irriducibile, l’innocenza
con cui il matto Hiperion, dalla sua torre,
insegna al professore che la luce,
quella rosa dei venti dello Spirito,
non finisce nello Stato dei Cesari,
si burla della Prussia dei kaiser);
così io oggi vorrei che William Blake
lo avessero lasciato predicare un giorno solo
sopra il pulpito istoriato di una chiesa
– l’abbazia di Westminster, per esempio –
in presenza di arcivescovi e presbiteri
e di una grande folla di fedeli
esausta, come tutte, di sermoni.
Immagino il vento sacro che risuona
per la sua prima volta, insieme ai marmi,
sin quando i corpi, infine denudati
come nell’ora dell’acqua o dell’amore,
si impennano col passo del Dio vivo
e tremano all’odor di Cristo il Tigre
divorando gli inguini dell’anima,
adesso così intatti, così ubriachi e vergini
come quello del bimbo canuto a veder angeli
in quell’ora in cui arde sopra Lambeth Venere
e sin le prostitute di Soho profetizzano.
Altro esempio da Armando Rojas Guardia, e altro esperimento di traduzione, dopo quello della scorsa settimana. Qui i problemi sono diversi. Si tratta di un componimento molto più lungo in versi liberi. Il principio di base della mia traduzione rimane lo stesso: cercare di rendere in italiano l’effetto che l’originale produce in me. Mi rendo conto benissimo che questo principio implica un problema: per quanto io conosca lo spagnolo, l’effetto che una poesia di tradizione spagnola produce in me è inevitabilmente diverso da quello che può produrre in un lettore che è cresciuto in quella medesima tradizione. Non è solo questione di lingua. Per quanto io conosca Garcilaso e Lope e Gongora, e Darío e Jiménez e García Lorca e Storni e Caballero Bonald e García Montero, sono cresciuto a Dante e Petrarca, e a Leopardi e Montale, e a Pasolini e Sanguineti e De Angelis. Inevitabilmente, gli echi che un lettore nato ispanico (di lingua, intendo) sentirà, saranno diversi da quelli che sentirò io – e se pure la conoscenza del passato aiuta (anzi, è indispensabile) nessuna conoscenza approfondita sostituirà la mia specificità, il mio percorso di crescita.
In misura minore, certo, questo è vero anche a livello individuale, non solo di differenza linguistica. Quello che io posso sentire in qualsiasi componimento poetico anche nella mia lingua dipende inesorabilmente dal mio percorso di formazione – il quale, certo, non è mai terminato, e continua tuttora a modificare il mio gusto, ma in cui certe acquisizioni del passato rimangono comunque determinanti. Insomma, differenza di percorso individuale, o differenza di percorso culturale che sia, la lettura che posso fare, e dunque la traduzione che posso proporre di qualsiasi componimento è inevitabilmente la mia. E solo in parte posso appellarmi al fatto che condivido molte letture formative con tanti, e che la tradizione spagnola è abbastanza vicina (ma tutt’altro che identica) a quella italiana. I livelli di libertà che avrei anche solo con l’inglese sarebbero molto superiori.
Ecco quindi, inevitabilmente, il mio Rojas Guardia, e il mio verso libero di Rojas Guardia.
E poi si fa presto a dire verso libero. Se si guarda più da vicino l’originale ci si accorge che l’effetto ritmico complessivo è dato da una alternanza (non regolare, ma dettata da ragioni di retorica) di endecasillabi (anche ipermetri o ipometri, cioè con una sillaba in più o in meno), alessandrini e altri versi comunque piuttosto musicali, con qualche rottura ritmica qua e là. Lessico e sintassi sono abbastanza piani, su un registro non particolarmente alto – forse innalzato in verità solo dal ritmo prosodico.
È questo dunque che devo rendere nella mia lingua, cercando di essere fedele al senso il più possibile, ma all’interno dei vincoli posti dalle scelte metriche, lessicali e sintattiche generali – che sono più importanti, in poesia, della corrispondenza semantica esatta.
Così, dove mi era possibile rispettare il metro dell’originale, l’ho ovviamente fatto; mentre dove questo avrebbe portato a un lessico o a una sintassi di registro troppo alto (o troppo basso), ho cercato comunque di attenermi ai modelli ritmici di verso dominanti nell’originale. La fortuna dello spagnolo è che spesso è facile rispettare queste regole, per la somiglianza tra le due lingue; ma qualche rimpianto ce l’ho lo stesso. Per esempio, non sono contento di aver dovuto trasformare la “luz blanca” del quart’ultimo verso della seconda strofa in semplice “luce”, ma non ho trovato modo per conservare la caratterizzazione “bianca” senza perdere in efficacia ritmica – e alla fine ho deciso di levarla, scommettendo sul fatto che nel gioco poetico di Hölderlin (per come viene visto da Rojas Guardia) il fatto che la luce fosse “bianca” non fosse così essenziale.
Sono molto affezionato a questi versi, specie per la terza strofa, quella in cui il bimbo canuto che vede gli angeli William Blake predica a Westminster. Trovo molto bella, anche narrativamente, quella progressione.
Falta de mérito
Si yo fuera capaz de entrar por fin
en esa pulcritud del aire inmóvil
que he llamado silencio en el poema:
si yo fuera capaz de nombrar árbol
como esta tarde el árbol se mostraba
a sí mismo en la quietud del parque;
si yo fuera capaz de parecerme
al objeto real de mi escritura
(al agua misma cuando escribo agua
al vaso limpio cuando escribo vaso);
y si fuera posible merecerte,
cosa que ultrajo en tu mudez precisa
al hacerte sonar en mi palabra,
yo entraría en la luz de lo que digo.
——————————————————-
Mancanza di merito
Se io sapessi entrare finalmente
in questa pulizia dell’aria immobile
che ho chiamato silenzio nei miei versi:
se io sapessi nominare l’albero
come stasera l’albero appariva
a se stesso nella quiete del parco;
se io sapessi come assomigliare
all’oggetto reale del mio scrivere
(all’acqua stessa quando scrivo acqua
al terso calice quando scrivo calice);
e se riuscissi mai a meritarti,
cosa che offendo nel tuo stare muta
col farti suono nella mia parola,
nella luce entrerei di quel che dico.
Ho scoperto Armando Rojas Guardia per caso, trovandomi in Venezuela e acquistando qualche libro alla cieca. La dimensione dell’universo dei poeti di lingua spagnola è proporzionale alla diffusione della lingua, anzi di più, perché in quell’universo la poesia continua a godere di una considerazione pubblica un po’ più alta che da noi; ed è quindi ancora più difficile padroneggiarlo un minimo. È stata comunque una scoperta e un innamoramento. Non mi stupisce che Rojas Guardia sia considerato tra i maggiori poeti del suo paese, il Venezuela appunto, mentre mi stupisce che Wikipedia non abbia una voce su di lui nemmeno in lingua spagnola. Rojas Guardia è nato nel 1949; la lirica che citiamo qui appartiene alla sua prima raccolta, del 1979, Del mismo amor ardiendo (Ardendo dello stesso amore).
Mi sono provato a tradurre qualche verso suo (altri forse, oltre a questi, in futuro), e penso che possano essere interessanti alcune considerazioni sulle scelte che ho fatto.
Il criterio di base a cui mi sono attenuto è stato quello di cercare di ricostruire, nella mia lingua, il fascino che i versi di Rojas Guardia hanno esercitato su di me leggendoli nella sua. Credo che sia il criterio più corretto, anzi forse l’unico davvero corretto nel tradurre poesia – ma è tutt’altro che esente da problemi. Per esempio, tra gli aspetti che mi sono rimasti dentro c’è il nitore del suo endecasillabo, musicale e incisivo. Questa breve poesia è scritta in endecasillabi, come molte altre sue, ma la sua opera contiene tipi differenti di versi, tra cui tante composizioni in verso libero. L’endecasillabo è quindi una scelta locale, specifica.
E si tratta di una scelta che ha comunque un valore diverso che per l’italiano. Nella tradizione italiana, l’endecasillabo è il verso lirico ed epico, senza rivali; il settenario, che è forse il secondo verso più usato, è più un compagno di viaggio che un concorrente. Viceversa, nella tradizione spagnola, pur essendo ampiamente usato, l’endecasillabo è comunque un verso di provenienza italiana e petrarchesca, e, anche nella produzione del Novecento, oltre al verso libero, si trova come concorrenti sia l’alessandrino di origine francese, che l’ottosillabo (o doppio ottosillabo) che è il verso epico tradizionale spagnolo. Federico García Lorca, per esempio, nel sua Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, alterna sezioni (o anche solo gruppi di versi) in endecasillabi, ottosillabi, alessandrini e versi liberi. Mentre un poeta italiano del Novecento ha come scelte neutre solo endecasillabo e verso libero (perché tutte le altre sono particolari e meno diffuse), vale a dire – per certi versi – tradizione classica contro tradizione contemporanea, il poeta di lingua spagnola può giocare molto di più, pur senza uscire dallo stretto canone della norma (e senza dichiararsi implicitamente classicheggiante se non usa il verso libero).
Non c’è, nella metrica italiana, un verso che abbia dunque la posizione dell’endecasillabo nella metrica spagnola. Tradurre endecasillabi spagnoli con endecasillabi italiani è quasi inevitabile, ma è comunque un tradimento, perché si traduce un andamento ritmico tra i diversi possibili (e con una debole implicazione di classicità) con un andamento ritmico che è l’unico possibile (e con un’implicazione di classicità molto più forte). Scegliendo un metro diverso tradirei infatti ancora di più l’originale, perché sceglierei un andamento ritmico meno standard, meno normale. Sono rimasto affascinato, leggendo questi versi in originale, dall’endecasillabo di Rojas Guardia, e non c’è altro modo, per renderli in italiano, che riprodurre l’endecasillabo – ma bisogna essere consapevoli della differenza. Tra l’altro, benché lo spagnolo abbia una metrica simile a quella dell’italiano, e pure una prosodia e una sintassi piuttosto vicine alle nostre, le differenze ci sono, e queste differenze permettono una frequenza di effetti specifici che in italiano è più difficile ottenere, e che, riprodotta ad arte, potrebbe apparire artificiosa. Per esempio, lo spagnolo ha più parole tronche dell’italiano, essendo molto meno vincolato alla terminazione in vocale, ed è quindi più facile ottenere endecasillabi che altrove ho definito composti, cioè a tutti gli effetti costituiti da settenario+quinario (o quinario+settenario) grazie alla presenza di una parola tronca con accento in sesta (o quarta) sillaba. Nella poesia citata sopra 8 versi su 14 sono di questo tipo; per avere una frequenza analoga in italiano avremmo bisogno di ricorrere alle apocopi, ovvero al troncamento dell’ultima vocale – ma il Novecento italiano ha ripudiato quest’uso, e riprenderlo comporterebbe un ritorno a un uso passato della lingua che invece in Rojas Guardia non c’è per nulla.
Ho cercato anch’io inizialmente di mantenere la frequenza di versi composti, per rispettare al massimo la musicalità dei versi. In una prima versione avevo tradotto i versi 1, 3 e 5 rispettivamente così:
Se capace foss’io di entrare infine
se capace foss’io di dire l’albero
se capace foss’io di assomigliare
Certo, così avrei rispettato di più il ritmo prosodico dell’originale, ma a costo (come si è detto) di un uso della lingua che sa di arcaico, di petrarchesco, di ottocentesco – tutte sfumature completamente assenti dal testo originale, la cui lingua è sì colta, ma anche del tutto attuale. Per fortuna, ho trovato una soluzione diversa – ma non sempre ci si riesce; e ho comunque dovuto rinunciare a quello specifico ritmo, perché il costo sarebbe stato troppo alto.
Allo stesso modo, per i due penultimi versi, avevo inizialmente ipotizzato le seguenti soluzioni.
cosa che offendo in tua mutezza esatta
col farti risuonare in mia parola
col risuonare nella mia parola
col tuo suonare nella mia parola
con il tuo suono nella mia parola
Reso così, il terzultimo verso rispecchia maggiormente il senso dell’originale, ma la parola mutezza è piuttosto brutta e inconsueta in italiano; e poi, soprattutto, in tua invece che nella tua appare proprio una licenza poetica, che, pure lei, sa di passato.
Lo stesso problema si pone per la prima delle quattro proposte per il penultimo verso. Le successive tre sono migliori, ma si perde il fare (hacer) presente nell’originale, che mette in campo il lavoro del poeta, e mi dispiaceva molto perdere.
Infine, un po’ per gioco, ho provato anche a fare una traduzione del tutto diversa dell’intero componimento, che rispecchiasse al massimo il senso delle parole e delle espressioni, lasciando in subordine la questione del ritmo. Eccola:
Mancanza di merito
Se io fossi capace di entrare finalmente
in questa pulizia dell’aria immobile
che ho chiamato silenzio nella poesia:
se io fossi capace di dar nome albero
al modo in cui stasera l’albero si mostrava
a se stesso nella quiete del parco;
se io fossi capace di assomigliare
all’oggetto reale della mia scrittura
(all’acqua stessa quando scrivo acqua
al bicchiere terso quando scrivo bicchiere);
e se fosse possibile meritarti,
cosa che offendo nella tua mutezza esatta
col farti suonare nella mia parola,
io entrerei nella luce di quel che dico.
È una versione lessicalmente molto più fedele della prima, ma io credo che tradisca l’originale assai più dell’altra. Il verso libero non è l’endecasillabo, e l’occasionale guadagno di senso che otteniamo qui non è compensato dalla perdita di suono. Paradossalmente, il componimento di Rojas Guardia raggiunge, nella misura in cui è possibile farlo, la luce di quel che dice proprio attraverso il suo essere parola che suona, cioè essere se stessa ancora prima che altro, essere suono ancora prima che segno – proprio come sono in sé le cose di cui vorrebbe saper parlare. È questo che la mia versione ha cercato di rendere, che ci sia riuscita o no.
(Un’altra possibilità ancora, che questa seconda versione suggerisce, è di tradurre l’endecasillabo con l’alessandrino – o doppio settenario. Il primo verso è già un alessandrino, e si può lavorare per far sì che anche gli altri lo diventino. Il vantaggio sarebbe – forse – di poter essere più letteralmente fedeli al senso delle singole parole, pur mantenendo un ritmo che alla poesia spagnola è familiare. Non lo è però alla poesia italiana. Quindi, anche a patto di riuscirci con efficacia, il tradimento sarebbe comunque maggiore.)
22 Settembre 2011 | Tags: Alessandro Broggi, avanguardie, critica, poesia | Category: poesia | La raccolta consta di ventisei quartine regolari, costruite giuntando e armonizzando ad sensum versi stringa che sono sintagmi-stemmi (per lo più nominali) ripresi dai media di consumo, e insieme limpidi esempi di liricità esausta da luogo comune della qualità di massa.
Ne risulta un dettato di superficie semplice e falsamente seducente, che cela un’ironia critica ultrasottile.
Sto citando dal blog Slowforward, che a sua volta cita la presentazione del libro di Alessandro Broggi Coffee Table Book (Transeuropa 2009) sul sito dell’editore. Il libro non l’ho letto, e magari è bellissimo. Ma non è di quello che voglio parlare. Mi interessa la presentazione editoriale, che è un genere di messaggio pubblicitario, il cui scopo è, evidentemente, quello di risvegliare l’attenzione del potenziale lettore. Spesso, ma non sempre, la presentazione viene scritta dall’autore medesimo. In ogni caso, certamente, gli deve andar bene.
L’immagine che ricavo del libro di Broggi da questa presentazione è quella di un collage di materiali linguistici esausti, luoghi comuni della qualità di massa, montati con attenzione per costruire un discorso dall’apparenza semplice e falsamente seducente, a rivelare, quando li si legga con profonda attenzione, un’intenzione ironica. È vero che una presentazione deve essere apprezzativa, e che, per mostrare apprezzamento, il testo in oggetto deve essere implicitamente avvicinato a qualcosa di culturalmente già apprezzato (a meno che non se ne dichiari platealmente la novità – ma sarebbe un discorso poco credibile, perché non sufficientemente giustificabile nelle poche righe a disposizione). Solo che qui il riferimento è alle operazioni – anni Sessanta e Settanta – della Neoavanguardia italiana, e in particolare al citazionismo di Balestrini.
È singolare come questo tipo di operazioni, certamente nuove e importanti quando le facevano i Novissimi, non abbiano mai smesso di essere spacciate per nuove da cinquant’anni a questa parte. Oppure anche, quando non necessariamente nuove, come le uniche eticamente ammissibili a una poesia che, di questi tempi, come ci insegnarono Brecht e Adorno, non avrebbe il diritto di parlare di alberi.
Questa poesia post-neo-avanguardista ha ovviamente tutto il diritto di esistere, e di produrre i propri fiori, che per fortuna qualche volta ci sono davvero. Ma io non posso fare a meno di dichiarare la mia stanchezza per un’estetica del negativo di adorniana memoria, come se la nostra vita non fosse fatta d’altro che di formule pubblicitarie e ritornelli di bassa lega, e come se il nostro compito come poeti o lettori non potesse essere altro che quello di farne (lukácsianamente) la critica. È falso, del tutto falso, che al di fuori di questa linea ci siano soltanto il banale e l’inautentico. Se troviamo bella una poesia (o qualsiasi altro prodotto culturale), a qualunque scuola appartenga e comunque sia costruita, è anche perché riconosciamo già il suo sottrarsi – in qualche modo e almeno in parte – proprio al banale e all’inautentico.
D’altra parte non basta davvero dichiarare di farlo per farlo veramente. Se leggete tra le righe della presentazione del libro di Broggi, quello che si vuol dire è proprio questo: questo libro si sottrae al banale e all’inautentico mettendoli in mostra attraverso l’ironia. Non è così facile in verità, e mi auguro che il libro di Broggi ci riesca davvero. In questi cinquant’anni il banale e l’inautentico hanno invaso e colonizzato anche il campo che fu delle avanguardie.
Riconoscere questo non autorizza a condannare automaticamente qualsiasi produzione che si rifaccia a quel campo, ma autorizza a diffidarne, e ad utilizzare nei suoi confronti la stessa prudenza con cui approcciamo ogni ennesima banalissima Vispa Teresa – salvo poi essere anche sempre pronti, ove sia il caso una volta entrati nel testo, ad abbandonarla. Per questo motivo questa presentazione, almeno nei miei confronti, non fa il suo mestiere, e suscita molto più la mia diffidenza che il mio interesse – cercando magari di farmi credere che esiste ancora un’egemonia che, persino nella nicchia in cui davvero c’è stata, si è esaurita ormai da tempo.
14 Settembre 2011 | Tags: Dante Alighieri, metrica, poesia, verso | Category: poesia | Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Permettetemi qualche riflessione vissuta da autore, senza pretesa di confrontarmi con uno con cui qualsiasi confronto è perdente, ma nell’ipotesi di poter sentire, almeno un minimo, alcune cose come lui. Però mi sembra di aver visto qualcosa, in questi versi di avvio della Commedia, che non ho letto da nessuna parte. D’altra parte, non essendo un dantista, può benissimo trattarsi di ignoranza mia. Nel qual caso, se vi è noto qualche approccio simile a questo mio, vi prego di segnalarmelo.
Dico riflessione da autore perché le osservazioni che vado a fare su questi versi derivano da mie specifiche considerazioni sulla scrittura dei versi – e riguardano quasi esclusivamente metrica e prosodia.
Ho bisogno di fare una piccola premessa sull’endecasillabo, il verso della Commedia e il verso principe della poesia italiana. Ci insegnano i manuali di metrica che l’endecasillabo, pur non essendo davvero un verso composto, è tuttavia costituito di due parti: un settenario seguito da un quinario nella versione cosiddetta a majore (accento forte sulla sesta sillaba), oppure un quinario seguito da un settenario nella versione a minore (accento forte sulla quarta). L’endecasillabo non è veramente un verso composto perché 7+5 (come 5+7) fa 12 e non 11, e le condizioni per cui siano davvero leggibili sia il settenerio che il quinario sono particolari e non sempre presenti.
Non sono presenti certamente quando l’endecasillabo non è canonico, ovvero non presenta accento né sulla quarta né sulla sesta sillaba. L’endecasillabo non canonico è raro in Dante come pure in generale nella poesia italiana, perché con facilità suona poco musicale al nostro orecchio.
Al contrario, le condizioni sono effettivamente presenti quando il primo emiverso (settenario o quinario che sia) è tronco, e ha di conseguenza una sillaba in meno, lasciando la sillaba libera a completare il secondo. I primi tre versi della Commedia sono di questo tipo. Per intenderci, chiamerò qui questo tipo di endecasillabo fortemente composto, o anche solo composto (nelle versioni, rispettivamente, a majore e a minore).
C’è un altro modo per far sì che 7+5 (o 5+7) possa fare 11, ed è la sinalefe sulla settima (o sulla quinta) sillaba. Per esempio, nel verso 5 del nostro esempio, la “e” dopo “selvaggia” fa sinalefe con la vocale che la precede, e quindi viene inglobata nella medesima (settima) sillaba. Questo è un modo molto debole per ottenere il verso composto, perché per far sentire l’andamento dell’endecasillabo dovremo far sentire anche la sinalefe, e ridurre di fatto il conto del secondo emiverso a quattro (o sei, se a minore) sillabe. Ma la lettura separata (come se la sinalefe non ci fosse) non è completamente esclusa, e può ritornare ad aver senso in qualche caso. Chiamerò perciò qui questo tipo di endecasillabo debolmente composto.
Chiamerò infine non composto ogni endecasillabo canonico in cui non sia possibile percepire entrambi gli emiversi come settenario e quinario, come succede, per esempio, nei versi 7 e 9 riportati qui sopra (tra “poco” ed “è” c’è dialefe, e “cose” e “ch’i'” sono chiaramente separati).
Il particolare andamento dei versi di Dante riportati sopra non dipende, mi pare, solo dalla distribuzione degli accenti, ma anche dalla loro natura composta o non composta. Per verificarlo, ecco un piccolo esperimento: modificherò i versi 1-3 con alcune piccole sostituzioni, che ne rispettino grosso modo il senso (che comunque non è in gioco in questo discorso), e ne mantengano lo schema di accenti (per il verso 2 dovrò introdurre una voce verbale che non esiste, facendo finta che esista, perché non trovo in italiano un’alternativa sensata che regga alle mie condizioni). Ecco dunque:
Nel mezzo del cammino della vita
mi ritrovetti in una selva oscura,
ché la diritta strada era smarrita.
Anche senza prendere in considerazione il senso leggermente mutato, e nonostante il sistema degli accenti di questi versi sia esattamente lo stesso di quelli originali, essi suonano al mio orecchio molto meno melodiosi di quelli veri. Credo che il punto stia nella perdita della sospensione che gli endecasillabi fortemente composti manifestano in concomitanza della cesura dopo la sesta o la quarta sillaba, nelle versioni rispettivamente a majore e a minore. Nella mia versione alterata i versi sono diventati non composti (1) o debolmente composti (2 e 3), e la cesura è scomparsa.
Con la scomparsa della cesura si viene ad affievolire anche la differenza tra l’endecasillabo a majore e quello a minore:tutti e tre i versi portano infatti accenti sia sulla quarta che sulla sesta sillaba, e possono essere perciò letti in ambedue i modi. Tuttavia, nell’originale dantesco, la natura fortemente composta dei versi permette di sentire chiaramente la cesura, che si trova dopo la sesta sillaba nei versi 1 e 3, e dopo la quarta nel verso 2. Da questo punto di vista, dunque, la terzina propone la medesima struttura ABA che si trova anche nella rima, secondo la successione: proposta-variante-ripresa. Aggiungiamo che le sillabe accentate messe in evidenza dal troncamento contengono nei versi 1 e 3 la stessa vocale “i” della rima finale, mentre è diversa quella del verso centrale – e anche questo contribuisce a rafforzare la struttura della ripresa.
Considerando le cose in questo modo, ecco come sono organizzati questi primi dodici versi:
A majore fortemente composto (ma anche debolmente leggibile come a minore fortemente composto)
a minore fortemente composto (ma anche, forse, leggibile come a majore non composto)
a majore fortemente composto (ma anche debolmente leggibile come a minore non composto)
A majore debolmente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore fortemente composto)
a majore debolmente composto
a minore fortemente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore non composto)
A majore non composto (ma anche leggibile come a minore non composto)
a minore fortemente composto (ma anche leggibile come a majore fortemente composto)
a majore non composto (ma anche, forse, leggibile come a minore non composto)
A majore fortemente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore fortemente composto)
a majore debolmente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore fortemente composto)
a majore fortemente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore non composto)
Eccetto il verso 5, tutti gli altri portano accenti sia su quarta che su sesta sillaba, con generalizzato ritmo dunque giambico, e seconda diversa lettura possibile. Tra l’altro, è interessante osservare come la rottura del ritmo giambico cada sulla forte paronomasia di “esta selva selvaggia”, e si situi in un verso interno della terzina, sempre a conferma della struttura ABA riconosciuta sopra.
La struttura ABA è dunque presente in tutte e quattro le terzine in esame, ma cambiano gli elementi di diversificazione: nella prima terzina è il rapporto a majore/a minore; nella seconda è la presenza/assenza del ritmo giambico (o l’assenza/presenza della paronomasia); nella terza è la natura non composta/composta, insieme al rapporto a majore/a minore; nella quarta la natura fortemente/debolmente composta.
La varietà di ritmi si trova dunque organizzata in schemi di ricorrenze, che non riguardano solo le singole terzine al proprio interno: la prima e la terza terzina, per esempio, sono entrambe caratterizzate da una comune alternanza di endecasillabi a majore e a minore, anche se la terza introduce un’ulteriore differenziazione. Ma la prima e la terza terzina sono avvicinate anche dalla comune opposizione alla seconda, che gioca sulla presenza di un cambiamento assai più forte degli accenti al suo centro.
Se ora mettiamo in ordine i versi in cui è presente il momento di sospensione determinato dalla cesura (endecasillabi composti), otteniamo questo schema (che include anche alcune terzine successive, sino al verso 36):
+++ –+ -+- +-+ +– -++ -++ ++- +-+ -+- — +-+.
Versi non giambici oltre al 5 sono il 15, 20, 22, 25, 29, 32, 33, ottenendo lo schema:
+++ +-+ +++ +++ ++- +++ +-+ -++ -++ +-+ +– +++. I versi con ritmo non giambico si fanno più frequenti dopo le prime terzine, e perdono in parte la forza accentuativa dovuta alla loro particolarità.
A partire dalla quinta terzina la struttura ABA non si presenta più così stabilmente, e il gioco (come si vede anche dagli schemi qui sopra) diventa più irregolare. Ma con la quinta terzina incomincia anche la narrazione vera e propria e si è già concluso questa sorta di piccolo prologo, che ha avuto anche la funzione di impostare gli andamenti ritmici. A questo punto il lettore è già entrato nel gioco delle sospensioni e dei rilassamenti, del ritmo accentuativo standard (giambico) e delle sue rotture, delle varie alternanze tra a majore e a minore. L’endecasillabo si è mostrato nelle sue tre facce (endecasillabo indivisibile, settenario e quinario) e nelle loro possibili combinazioni. La varietà metrica è stata esibita, ma anche il quadro in cui può essere comunque organizzata.
30 Giugno 2011 | Tags: antologie, lirica, poesia | Category: poesia | La riflessione da cui è partito questo post si basa su una ricerca fallita, quella di un libro, anzi di un numero speciale della rivista L’illuminista, intitolato Poeti degli anni zero. Avrei voluto scrivere queste righe avendola letta, questa antologia di poeti del primo decennio, ma le librerie on line mi hanno illuso (prendendo l’ordine) e poi tradito (dichiarandosi impossibilitate a rinvenire il libro, qualche giorno dopo), nelle librerie reali neanche a parlarne, e quando un libraio intelligente mi ha consigliato di cercare sul sito dell’editore, ho scoperto che l’editore non ha nemmeno un sito.
Non parlerò quindi dei poeti, ma solo dell’introduzione, a disposizione di tutti sul sito di Nazione Indiana, intitolata “Poesia fuori del sé, poesia fuori di sé”, scritta dal curatore Vincenzo Ostuni. Mi colpisce, di questo scritto, il primo dei due criteri dichiarati per le esclusioni (anche se apprezzo e condivido che il criterio ci sia, e che venga pubblicamente dichiarato). Ecco le parole di Ostuni:
In primo luogo, si sono esclusi, forse con qualche rigore di troppo, rappresentanti del sempre risorgente fenomeno del poetese, per usare un termine caro a Sanguineti: quella sorta di koiné elegiaca, suicentrica, che populisticamente (di fronte a quale popolo, poi?) proclama di fondare la vitalità dell’arte poetica non già sulla tecnica e sulla materialità della scrittura, bensì sulla pretesa del poeta – ultrapostumo vate – di attingere direttamente a verità profonde, preferibilmente semplici o a volte insondabilmente oscure, ma comunque prive di ogni pur tenue capacità di spostamento delle attese, o anche solo di una minima sorpresa cognitiva o formale. Una metafisica del poeta (più che della poesia) che ha trovato nella generale celebrazione del tramonto delle neoavanguardie – fra gli anni Settanta e gli anni Novanta – un fecondissimo brodo di coltura. Bando dunque, per usare le parole di Enrico Testa, ad autori che si pongono entro gli angusti confini della «mitografia della figura dell’autore»– confini entro cui calza intera una certa dimessa elegia del quotidiano, forma perniciosa di preterizione narcisistica.
È possibile dare un’interpretazione positiva di queste parole, ma ahimé troppo banale: ovvero che si sono esclusi gli autori di poesie di bassa qualità. Certamente una poesia che risponde alla descrizione di Ostuni è una poesia di bassa qualità, visto che non è in grado di produrre “una minima sorpresa cognitiva o formale”. Ma questa interpretazione positiva non è accettabile, perché nessuno si aspetta che un’antologia selezioni e presenti poesie di bassa qualità.
D’altra parte, la citazione di Enrico Testa rende sufficientemente evidente che il senso di questa esclusione è un altro. Testa è curatore di una precedente antologia (2005), intitolata Dopo la lirica, ed è proprio la lirica il bersaglio di Ostuni, con il suo dominio del soggetto, la “dimessa elegia del quotidiano” e la sua «mitografia della figura dell’autore». Che la lirica sia in realtà un falso obiettivo ho già avuto diverse occasioni di scriverlo, in questi post; ma quello che mi colpisce qui è l’inevitabile contraddizione in cui è destinato a cadere chi, come Ostuni, cura un’antologia basando su questo criterio le proprie scelte.
Supponiamo di volere davvero evitare e superare il rischio di una «mitografia della figura dell’autore». Anche ammesso di poter davvero selezionare dei poeti non lirici (almeno la metà degli autori presenti nel Dopo la lirica di Testa sono decisamente lirici, e su molti altri si potrebbe discutere – ma non metto verbo sulle scelte di Ostuni, visto che il libro non ho potuto leggerlo) l’organizzazione stessa per autori dell’antologia finisce per costruire una «mitografia della figura dell’autore». È paradossale, ma non c’è scampo: un’antologia organizzata per autori finisce per incentivare, sostenere, coltivare un’immagine dell’autore centrata sul suo genio, sul suo essere (almeno in piccolo) un vate, sulla sua capacità di attingere a qualcosa di profondo. L’autore si trova lì, al centro dell’attenzione in quanto autore, con tanto di bibliografia e di testimonianze del suo genio! Come si fa poi a dire che non si vuole fare una mitografia della sua figura?
Mi si risponderà che è inevitabile, e che le antologie si fanno così. Certo: si fanno così perché l’immagine del poeta come personaggio simbolico (nella sua stessa persona) resta dominante per noi a dispetto di tutti i discorsi contro la lirica. Ma si potrebbero fare anche in altro modo, certo con molta maggiore difficoltà. Supponiamo di prendere le medesime poesie di un’antologia come questa e di organizzarle in maniera diversa da quella per autori. Non c’è bisogno di nasconderne la paternità: ogni componimento può portare indicato il nome del suo autore – non si vuole rubare niente a nessuno. Ma il fatto di essere organizzate in maniera differente porterà a leggerle indipendentemente dal confronto con le altre del medesimo autore, suggerendo piuttosto il confronto con altre poesie che si trovino accostate a quella al momento in lettura.
Si dirà che così facendo si perde la prospettiva del singolo autore, il suo discorso. Ma se voglio davvero evitarne la mitografia sarò disposto a questo svantaggio, compensato dalla possibilità di una migliore osservazione dello spirito del tempo, al di là delle personalità individuali che lo esprimono.
Non credo che sia facile agire in questo modo. Non è facile perché non piace agli autori, che sono i primi a pensarsi in termini mitografici, anche quando credono di evitare la lirica come il peccato. E non è facile perché ogni criterio organizzativo è discutibile – mentre quello per autori è assestato e comunemente accettato, quindi ormai non fa problema in sé (quello che fa problema sono poi la scelta e le esclusioni, come testimonia il divertente dibattito – 156 commenti – che segue il post di Ostuni).
E tuttavia, sinché le antologie continuano a essere organizzate per autori appare davvero ridicolo che se ne contesti poi la centralità. Ha ragione Guido Mazzoni quando dice che dalla centralità della lirica (cioè del soggettivismo) siamo ben lontani dall’uscire. Guardiamo le cose secondo questa prospettiva, e rileggiamo le caratteristiche del discorso dei nuovi poeti che vengono individuate da Enrico Testa e Paolo Zublena, e che Ostuni, nella sua Introduzione, cita (quasi) per esteso, caratteristiche che dovrebbero garantire “la tendenza alla disidentificazione della soggettività espressa nel testo poetico, e insieme l’opacità e quasi la resistenza del referente-mondo a costituirsi in un senso lineare: orizzonte postlirico che si contrappone a un mai domo e anzi ritornante lirismo, la cui natura difensiva prevede anche il rifugio nelle certezze della sintassi e della testualità tradizionali”. Credo che appaia piuttosto chiaramente come questo “mai domo e anzi ritornante lirismo” si situi anche al centro dell’operazione stessa che pretende di debellarlo.
La guardiana
Torno alla casa che abbiamo ereditato
è grande e disposta su tre piani,
ma ne occorre un altro. Decido di scavare
in basso piuttosto che elevare al cielo.
Sappiamo tutti che quando possediamo un suolo
– ne abbiamo proprietà –
ci appartiene tutto ciò che è sottostante e ciò
che sta di sopra a dismisura fino alle galassie più
lontane
fino al centro della terra
– così dice l’ordinamento.
Ai piani alti di questa grande casa
vorrei solo aprire le finestre
a far entrare un po’ di luce
che penetri il mio petto svuotato a dovere
che giri un poco d’aria e di correnti
di sangue anche, se si preferisce.
Che il sangue torni a circolare e a distinguersi
tra quello rosso vivo e quello blu
di scorie.
.
Parlando con Raymond Carver
Quando faccio pulizie
mi capita di colloquiare con qualcuno.
Oggi tocca a te Ray e non è la prima volta.
Vorrei seguirti anche in questo
tu che parli con Joyce
tu che parli con Baudelaire
tu che parli di Shelley
sulle loro tombe, sempre.
Io sto solo aspettando che si asciughi il pavimento.
So che sembrerà retorico
assolutamente banale
dire che tra noi c’è un oceano
e io vorrei attraversarlo.
La tua immagine sul cofanetto dei Meridiani
mi fissa, ha un’aria simpatica, non sembra
di un ex alcolista. Comprendo il problema.
Vorrei parlarti di spazio
oltre quello oceanico che ci divide
oltre quello che c’è tra whisky e vino
oltre quello che c’è tra le mani che aggiungono all’argilla
e il marmo da scalpello
oltre quello che c’è tra chi ci lascia parole e chi no
ovviamente, spazio.
Un mio amico che si dice piccolo poeta mi ha insegnato:
lo spazio non è sempre uguale a se stesso
dieci centimetri fra due macchine
non sono dieci centimetri in un letto coniugale.
Penso abbia ragione. La coscienza cade sulle cose
che guardiamo diventare assenti
le scalpelliamo per porgerle, che qualcuno legga.
Ciò che non ha significato profondo
l’esistenza non ha alternative, in fondo non è necessaria
non trova radici se non nella combinatoria interna
divisa.
Patrizia Dughero, da Le stanze del sale, Le voci della luna, 2010
___________________________________________________
.
BROCKWELL PARK
Da quando vivo sola ho imparato
che l’autunno è migliore dell’estate
al suo versarsi sulla terra piega
il chiaro delle voci nell’interno.
Il bambino nella finestra accanto
guarda le gazze prendere il volo
pensa forte una coperta d’alberi
di rami dispiegati sopra i tetti.
Gli scoiattoli in cerca di biscotti.
Ho messo nel lettore Figure Eight
perché spesso mi tornano i suicidi
con amara ed ironica pietà.
Solo i morti conosciamo davvero
il resto è imitazione dell’amato
nel buio non capire o trattenere.
I quaderni, le penne, le monete
nella borsa di Mary Poppins verde –
sono uscita senza aver lavorato
ma ho bisogno presto di un lavoro
della notte restituita al sonno
con il gemere delle tubature
l’urlo dei cani spento sopra i muri.
L’acqua nel parco si ammassa di foglie
un’isola nell’isola incostante –
le anatre cercano pozze scure
di pesci, riemergono nello strato
impietrito, lontano delle frasche.
Mi chiedo dei sopravvissuti, quanti
dai nidi – se sanno, se ricordano.
Un’altra acqua restituisce lenta
pezzi anonimi di senso, quest’osso
mutilato nel fango, non più bianco
l’inchiostro evaporato delle carte
un ordine di buste e di bottiglie.
Siamo l’archeologia di plastica
l’involucro deforme ci resiste.
Non scriverle le poesie, tienile
per camminare svelta nella pioggia
o nella luce quieta di novembre –
L’aria sulle vetrate rannicchiata
una seconda pelle che declina.
Spingendo nelle lame le parole
unirmi il sangue al sangue di altri uguale.
Non scrivere, non sperare, non dire.
C’è una gioia nella mia tristezza
e un’ombra disarmante nell’amore
mi cresce dentro il nudo dei tramonti.
Ho nostalgia del ferire inquieto
mi mancano le vite sconosciute.
Io – non riesco ad appartenere
eppure ogni gesto m’appartiene.
Esistono le cose tutt’attorno
fatti più trasparenti le vediamo –
mentendo la propria solitudine
si riconosce meglio dove amare.
Addomesticare poi significa
creare dei legami. Ogni giorno
un po’ più vicina, tenermi stretta
l’erba ruvida di spago, scorrere
i grani sporgenti, i nodi. La volpe
si può vedere a volte nella sera
sgusciare in una fiamma dai cancelli.
.
L’AIRONE CINERINO
(vita segreta dei giardini)
Hyde Park, fine d’ottobre –
la pioggia circonda le persone
un margine curvo, propagato
dal bagliore dei cigni sulla Serpentina.
Le folaghe e le oche si spingono
su molliche di pane galleggianti.
Un corvo intruglia la carcassa sfatta
di un piccione, il ricamo scarlatto
aggrovigliato al becco. Se ne stacca
distratto al mio passaggio.
Un cestino di ferri, lana, spilli –
le matasse disgiunte all’apertura.
Sotto il ponte iniziano i giardini.
La vegetazione lacustre scava
nell’argine recinti naturali
d’alberi, terriccio, cespugli, giunchi.
Lo scoiattolo percorre i tronchi,
scorteccia frenetico al midollo,
la gazza si affaccia dalla ringhiera.
Sul fondo l’airone grigio osserva –
il salice cascante lo nasconde.
Le pupille laterali, inespressive
come insetti dentro biglie d’ambra,
gli arti lunghi, cauti sopra l’erba
la giuntura flessibile del collo.
Il rostro impercettibile si affila –
un bisturi dell’aria sulle rane.
Dall’entrata la notte procede
oltre il flauto di bronzo del bambino.
“Non è lui – mi ripeto – non può essere”.
Dove il ghigno d’elfo, la tristezza?
L’ombra, gli sterpi di taglio nel corpo?
Sul cerchio dei lampioni, la foschia
viola come un tessuto muscolare.
L’odore d’acqua penetra i vestiti
dalle foglie stampate nelle suole.
(Hyde Park/Kensington Gardens, 28 ottobre 2007)
Francesca Matteoni, da Appunti dal parco, Nizartd 2008
_______________________________________________________________
.
Mi accorgo che, recentemente, mi capita più spesso di apprezzare poesie scritte da donne piuttosto che da uomini. Niente di ideologico in questo, anzi niente di deliberato. Dico “mi accorgo che” proprio perché questo fatto, di carattere statistico/personale, mi colpisce, e mi porta a domandarmi se si tratti di un caso, o se qualche ragione di fondo ci sia, magari persino più stabile di una semplice momentanea maggiore rispondenza o affinità.
Ho un po’ frequentato questa primavera due diversi cicli di presentazioni di volumi di poesie, presso due diverse librerie di Bologna, Feltrinelli e Mel Books. L’occasione di questo post mi è stata fornita proprio da due di questi incontri, uno in cui intervenivano le due poetesse di cui avete appena letto i testi, l’altro in cui si presentava l’Annuario della Poesia 2011, da parte dei suoi due curatori, Paolo Febbraro e Matteo Marchesini.
È stato in questo secondo incontro che si è sollevato il tema della cosiddetta “poesia civile”. Febbraro e Marchesini affrontano la questione ponendo una semplice domanda: come si riconosce la poesia civile? La risposta sarà: be’, la si riconosce per il fatto che tratta temi civili. E dunque il problema è quali siano i temi civili, e come si decida se un tema sia civile o meno. Già: come si decide? La domanda sembra banale perché di solito lo abbiamo già deciso, e sappiamo tutti quali temi siano civili e quali no. Nei dibattiti il “civile” viene contrapposto tipicamente al personale e al “lirico”, un po’ come il pubblico (o il politico) al privato; e lo scrivere poesia civile starebbe allo scrivere poesia su temi personali come il fare attività politica o volontariato sociale starebbe al farsi i cazzi propri, magari pure sentitamente e sinceramente.
Ma la natura della poesia è differente da quella del fare attività politica o volontariato sociale. Pensare che la poesia possa migliorare il mondo secondo strategie analoghe a quelle dell’impegno vuol dire averla già ridotta a elemento funzionale all’interno di un dialogo (quello del “civile” e del personale), e che ha di conseguenza tanto più valore quanto più conta all’interno di quel dialogo. E siccome quel dialogo trova definizione precisa attraverso i mezzi di comunicazione di massa, lo stesso valore della poesia si troverebbe definito con la massima precisione all’interno di quel dialogo gestito dai media. La stessa definizione di che cosa sia “civile” si trova costruita in quel dialogo.
Questo discorso ascoltato (e qui riportato a memoria, con anche una certa probabile dose di interpretazione mia) mi ha chiarito di colpo le ragioni della mia diffidenza nei confronti dell’enfasi sulla poesia civile: il punto è che questa enfasi trova senso soltanto all’interno di una concezione già finalizzata della poesia e, tanto peggio, già finalizzata all’interno di una concezione del “civile” costruita e valorizzata attraverso i mezzi di comunicazione di massa, il consenso generale, e in fin dei conti, una certa banalità. Non che si debbano rifiutare i poeti civili, per questo. Pasolini e Fortini sono tra i poeti che ho letto e riletto con maggiore passione; e non posso negare che in parte questa passione sia dovuta a un riconoscermi nei loro valori. Tuttavia, potrei elencare molti altri poeti che ho letto con passione simile, e che farebbero fatica a rientrare nell’ambito di quello che chiamiamo “civile”. Anche leggendo questi poeti, indubbiamente, una parte della passione era dovuta a un riconoscermi nei loro valori, e questi, pur non essendo “civili”, ben difficilmente avrebbero potuto essere definiti “in-civili” o “a-civili”.
Aggiungo un’altra osservazione: sui temi civili si discute, e la discussione fa parte del loro senso e del loro valore. La poesia, in quanto tale, non è fatta per essere discussa, e non ha maggior valore come poesia se apre un maggiore dibattito. Alla critica spetta piuttosto questo ruolo; e solo in un contesto culturale in cui la critica ha più valore dei testi di cui parla, si può pensare che la poesia (o persino il romanzo) abbia più valore se contribuisce al dibattito.
Io credo piuttosto che la poesia agisca a monte dei dibattiti, contribuendo al formarsi di un senso profondo e comune, una sorta di stimmung, cioè di accordatura collettiva, che costituisce la base stessa su cui i dibattiti possono poi crescere. Una poesia mi piace o non mi piace, mi ci ritrovo e mi ci posso mettere in sintonia, oppure non mi piace e non trovo sintonia. Se ne discuto i temi, se non sono “d’accordo”, non la sto più trattando come poesia, ma come un semplice discorso, una proposta nel dibattito; il che naturalmente non è vietato, perché un testo poetico contiene magari anche quello; però se riduco la poesia a quello sto trattando lo specifico poetico come una semplice confezione, una luccicante cartina per trasmettere meglio il cioccolatino della verità contenuto al suo interno. E la poesia non è questo.
La poesia è piuttosto un tramite nei confronti di istanze profonde, quelle che fanno fatica o proprio non possono essere veicolate dal discorso normale, per quanto raffinato e acuto questo possa essere. La poesia ha a che fare con l’inconscio, gli dei, il mito, la natura, il desiderio, il dolore (cose grandi ma anche cose piccolissime), e tutto quello che ci prende come un groppo e le parole non bastano, e ha bisogno di trovare un altro modo per uscire. In questo senso non è in sé né personale né civile, eppure, quando funziona, quando ci colpisce, ci colpisce tanto nel personale quanto nel civile.
Forse è per questo, quindi, che mi trovo a leggere più volentieri poesie scritte da donne, e mi trovo a leggere più volentieri proprio quella scrittura femminile che viene tipicamente accusata di essere troppo lontana dal sociale, troppo poco “civile”. Rileggete i testi che ho allegato: a dispetto della superficie, a dispetto dell’”io” dichiarato nella lettera del testo, non sono poesie dove si parla di sé. Le trovo riuscite perché (in diversa maniera nelle due autrici) non mi danno l’impressione di parlare di loro stesse, delle autrici, bensì di qualcosa che si trova in loro così come si trova in me, e forse in tutti, o almeno in tanti.
In più, questa sentita consapevolezza condivisa si trova qui associata a esperienze quotidiane nelle quali ugualmente mi posso riconoscere, e di conseguenza un domani magari anche personalmente (senza più l’aiuto di questi testi) rivederle, riconoscerle, come vie d’accesso all’indicibile, a quel fondo inevitabilmente oscuro che condividiamo tutti, e che a tutti noi dà forma.
Tutta la buona poesia, io credo, è implicitamente poesia civile, perché ci fa sentire parte di un sentire comune e condiviso. Il suo ruolo si trova a monte dei dibattiti e di qualsiasi propaganda, anche quella di cui condividiamo i temi. La poesia non è pubblicità del bene; può essere grande poesia anche senza propagandare alcun bene, senza condannare alcun male. Il bene, semmai, lo fa; anche senza dirlo.
P.S. Avevo già in parte scritto queste righe quando Francesca Matteoni, su Nazione Indiana, ha pubblicato alcune poesie di Patrizia Dughero, tra le quali una di quelle scelte anche da me. La coincidenza non è casuale. È che gli incontri pubblici servono. Grazie quindi a coloro che li organizzano, nella fattispecie Guido Monti da un lato e Sergio Rotino dall’altro.
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