Raramente, leggendo un libro, ho trovato una tale comunanza di vedute, come con questo di Brunella Antomarini, La preistoria acustica della poesia (Nino Aragno 2013, 110 pp.). A parte qualche osservazione, peraltro del tutto marginale, mi piacerebbe averlo scritto io – il che è un modo indiretto per dire che ho apprezzato enormemente il libro non solo per la concordanza teorica, ma anche per la piacevolezza della scrittura e dello sviluppo del discorso.
Il punto cruciale del libro non è semplicemente quello suggerito dal titolo, perché limitarsi a sostenere che la poesia ha una preistoria orale sarebbe scoprire l’acqua calda. Ma Antomarini, pur certamente inserendosi in una tradizione sull’oralità che va da Parry e Lord ad Havelock e Ong, fa qualche passo più in là, rimproverando ad Havelock, per esempio, di avere inteso l’uso (originario) del verso soltanto come uno stratagemma mnemonico per trasmettere nel tempo il sapere. Piuttosto, lo scopo arcaico del verso era quello “di interiorizzare e rimettere in atto ogni volta (a ogni ripetizione del rito o della performance) una scena che provoca di nuovo quella sollecitazione emotiva (e acustica)”.
In altre parole, il gesto poetico apparterrebbe assai di più alla sfera del fare che non a quella del comunicare. Per questo stesso motivo, la coerenza discorsiva non è un requisito necessario del testo poetico. Come si può vedere bene, per esempio, analizzando gli hain-teny malgasci, la principale funzione del testo poetico è quella di ri-creare una certa situazione emotiva, anche complessa e incoerente, pur se dotata di una continuità di spostamenti emotivi. L’andamento ritmico produce una situazione di carattere rituale, nella quale è possibile rivivere le emozioni del vissuto; ed è la parola comunicativa a essere asservita alla preminenza del ritmo, piuttosto che viceversa: “anche quando la scrittura s’impone sul componimento ritmico poetico e anche quando perciò la simbolicità vi penetra, comunque resta delimitata e riportata continuamente a un livello materiale, motorio e sensoriale.”
Per questo, secondo Antomarini, non solo la poesia è traducibile, ma in un certo senso, deve essere tradotta, perché nell’impossibilità di ottenere nella nuova lingua lo schema ritmico originale, è necessario cercarne uno nuovo; e in questo modo si perpetua il meccanismo operativo della poesia stessa, che è fatta per fare, per trovare sempre nuovi rinvii alla situazione emotiva di riferimento.
Certo, il passaggio alla dimensione scritta ha trasformato la poesia, però non abbastanza da farle perdere la sua natura originaria. La spazialità compresente della dimensione visiva ha permesso a molti testi poetici di sviluppare un senso complessivamente coerente; ma la natura puntuale del fenomeno sonoro – per cui non si può tenere a mente un intero brano ascoltato, il quale agisce piuttosto per continui spostamenti emotivi – continua ad agire attraverso il ritmo (molte molte pagine del mio Il linguaggio della poesia sono dedicate proprio a questo tema).
E restando in tema di sintonie, mi colpisce pure che i due poeti che Antomarini cita di più siano Dino Campana e Amelia Rosselli (due nomi sin troppo ricorrenti nella pagine di questo blog). Sarà che chi concepisce la poesia in questo modo finisce per approdare proprio su di loro?
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Ecco alcune serie di post in cui ho sviluppato all’incirca gli stessi temi: sulla poesia come fare (attraverso Goethe), sul verso e su Amelia Rosselli, sul verso e sul respiro, sui problemi della poesia in prosa. Poi c’è questo vecchio saggio per TempoFermo, sulla comunicazione emotiva, dove sviluppo ulteriormente i temi del mio libro sulla tensione e il ritmo.
13 Giugno 2013 | Tags: poesia, traduzione | Category: poesia | Leen el diario
leen el diario, aquí, se cuentan las historias de la mañana, aquí
se quejan del frío, se sientan delante de mí,
me miran una fracción de segundo, aquí, tienen
las uñas laqueadas, los dedos anillados, el doble mentón, los botones
que definen los confines de la intimidad, los de este yo
que es propio, y guay, guay con olvidárselo
abierto, con el abrigo desabotonado, la piel que halaga
el descaro del aire, de las miradas estupefactas, complacidas,
de la manos que procuran, buscan, encantan
en un ritmo que no es el de la mañana, no es el del susurro
discreto de las hojas del diario
abiertas por dedos enjutos de lectores, en busca del día,
del alba fría, el trabajo
Señora de la Autopista
Señora de la Autopista, cómo ocultar la angustía sutil
de los ciento cuarenta al adelantar el camión que te tira
al guardarrail de tu izquierda, a tu futuro, por un momento
estrecho como esa vía y luego de golpe libre, reabierto
como la carretera lisa de tres carriles, promesa de emoción
irreprimible del viento sobre las paredes externas, en el siempre
sutil y torvo y vago sentirse consciente de la no imposibilidad
del reventón imprevisto, el rechinar de las gomas, la explosión
de buen augurio del airbag, la cabeza sacudida y todo lo que vuela
en el habitáculo, como en una película en la que el fin ralentado
es una mágica suspensión de pequeños objetos, un elegante
encurvamiento del cuerpo, una flor lenta de cristales que se propagan
justo en torno a la frente que la atraviesa
Daniele Barbieri (Finale Emilia, Modena, 1957), inéditos
Versiones de Jorge Aulicino
E me ne accorgo solo ora, dopo quasi tre mesi. Jorge è stato troppo veloce, e quando io ho incominciato a guardare se c’erano, erano già uscite. Grazie a Jorge Aulicino e a Roberto Pasquali.
Il tutto (compresi gli originali in italiano) è leggibile direttamente qui, nel bel blog di Jorge.
Qualche giorno fa, ritornando su una delle mie ossessioni poetiche (qui a sinistra) in occasione di un seminario universitario, facevo un ripasso di metrica inglese sul libro di G.S.Fraser Metre, Rhyme and Free Verse (Methuen London 1970). Dopo una lunga parte dedicata ai ritmi giambici, di gran lunga i più utilizzati nella metrica inglese, Frazer passa a quelli trocaici, anapestici ecc., insomma, tutti gli altri. E a un certo punto dice: “I trochei si prestano meglio dei giambi a un certo tipo di effetto cantante in poesia (mentre il piede giambico è fondamentalmente il piede parlante)”.
Il piede giambico è il piede parlante perché il ritmo normale del parlato inglese è molto vicino a un ritmo giambico. Quando Shakesperare scrive “I còme to bùry Càesar nòt to pràise him” (ho aggiunto gli accenti per rendere evidente il ritmo), sta giocando su una leggera formalizzazione di un andamento tutto sommato normale, prosastico.
Il blank verse di Shakespeare è un pentametro giambico, la cui origine è legata storicamente all’endecasillabo italiano, modificato per adattarlo alla lingua inglese, ma estremamente simile nello spirito. Il ritmo dominante nel parlato dell’italiano non può essere giambico, perché la lunghezza media delle parole dell’italiano è maggiore di quella dell’inglese, e ogni parola possiede un solo accento. Per questo in italiano l’accento cade di solito ora ogni due ora ogni tre sillabe. L’endecasillabo italiano è dunque il verso in cui questa varietà accentale si trova più naturalmente espressa; basta leggere un po’ di Dante per rendersene conto. Come il pentametro giambico per l’inglese, l’endecasillabo italiano rappresenta un modo per formalizzare, regolarizzare, armonizzare l’andamento della prosa, senza forzarne troppo i ritmi; senza farli sentire troppo artificiosi.
Per questo l’endecasillabo è il nostro verso epico, ed è il verso dominante in tutta la nostra tradizione. Come vedremo meglio tra poco, l’endecasillabo incarna al meglio l’ambivalenza della poesia tra musica e prosa, portando in direzione della regolarità del cantato la naturale irregolarità del parlato.
È però naturalmente possibile giocare di più sul lato del cantato (come anche, naturalmente, su quello del parlato).
Torniamo a Fraser. Il ritmo trocaico si presta meglio all’effetto del cantato proprio perché è decisamente più distante dai ritmi naturali del parlato. Questo mi permette di aggiungere una riflessione in più a quelle che ho già esposto qui su The Tyger, di Blake. Blake inizia il suo componimento con un ritmo trocaico fortemente battuto, la cui cantabilità è ulteriormente ribadita della presenza della rima baciata a fine verso (bright/night). Ma poi questa ossessione ritmica fa naufragio sul quarto verso, che è giambico e in cui alla parola eye fa riscontro una semplice rima per l’occhio (eye rhyme) con symmetry.
Ho già fatto osservare le conseguenze di questo naufragio sul significato complessivo del testo, e non ci torno qui. Quello che mi preme far notare, qui, è che il passaggio improvviso dal ritmo trocaico a quello giambico e dalla rima baciata a quella non rima che è di fatto la eye rhyme, è di fatto un passaggio dal cantato al parlato, dalla musica alla prosa.
Intendiamoci, non c’è veramente né musica né prosa nel testo di Blake. Quello che c’è è un andamento poetico che ora si fa maggiormente musicale e ora si fa maggiormente prosastico; in altre parole, la poesia evoca nel suo flusso ora la presenza della musica ora quella della prosa.
Poi, non è certamente un caso che Blake ponga proprio nei versi giambici (quelli cioè prosastici) i punti chiave del suo discorso (come il verso 4/24 “Could/Dare frame thy fearful symmetry” oppure il 20 “Did he who made the Lamb make thee?”, che contiene la domanda chiave e conclusiva della sequenza). Non è un caso per due motivi: in primo luogo (e più importante) i versi giambici sono pochi in questo componimento, e rappresentano quindi dei punti di rottura, il cui contenuto viene messo in evidenza proprio dal loro trovarsi in questa posizione; e in secondo luogo (ma tutt’altro che irrilevante) la prosa è, rispetto alla musica, proprio il contesto dell’espressione concettuale, del discorso, contrapposto a quello della pulsazione condivisa, del ritmo, della Stimmung.
Tutta la poesia vive di questa ambivalenza tra parlato e cantato, tra prosa e musica, ma Blake gioca sulla polarizzazione, spingendo parte dei suoi versi in direzione del lato musicale e l’altra parte in direzione di quello prosastico. Siccome è uno straordinario fabbro (il miglior fabbro in giro in quegli anni), è capace di giostrare magistralmente una possibilità che la poesia comunque ha sempre posseduto, e continua a possedere.
Ora sarebbe interessante andare a vedere la poesia di Eliot e di Pound (il miglior fabbro in giro un secolo e qualcosa dopo) analizzandola in questi termini. Credo che scopriremmo la medesima dialettica, anche se maggiormente spostata nella direzione del prosastico. Il verso libero stesso è, in generale, una manifestazione di questo spostamento verso il prosastico, verso il parlato. Lo è in generale, ma non in assoluto: vi sono infatti autori, come Campana, il cui verso libero finisce per creare quasi l’effetto opposto, in direzione cioè del musicale.
Potremmo azzardare persino una regola generale, definendo l’ambito del poetico come quel vasto incertissimo campo che sta tra il musicale e il prosastico. C’è ancora poesia nelle parole delle canzoni, anche se ci troviamo sul confine – e il confine viene superato definitivamente quando queste parole sono discorsivamente irrilevanti, puro supporto della voce per diventare musica. E c’è ancora poesia nel poema in prosa o prosa poetica, anche se ci troviamo sul confine – e il confine viene superato definitivamente quando il discorso e il contenuto concettuale sono centrali, e la parola è puro supporto del concetto per esprimersi.
Per finire, vorrei fare un esempio del tutto diverso. Ho appena tradotto per Le voci della luna alcune poesie di un autore spagnolo, Lawrence Schimel, dalla sua raccolta Desayuno en la cama, ovvero Colazione a letto. Usciranno sul prossimo numero, il 56. Sono poesie d’amore, omosessuale, caratterizzate da un verso libero dall’apparenza molto colloquiale, molto prosastica. Eccone una, prima l’originale, poi la mia versione.
Ya no quiero callarme cuando follo
por miedo a lo que piensen los vecinos.
Ya estoy harto de contenerme.
Quiero gritar, quiero celebrar,
quiero cantar… pero me temo que he perdido
la voz de tanto inhibirme.
Afónico, me desnudo delante del poema.
Non voglio stare zitto quando scopo
temendo la condanna dei vicini.
Sono stanco di contenermi.
Voglio gridare, voglio celebrare,
voglio cantare… ma ho il timore di aver perso
la voce a forza di inibirmi.
Afono, mi denudo di fronte a questi versi.
Anche nei versi dal 3 al 6 è presente una forte attenzione al ritmo prosodico (e questi versi danno un’idea dell’andamento della gran parte dei versi della raccolta), ma i versi 1 e 2 sono perfetti endecasillabi, e anche l’ultimo lo è, a partire dalla virgola.
Per lo spagnolo ancora più che per l’italiano, l’endecasillabo è il verso della tradizione petrarchesca. Se viene contrapposto al verso libero, appare certamente come più vicino al polo musicale che a quello prosastico. Ma qui lo spostamento improvviso verso il polo musicale (che ho cercato di rendere con lo stesso ritmo endecasillabico anche in italiano) corrisponde all’esposizione di un contenuto piuttosto crudo e carnale, decisamente antipetrarchesco. L’effetto è quello di un addolcimento della crudezza, da un lato, ma, dall’altro, è anche quello di una virata verso il grottesco, per cui “voi ch’ascoltate in rime sparse il suono/ di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core” non potete non sorridere dell’arditezza di inserire in questo quadro idilliaco i suoni di una scopata. Arditezza che rientra pienamente, peraltro, nell’ultimo verso, molto più petrarchesco nello spirito – salvo non poter non notare, anche qui, l’ammiccamento di quel “denudarsi”, che rimette in gioco il discorso di prima.
Insomma, Schimel gestisce con molta arguzia il rapporto tra espressione e tradizione, ma soprattutto tra musica e prosa nella sua poesia, nascondendo un sacco di musica nell’apparente bassa prosa del suo discorso amoroso.
5 Giugno 2013 | Tags: Adriano Spatola, poesia | Category: poesia | Adriano Spatola, da “L’ebreo Negro” (1966), oggi in “Le poesie”, Edizioni delle poesie di Adriano Spatola, 2012
Dobbiamo ringraziare gli amici e i lettori di Adriano Spatola se dal 2012 è possibile finalmente leggere le sue poesie, prima disperse in vari opuscoli e riviste, di fatto introvabili. L’edizione è fuori commercio, ma è stata inviata “nelle principali biblioteche comunali dei capoluoghi di provincia e nei dipartimenti universitari di Italianistica e Letteratura Contemporanea”. Il libro ha una copertina terribile, una rilegatura decisamente al risparmio, e non mancano i refusi; ma, ugualmente, è bellissimo sapere che c’è, e che lo si può leggere, e che le poesie di Spatola hanno qualche chance in più di non essere dimenticate.
Tra l’altro, attraverso questo libro ho scoperto l’esistenza del sito di Maurizio Spatola, fratello di Adriano, che è un prezioso magazzino di documenti scansionati e registrati sulla neoavanguardia italiana, le sue pubblicazioni, le sue performance.
Riporto qui questo componimento dei tanti che mi hanno colpito, con poche osservazioni di lettura, come un omaggio, ora possibile, a Spatola e alla sua poesia.
Mi colpisce, di questi versi, la poetica degli oggetti, oggetti piuttosto crudi, duri, violenti, ancora più che in Antonio Porta, che ne è forse il riferimento più prossimo.
Mi colpisce il gioco della ripetizione, questo ritornare variato delle formule, questa struttura che mi ricorda (alla lontana) quella della sestina della poesia classica italiana, con il suo inevitabile girare intorno ai medesimi concetti – mentre qua il giro si trova ogni volta leggermente arricchito, un po’ perché i concetti si combinano in maniera ogni volta un po’ diversa, un po’ perché ad ogni giro qualche concetto nuovo si aggiunge a complicare il gioco.
E mi colpisce, soprattutto, l’andamento ossessivo, fortemente accentuale, dei versi, dove ogni verso è in sé concluso, senza non solo enjambements, ma nemmeno continuità frastiche tra l’uno e l’altro, quasi un lungo elenco di osservazioni – con sequenze di versi caratterizzate dal medesimo numero di accenti (alla maniera germanica antica), e poi variazioni metriche che sottolineano variamente nuove combinazioni…
Sembra di ascoltare un litania, una litania triste e terribile, un po’ straniata, di immagini/oggetto cupe ed evocative, una sequenza in cui gli accenti non sono quelli del racconto, ma quelli di una strana liturgia. Bisogna immergervisi dentro senza paura; leggere ad alta voce dall’inizio alla fine; ascoltare il respiro; ascoltare le immagini; respirare con i versi; respirare con questo strano senso del male.
Qualche giorno fa, sull’altro mio blog, quello in cui metto le poesie mie, ho postato l’esito di un esperimento; ovvero il rifacimento, a distanza di 5 anni, di una mia poesia, conservando il tema e le linee del discorso, ma esponendoli per come farei oggi. Potete leggere cliccando qui i due lavori, magari partendo da quello del 2008, che, sulla pagina, è il secondo. Di fatto, l’idea dell’esperimento mi è venuta dopo aver pubblicato sul blog la versione 2008, in parte per i commenti che ho ricevuto.
Entrando nei dettagli dei termini dell’esperimento. Si trattava di riproporre un discorso che io continuo a trovare interessante sottraendolo a una condizione metrica in cui non mi riconosco più, oggi – con tutte le trasformazioni che ne conseguono, anche nel senso. Intendiamoci: non sto dicendo che considero la versione del 2008 sbagliata o brutta; se la pensassi così nemmeno l’avrei pubblicata. Piuttosto, è semplicemente un lavoro che io trovo (per i miei parametri) riuscito, ma che oggi non potrei scrivere così; non mi interesserebbe scrivere così; troverei noioso scrivere così…
I termini della riformulazione sono, di base, termini metrici, ovvero alcuni vincoli metrici che hanno conseguenze profonde sull’andamento del discorso. I versi sono isosillabici, e in particolare esadecasillabi, con accento obbligato (oltre che sulla quindicesima) sulla settima sillaba; li si potrebbe definire doppi ottosillabi senza cesura (ottosillabi e non ottonari, perché l’ottonario italiano ha gli accenti fissi, mentre nei miei versi gli accenti sono mobili). A questo si aggiunge il requisito di una tendenziale continuità del discorso, in modo da ottenere, il più possibile, un effetto di fluidità continua, con eventuali (e graditi) enjambement.
L’effetto che, con questo espediente metrico, si vuole ottenere è quello di evitare l’andamento da verso libero, cioè esattamente quello che domina nella versione del 2008, con i suoi legami con la sintassi e l’inevitabile focalizzazione creata dalle modalità del ritaglio (secondo i principi che ho provato recentemente a spiegare qui). L’altro effetto che si cerca di evitare è la caduta (pressoché inevitabile, prima o poi, col verso libero) in qualcuno dei ritmi canonici della poesia italiana, come quelli dell’endecasillabo e del settenario. Nella versione 2008, due versi cruciali, l’1 e l’11 sono endecasillabi, e gli ultimi due (12 e 13) sono settenari. Questa ricomparsa occasionale di metri canonici non passa inosservata, in un componimento in versi liberi; il recupero momentaneo di un andamento ritmico familiare è inevitabilmente una sottolineatura retorica. Però è anche, al tempo stesso, un recupero classico – con l’effetto complessivo che nei luoghi cruciali di una poesia in versi liberi troviamo facilmente dei recuperi classici; quasi a dire che la tradizione è inabbandonabile, in fin dei conti.
La disciplina metrica che mi sono dato (e non in questo solo componimento) ha tra i suoi fini proprio quello di evitare la ricaduta del verso nei ritmi canonici. L’accento obbligato sulla settima sillaba rende difficile (non impossibile) ricadere in un ritmo che ha accenti pressoché obbligati sulla quarta o sulla sesta. In questo modo posso giocare sul ritmo prosodico senza troppo preoccuparmi di richiamare andamenti noti ed esausti della poesia italiana. L’ottosillabo ad accenti liberi è familiare alla poesia spagnola, ma praticamente sconosciuto a quella nostrana. Se si aggiunge il suo raddoppiamento senza cesura (e quindi la misura obbligata sarà solo quella complessiva di sedici sillabe, mentre gli emistichi possono tranquillamente essere anche tronchi di 7 o sdruccioli di 9), tagliamo fuori pure le orecchie spagnole.
Il discorso, poi, deve fluire il più possibile senza interruzioni, un po’ come a volte succede in Amelia Rosselli, o in alcune cose di Montale, quasi come se fosse un brano musicale, in cui gli stessi andamenti melodici (qui, le stesse parole) possono ritornare in posizioni ritmiche diverse, o su tonalità diverse (qui, in contesti diversi di senso), creando collegamenti trasversali di identità e diversità, e mettendo in secondo piano quell’organizzazione su base sintattica che invece il verso libero, quasi inevitabilmente, enfatizza – ma creando, al tempo stesso un tessuto sonoro (qui sonoro e semantico) d’insieme.
Insomma, questo è quello che il mio esperimento provava a fare. Poiché sono sempre stato sensibile al problema, tra i primissimi post pubblicati in questo blog ce n’è uno del marzo 2010 intitolato proprio “Dell’andare a capo in poesia“. Quando l’ho scritto, mi muovevo ancora nelle modalità di scrittura della versione 2008 di “Un gioco di finestre”, ma già si capisce, dalle citazioni che faccio, dove cercavo di andare a parare.
È ovvio che a me, oggi, piaccia di più – tra le due – la versione 2013. Mi piacerebbe molto avere un’opinione dei miei lettori (ben meno dei Suoi 25, ahimé).
22 Maggio 2013 | Tags: Alessandra Carnaroli, poesia | Category: poesia | quella trombona una volta mi ha anche sputato dicono
che ci andavano i soldati gli suonavano sotto
la madre non diceva niente
diceva qualcosa se tipo gli davano poco
quella volta ancora c’erano le mille lire
con cinquecento lire ci venivano i fonzie’s
uno così nelle disgrazie cerca di andare avanti anche
coi fonzie’s
di guadagnarci qualcosa.
però non lo so adesso dov’è dicono
che è in una casa di matti infatti
quando passo di sotto
di sotto non c’è
neanche su
Da Alessandra Carnaroli, “anna matta quattrocento sessanta sette membri”, inedito
(clicca qui per un estratto più ampio,
qui invece il comunicato stampa di “Poesie della fine del mondo”).
Sabato scorso avrei dovuto presentare, a Bologna, un lavoro inedito di Alessandra Carnaroli, nell’ambito dell’Azione 35 di Enzo Campi. Ho scoperto, dopo aver preso l’impegno, che in realtà non avrei potuto prenderlo. Così, con Enzo, abbiamo pensato di fare l’intervento in differita, ovvero io prima scrivo il testo critico, e poi lui, al momento della presentazione, lo legge pubblicamente. Così, almeno in parte, ho rimediato alla gaffe. Con l’effetto collaterale – almeno quello – che adesso quell’intervento lo posso mettere qui, e lo potete leggere anche voi.
Sembra facile. Si prende una notizia, un dibattito, un dialogo; si prendono parole quotidiane; si mettono in fila, si montano; si gioca sull’effetto straniamento, un po’ Vogliamo tutto, un po’ Violenza illustrata.
Sì, certo, qui di violenza illustrata ce n’è tanta. Solo che, invece della lucida, fredda, distante oggettività di Balestrini, che riporta il vortice affinché lo si possa vedere, che si tiene distante affinché noi possiamo riflettere e giudicare, qui dentro al buco ci siamo, ed è come se guardassimo fuori da dentro.
Sono stato sul punto di iniziare questa nuova frase dicendo “il procedimento della Carnaroli”, così come avrei detto “il procedimento di Balestrini”. Ma in Balestrini il procedimento è l’essenziale, è il raggelamento dell’operazione per mettere in evidenza l’oggetto in sé; ed è importante che sia un procedimento, un modo deciso a priori, semiautomatico. Anche il procedimento della Carnaroli inizia in maniera simile: si prende un gruppo Facebook, se ne estraggono dei frammenti, li si monta.
Va bene. Ed è giusto che si sappia, che il lettore lo sappia, come si agisce: ma è un di più. È un effetto di realtà che aggiunge brivido a qualcosa che il brivido ce l’ha già di suo, e che funzionerebbe anche senza l’effetto di realtà.
Se volessimo continuare a parlare di procedimento nel lavoro della Carnaroli, una volta oltrepassata questa fase iniziale, il senso della parola ci si disferebbe tra le mani, diventerebbe banale, poco pregnante. Qual è il procedimento per scrivere una poesia? Si prendono delle parole, le si mettono in fila affinché abbiano un senso, e si richiamino tra loro, magari anche per il loro suono… Qualsiasi poeta agisce così; questa descrizione vale per qualsiasi tipo di poesia; se usiamo la parola procedimento in questo senso, essa non significa più niente.
In realtà, dove il discorso della Carnaroli incomincia davvero, il suo procedimento (nel senso stretto, pregnante) ha già concluso il suo lavoro. A differenza che in Balestrini, insomma, qui il procedimento serve fondamentalmente a raccogliere dei materiali, le tessere di un mosaico da montare. Ma la magia di questi versi, come di molti altri scritti dalla Carnaroli, sta in verità nel modo in cui il montaggio viene realizzato.
La prima, violenta, un po’ nauseante sensazione che si vive in queste poesie è quella, appunto, di essere dentro: non c’è giudizio, non c’è comparazione, in un certo senso non c’è nemmeno l’oggetto del discorso. Immaginate di essere Anna matta, o qualcuno così vicino a lei da vivere, o meglio, da subire direttamente la sua quotidianità. Immaginate di essere in grado di esprimervi esclusivamente con le sue parole, con la sua capacità di pensiero. Immaginate di essere dentro a un buco di ignoranza, e di pazzia. E siete così perché il mondo che vi circonda vi ha reso così, perché in quelle condizioni in cui siete vissuti non poteva che andare così, ma voi non lo sapete, voi non sapete che poteva andare diversamente, voi non sapete di essere la vittima del sistema. Lo siete, e basta. Se lo sapeste, già avreste una possibilità. Potreste dialogare, capire, vedere le cose da fuori. Ma non avete modo di saperlo; nemmeno possedete gli strumenti per capirlo; siete interamente lì dentro; vivete questa assurdità come se fosse l’unico mondo possibile, come se fosse il mondo, la realtà, il tutto.
Le parole della Carnaroli ci portano, per quanto possano farlo delle parole, a vivere una condizione di questo tipo. Sono però consapevoli di essere parole scritte, colte, consapevoli, e che si tratta di una finzione; proprio come ne è consapevole il lettore. Eppure sembrano non accettarlo: non strizzano l’occhio, non ti lasciano una via d’uscita, si rifiutano di riconoscere di appartenere allo stesso mondo del lettore. E in questo loro rifiuto di una via di scampo, agiscono.
Indubbiamente, a rendere possibile questa sensazione collabora l’utilizzo (accorto) di un luogo comune. Il luogo comune è che la poesia sia espressione, e in particolare che esprima l’io del poeta. È un luogo comune ed è un’idea sbagliata e storicamente limitata; ma è l’idea dominante ancora oggi; e l’espressione dell’io del poeta è ancora quello che ci aspettiamo con maggiore probabilità quando iniziamo a leggere dei versi.
L’io del poeta non necessariamente dice “io” in maniera esplicita. Magari racconta in maniera oggettiva dei fatti oggettivi, ma poi salta fuori di colpo con un giudizio, con un paragone ardito, con una conclusione morale.
Ce le aspettiamo, quindi, queste cose, o una di queste cose, leggendo i versi della Carnaroli come di chunque altro; e, poiché qui non arrivano, ce le aspettiamo sempre di più. E quando qualcuno dice “io”, in questi versi, ecco che ci sentiamo pronti a riconoscere il nostro simile (il poeta) che ci rivolge la parola, e in questo dialogo tutti i mali del mondo si troverebbero come per magia avvolti in una pellicola consolatoria.
Ma è solo l’illusione di un momento. Quando qualcuno dice “io”, nei versi della Carnaroli, non è un io con cui si possa dialogare. È un io estraniato, un io oggettivato, un io diverso da noi che che si mostra nel suo di dentro, paradossalmente, come se fosse visto da fuori. È un io altrui, né quello del poeta né quello del lettore; un io testimoniato attraverso parole che non ci appartengono perché non sono mediate dalle convenzioni sagge del vivere sociale e intelligente.
Insomma, manca l’io giudicante, manca il giudizio; la realtà è dura e fredda e cruda e interiore. Non è il duro mondo all’esterno. È il duro mondo all’interno di un’interiorità che non è la mia, e nemmeno le assomiglia.
Come succede allora che, quasi di colpo, questa interiorità estranea, diversa, aliena, mi fa nascere il sospetto di poter essere persino la mia? Io non sono Anna matta, certo. Ma è proprio questa assenza di giudizio, questa assenza di un io che valuta, e con cui quindi io mi possa identificare, è questa assenza di mediazione a creare il vortice in cui vado a precipitare. E una volta precipitato, ecco che, quasi di colpo, io sono Anna matta, dentro il suo abisso di stupidità, ignoranza e pazzia, dentro il suo buco dal quale il mondo appare piccolo, limitato, triste. Potete anche restare fuori, certo. Se cercate le mediazioni consolatrici, potete rifiutarvi di apprezzare, restare in superficie, non condividere. I testi della Carnaroli non vi piaceranno. Preferirete altro; e l’altro non manca, in giro. Vi consolerete facilmente.
Ma se ci entrate, dovrete anche capire che prima di essere voi a identificarvi con Anna matta, Alessandra Carnaroli l’ha dovuto fare prima di voi, e molto di più. Ha dovuto essere se stessa e insieme la matta, e ha dovuto cercare in se stessa le radici della medesima pazzia, ignoranza, miseria. La fatica, l’angoscia del ritrovarle è quello che traspare in questi versi; è il vivere interiormente la condizione di Anna matta sapendo di non stare vivendola davvero, ma sentendo il dovere morale di farlo, perché solo così è possibile dare voce ad Anna matta, e solo così si può sperare che qualcun altro – come noi, i lettori – capisca, e condivida.
Non per condividere l’ego strabordante del poeta, ma per condividere quella specifica angoscia che è l’angoscia di entrare, proprio da dentro, nei panni del male, un male innocente, un male vittima, e per questo maggiormente terribile.
Sembra facile, sembra Balestrini. Evidentemente non è né l’uno né l’altro.
Piccola premessa aggiunta a posteriori: questo post è il prodotto di un fraintendimento. Marco Giovenale, bersaglio della mia polemica, aveva postato su slowforward un intervento nato in un contesto preciso, in risposta ad altri interventi, ma senza esplicitare tale contesto. Purtroppo, così decontestualizzato, il suo post produce l’effetto che depreco nelle righe che seguono. Accortosi dell’errore, anche grazie a questo intervento, Marco ha momentaneamente tolto il post, in attesa di sistemarlo (leggi qui in fondo i commenti per dettagli). Prendete questo post, dunque, per favore, come un caveat a quello che può succedere quando si sottovalutano i problemi di contesto. Non è più un attacco a Giovenale. La cosa è chiarita.
Un certo numero di anni fa seguivo le lezioni di Eco all’università. Era l’inizio del corso, e per me era il primo anno di università. Eco dedicò un paio di lezioni a demolire la tesi di un teorico di cui non ricordo il nome, il quale, analizzando un testo pubblicitario, ne sosteneva correttamente la scorrettezza, ma con argomenti sbagliati o insufficienti. Insomma, come ci mostrava Eco, la sua analisi arrivava a conclusioni giuste attraverso un’argomentazione sbagliata o insufficiente. Il testo pubblicitario così evidentemente scorretto si intitolava – questo lo ricordo benissimo – Millions can’t be wrong, e sosteneva la tesi secondo cui un certo prodotto (quello pubblicizzato) era buono in quanto acquistato da milioni di persone. Nello specifico, il testo era ancora più fraudolento, perché sembrava che parlasse di milioni di persone, mentre, a una lettura più attenta, si scopriva che parlava di milioni di bottiglie. Ma sarebbe stato scorretto anche se avesse parlato di milioni di persone. A sua volta, il teorico di cui non ricordo il nome (e non importa molto, qui, chi fosse) portava a sostegno della sua tesi il fatto che con il suo tipo di analisi si potesse arrivare a rivelare la falsità di quel messaggio: un altro paralogismo. Come ben sa chiunque abbia studiato un minimo di logica, una conclusione giusta può essere sostenuta da qualsiasi premessa, giusta o sbagliata che sia; in altre parole, la verità della conclusione non implica quella delle premesse.
Ma restiamo sul Millions can’t be wrong. Potremmo chiamarlo l‘argomento della democrazia, versione moderna del vox populi vox dei. Se lo accettassimo, dovremmo accettare l’idea che, poiché milioni non possono sbagliare, allora è stato un bene per l’Italia essere condotta da Silvio Berlusconi negli ultimi vent’anni. I milioni non potevano sbagliare nemmeno quando elessero Adolf Hitler nella Germania del ’33; e poiché il razzismo e in particolare l’antisemitismo sono state a lungo tesi ampiamente accettate in Europa, e quindi sostenute da milioni di persone, allora sono tesi corrette.
Sappiamo che non è così. Sappiamo anche che la democrazia non assicura la verità, ma, più banalmente, rende meno probabili (ma non impossibili) gli errori gravi. Non è il migliore dei mondi politici possibili, ma solo il meno peggio (Aristotele docet). E per fortuna che c’è.
Una variante dell’argomento dei Millions riguarda le comunità ristrette, in particolare quella dei ricercatori. Tutta la costruzione della scienza è basata su questa versione ridotta (e meno becera) dell’argomento dei Millions: una teoria è vera quando è riconosciuta dalla comunità. Naturalmente ci si aspetta che la comunità dei ricercatori giudichi con strumenti razionali (e questa è la forza della scienza), e ci si aspetta anche (e purtroppo non sempre è così) che tutti abbiano in mente i principi del falsificazionismo di Popper, per cui una teoria scientifica è accettabile se stabilisce i principi della propria falsificabilità – e quindi la verità scientifica è sempre contingente, e in attesa di essere falsificata da una teoria migliore o diversa.
Tutte queste ammirevoli precauzioni non hanno evitato alla scienza di sostenere razionalmente il razzismo, o di produrre autorevoli moltitudini di fondate dimostrazioni di teorie oggi ritenute palesemente infondate. Se Millions si possono sbagliare, possono sbagliarsi anche Thousands, o Hundreds, persino quando credono di averne le prove. Non domandatemi quale sia allora il criterio di verità assoluto; io penso semplicemente che non ci sia: la verità, proprio come la razionalità, è sempre relativa a un insieme di premesse, spesso non esplicitate e spesso difficilmente esplicitabili.
Per questo stamattina ho fatto un salto quando ho visto applicato l’argomento dei Millions, nella sua variante accademica, in un post di Marco Giovenale, “un errore diffuso”. Ne riporto qui di seguito le prime righe:
Dicono dunque che non ci sono scritture di ricerca particolari, che il Novecento non ha cambiato granché nell’assetto letterario mondiale (e italiano, chiaramente).
Dicono che un errore diffuso vela offusca obnubila la vista di taluni italiani, statunitensi, canadesi, belgi, svedesi, australiani, francesi, di tanti europei, che – proprio come gli artisti visivi – sono testardamente persuasi che la comunicazione, le arti, la letteratura, gli scambi linguistici anche più semplici, siano – con il Novecento e in questo primo quindicennio di XXI secolo – mutati radicalmente, avviandosi nelle direzioni e nel senso indicati e prefigurati da alcune ricerche artistiche e letterarie che in tutto il mondo e perfino in Italia si sono moltiplicate dal secondo dopoguerra in avanti. Senso sbagliato e direzioni sbagliate, dicono.
Au contraire: autori e critici che riportano le lancette dell’orologio a una presunta tradizione di trasparenza aproblematica, transitività, metro e plot classici, narrazione lineare, lirica confessionale, soggetti iper-coesi, ostili all’ironia, dicono e sostengono che il Novecento – specie nella sua seconda metà – è in buona parte un unico errore, da arginare. Pur diffuso. Così affermano.
Dicono o insomma è come se dicessero che senz’altro Pennsound sbaglia, diffonde perniciosissimi virus attraverso decine di migliaia di file audio. Se ne deduce che è in errore l’intera Università di Pennsylvania…
Dopo di che Giovenale inizia una lunghissima lista di link di pagine di istituzioni e ricercatori che sostengono la sua tesi. La lista è utilissima, ed è l’aspetto decisamente positivo di questo post, e non l’ultima ragione per segnalarlo. Rispetto a questo, molte grazie a Giovenale.
Ma l’argomento che la introduce e giustifica è francamente insopportabile, e palesemente sbagliato. All’argomento dei Millions, qui utilizzato nella versione accademica, si accompagnano altre furberie retoriche, che vale la pena di guardare da vicino.
Partiamo con quel “Dicono”, con cui si apre il post, e che poi si ripete. Che tristezza! Mi sembra di leggere Libero, o Il Giornale, che sono pieni di “dicono” perché hanno bisogno di creare per il proprio pubblico un nemico invisibile e incerto, che generi un senso di insicurezza e di pericolo da cui ci sarà poi chi li può difendere (nella fattispecie il proprietario o ispiratore delle testate stesse). Non chiedo a Giovenale di fare nome e cognome di coloro che “dicono”: questo sarebbe altrettanto ideologico e scorretto.
Tuttavia, quando per sostenere una tesi si deve ridurre l’avversario a macchietta, se ne devono ipersemplificare e ridurre ad unum le tesi, se ne deve negare la complessità, allora c’è davvero qualcosa che non quadra. Solo chi sia già d’accordo a priori con chi scrive potrà riconoscersi in questa semplificazione, perché è semplificazione del nemico. Chi non si riconosce nelle tesi di Giovenale si domanderà piuttosto: di chi parla? chi è che può sostenere davvero tesi così grossolane? forse c’è davvero qualcuno, e non sono io; ma se sono tesi così grossolane, perché darsi la pena di confutarle? oppure, forse questa è un’immagine artefatta di me? ma cosa si vuole, dipingendomi così, la guerra?
In effetti, le parole di Giovenale appaiono davvero come un atto di guerra, o di pre-guerra; una di quelle strategie di semplificazione pre-bellica in cui si dipinge il nemico come becero e stupido, per rafforzare la coesione interna e acuire la tensione esterna.
Ma torniamo sul punto. Questi generici nemici dicono dunque che la scrittura di ricerca si sbaglia. Ma, prosegue l’argomentazione, come potrebbe sbagliarsi visto che Millions (in senso accademico) can’t be wrong? Costoro, ci dice Giovenale, “riportano le lancette dell’orologio a una presunta tradizione di trasparenza aproblematica, transitività, metro e plot classici, narrazione lineare, lirica confessionale, soggetti iper-coesi, ostili all’ironia”. Fantastico, Marco, chi non è con te è contro di te! Chi non è per la tua versione del progresso è contro il progresso.
Al di là dell’atteggiamento fascistoide (e scusami, Marco, so benissimo che non pendi da quella parte; ma la tua retorica è esattamente di questo tipo), quante presupposizioni non dimostrate ci stanno in queste parole? Per esempio, che il progresso sia inequivocabilmente un valore positivo, e che “riportare le lancette dell’orologio” a qualcosa di precedente sia inequivocabilmente un valore negativo. Potrebbe essere vero, ma puoi darlo così per scontato? E in questo precedente ci stanno davvero “trasparenza aproblematica”, “transitività” e tutte le altre voci del tuo elenco? E chi critica la “scrittura di ricerca” è per forza partigiano di queste cose, ed è per forza un nemico del progresso?
E se qualcuno vedesse la tua “scrittura di ricerca” non come qualcosa di falso o sbagliato (e come si fa a considerare sbagliato un prodotto artistico, se non si ha un’idea chiara del giusto?) ma come qualcosa che ha avuto un profondo significato e un profondo valore nel suo momento storico, ma che, cambiato il momento storico, appare un po’ datata; se qualcuno vedesse le cose in questi termini, come lo classificheresti? Continuerebbe a essere tra i soggetti impliciti del “dicono”?
Non è magari possibile che ci sia una ricerca che non assomiglia a quella che sostieni tu (e nemmeno a quelle cose di cui fai la parodia, e alle quali – lo sai – nemmeno io sono particolarmente legato), e non le vuole assomigliare proprio perché si rende conto dei suoi limiti e dei suoi problemi? Che non ti si possa dare un quadro di questa potenziale scrittura di ricerca deriva dal fatto che sarebbe davvero di ricerca, e quindi incerta, scarsamente riconducibile a una tradizione.
A quanto pare, invece, una tradizione tu ce l’hai, e la difendi con la stessa violenza con cui si difendono le tradizioni in pericolo, sbagliando per eccesso, a quanto pare. Io non sto difendendo nessuno. Non ho una posizione poetica da difendere a spada così tratta. Ma, al di là dell’utilità dei link che fornisci (e di cui nuovamente ti ringrazio) questi attacchi fanno male prima di tutto a chi li produce e conduce. Troppo assomigliano a quelli con cui qualsiasi tradizione passatista (anche quelle a cui, storicamente, si opponevano le avanguardie) ha difeso le proprie posizioni arretrate di fronte a istanze (giuste o sbagliate che fossero) che essa non era in grado di capire e accettare.
16 Maggio 2013 | Tags: Edoardo Sanguineti, epica, lirica, poesia | Category: poesia | I tentativi di rifondare un’epica non mancano nella poesia italiana di oggi. Tra quelli recenti di cui mi è capitato di parlare in queste pagine, ci sono quelli di Marilena Renda e di Andrea Raos, ma vanno in quella direzione anche certe cose di Sergio Rotino, Giuliano Mesa, Alessandra Carnaroli… Indipendentemente dalla qualità, a volte anche piuttosto alta, dei risultati, si tratta di tentativi (se proprio li vogliamo vedere in questo senso) non riusciti, o comunque – specie quando di ottima qualità poetica – tentativi che arrivano a costruire qualcosa che ben difficilmente potrebbe rientrare nei caratteri tradizionali dell’epica, che cioè sarebbe riconoscibile in quei termini. Sì, certo, c’è la forma lunga (da poema o poemetto), ma non basta. Quindi, o si smette di parlare di epica, oppure si cerca di definire con chiarezza che cosa possa essere un’epica nel XXI secolo in Italia.
In generale, nella nostra tradizione, si parla di epica quando ciò di cui la poesia parla è un popolo, una nazione, una classe sociale, comunque un gruppo che riconosce nella narrazione dell’epica qualcosa che lo fonda, qualcosa che lo identifica collettivamente, un mito che lo riguarda. L’epica è l’espressione di una collettività, e in qualche modo (pensate a Omero per i Greci) ne fonda l’unità. Insomma, l’epica è ciò che dà parola (racconto) al mito su cui si riconosce una collettività.
(Per questo motivo poi, all’epoca in cui si sono creati gli stati nazionali, le nuove classi dirigenti hanno dedicato tanta attenzione al tentativo di far reinterpretare le vecchie epiche come epiche di fondazione nazionale, e tra Nibelungenlied e Kalevala e Cantar del mio Cid, tutti nati quando il concetto di nazione non era nemmeno stato pensato, ci siamo trovati persino a studiare Dante come un precursore dell’unità nazionale italiana!)
Lasciando perdere nazioni e popoli, ormai fuori luogo, quali sono oggi le collettività di riferimento della nuova epica? Su quali valori forti condivisi si può identificare oggi una collettività che si riconosca come tale? Pasolini poteva ancora idolatrare il sottoproletariato e l’utopia del comunismo; così che quella de Le ceneri di Gramsci è forse l’ultima epica nel senso tradizionale prodotta in Italia – ma Pasolini era anche acutamente consapevole della problematicità del proprio epos, del proprio mito, che infatti scompare sempre di più nella sua poesia successiva. Riappare magari nel suo cinema, ma come nostalgia di un’epica, più che un’epica vera e propria.
Negli stessi anni, Sanguineti scriveva il Laborintus, un altro testo epico, per certi versi; ma anche qui quello che domina, più che il mito collettivo, è la sua dissoluzione nella palus putredinis dell’inconscio – magari collettivo, sì, ma un inconscio collettivo non è un epos, non è qualcosa in cui possiamo credere e ci tiene uniti.
Più sicuramente, quello a cui Sanguineti tende è la dissoluzione della lirica, del dominio dell’io personale. Tuttavia, l’epica non è semplicemente l’antitesi della lirica. Non è che dissolvendo l’io si ritrovi automaticamente il collettivo. Di fatto, i frammenti di cui è composto il Laborintus sono frammenti dell’io così come dell’epos. Sanguineti destruttura quello che Lacan chiamerebbe il moi, ovvero la superficiale costruzione della nostra privata identità. Non può trovare un epos dietro la scomparsa del moi perché l’epos non esiste più, semplicemente.
Parlo della situazione italiana, probabilmente allargabile a tutta l’Europa occidentale. Quello che dico non riguarda gli altri popoli del mondo, dei quali non conosco a sufficienza la situazione. Visto da qui, comunque, cioè dall’Italia di oggi, chi certamente possiede un epos sono i fondamentalisti, ma l’epos di un fondamentalista non è qualcosa che io possa accettare; è qualcosa che io, semmai, trovo personalmente rivoltante, demenziale, cieco, ottuso. Un’epica in cui io possa riconoscermi mi deve rappresentare, e deve rappresentare perciò anche la mia diffidenza verso gli epos troppo forti, intensi, acritici.
Certo, c’è l’epica dell’epica, quella (quando va bene) del Fiore delle mille e una notte di Pasolini, o (quando va male) dei generi filmici hollywoodiani, che non si fanno problema nel celebrare acriticamente valori remoti o fittizi. Un’epica del “facciamo come se un’epica fosse possibile”, cioè un’epica che ha come valore di riferimento l’epica stessa. La poesia, che ha poche preoccupazioni di cassetta (tanto non ne fa comunque – e se ne facesse sarebbe semmai con la lirica) appare lontana da questo campo.
Finisce quindi che le epiche in cui mi posso riconoscere, nel campo della poesia, sono pressoché solo quelle negative, cioè quelle in cui non si esaltano gesta positive, ma si condannano gesta o eventi negativi. A questa categoria di epica appartengono tutti gli autori che ho citato sopra, e le appartiene anche il Pagliarani de La ragazza carla e de La ballata di Rudi. Tramontate le identità collettive nazionali e quelle politiche, ci raccogliamo infatti oggi solo sulla comune condanna di qualcosa, e l’epica di oggi è un’antiepica del male.
Fa parte, in maniera controversa, di questo male, anche la dominanza del moi. Tutte le tensioni antiliriche che serpeggiano (o furoreggiano) nella poesia italiana dai tardi anni Cinquanta in poi si fondano sulla condivisione della stanchezza per il predominio del moi (ne ho discusso a lungo con Marco Giovenale parlando della poesia di Amelia Rosselli qui, e poi ancora qui). La stessa problematica risorgenza dell’epica di cui sto parlando in questo post si basa su questa stanchezza.
Il problema è che il moi, pur essendo una sovrastruttura, non è eliminabile, e anzi si trova a essere, nella nostra società, molto più forte oggi che sino a qualche secolo addietro. La crescita storica del peso del moi ha coinciso, storicamente, con il declino dell’epica (a parte l’artificiosa resurrezione con finalità nazionalistiche di cui si diceva sopra). Paradossalmente, il mito che tiene assieme la nostra società è proprio quello di essere composta di individui, cioè di tanti moi autonomi. E quindi, ancora più paradossalmente, la vera epica della poesia degli ultimi secoli è stata la lirica, cioè la celebrazione collettiva del moi.
Per questo Sanguineti, nel frantumare il moi, frantuma a suo tempo anche qualsiasi possibile epos rimasto. Per questo, quando leggete i poeti che ho nominato sopra, li si continua comunque a sentire lirici, e spesso lirici in maniera originale, non banale. Nella sua frantumazione del moi e dell’epos, inevitabilmente, comunque, Sanguineti mette in gioco se stesso, e una parte del proprio moi – e se non lo facesse, nemmeno apprezzeremmo la sua poesia.
Questa è la contraddizione che rende la poesia oggi, in Italia, ai limiti dell’impossibile, e comunque difficilissima: esprimere il moi attraverso la negazione del moi, esprimere il collettivo attraverso la negazione del collettivo. Il dolore, il male, è una delle possibilità che le si offrono, e forse l’unica che permette, al momento, una qualche forma di epica.
9 Maggio 2013 | Tags: poesia, poesia in prosa | Category: poesia | Il fatto che io abbia dei problemi in generale con la poesia in prosa non mi impedisce di apprezzare certe poesie in prosa. Ma indubbiamente parto prevenuto. Ecco alcune delle mie ragioni.
Intanto, non c’è dubbio che, come espressione del non-verso, la poesia in prosa abbia un valore espressivo. Si tratta però di un valore in negativo – non nel senso di un cattivo valore, ma nel senso di un valore (buono) che si basa su una negazione, su un’assenza, quella della divisione in versi. Qualcosa che si presenti come poesia, ed esibisca altri aspetti tipici della poesia, può ben essere poesia anche se non è in versi, proprio perché gioca sul fatto che, pur dovendo esserci, essi non ci sono.
Il principio non è però troppo generalizzabile. Come tutti i valori in negativo, anche questo ha bisogno, per poter funzionare, dell’esistenza stabile e sancita, nell’ambiente culturale, del suo corrispondente positivo, in questo caso quindi del verso. Se la poesia in prosa diventasse la maggioranza della poesia, questa assenza non sarebbe più percepibile, e il suo valore espressivo si perderebbe. Si tratta quindi di un’espressività abbastanza contingente, l’espressività dell’eccezione, non in sé sostenuta da ragioni in positivo.
Ma non è questo che, principalmente, rimprovero alla poesia in prosa. Ci sono due ragioni assai più forti.
La prima è che, con il verso, se ne va, almeno in parte, l’attenzione sulla componente sonora, prosodica, fonetica del discorso poetico. Non scompare del tutto, perché è ben possibile alla prosa poetica riguadagnarsela. E tuttavia essa parte svantaggiata, proprio perché, assumendo la forma visiva della prosa, essa assume anche – di principio – l’attenzione focalizzata sui contenuti che è tipica del discorso prosastico. Giocare di ambiguità con la prosa significa dunque giocare ad attenuare o addirittura annullare ciò che di specifico possiede la poesia nei confronti della prosa. Non è un peccato mortale. Tutto, se espressivamente funziona, si può fare. Però attenuare o annullare gli elementi sonori significa anche marginalizzare gli elementi più direttamente coinvolgenti, gli elementi immersivi del linguaggio poetico, quelli che – prima degli altri – creano Stimmung, accordo collettivo, ritmo condiviso.
La seconda ragione è che, con il verso, se ne va completamente l’organizzazione visiva della poesia, ciò che, visivamente, distingue la poesia dal blob grafico della prosa – la quale è, dal punto di vista grafico, sequenza informe, mattone o mattoncino di caratteri. Anche l’organizzazione visiva della poesia contribuisce a richiamare l’attenzione sul piano del significante, a dichiarare la parola non del tutto trasparente nei confronti del significato che trasmette, come un qualsiasi oggetto del mondo che, oltre ad avere gli eventuali rimandi simbolici che ha, è comunque se stesso, con le sue caratteristiche fisiche e materiali. Prendere la forma visiva della prosa vuol dire favorire l’uso molto più funzionale che la parola ha nella prosa, l’uso (vicino all’uso quotidiano finalizzato) per cui la parola si risolve interamente nel suo significato, in quello che essa vuol dire.
Quello che tendenzialmente si perde, in tutti e due i casi, è la ragione per cui la poesia è importante, cioè proprio la sua differenza con la prosa, ovvero il fatto di portare alla luce la natura condivisa del linguaggio, e non solo quella espressiva. Dal Romanticismo in poi, la vulgata ha fatto coincidere la poesia con la forma più alta di espressione. Si tratta di un fraintendimento. La poesia è certamente espressione, ma non c’è bisogno della poesia per esprimersi: quando ci si schiaccia un dito col martello piantando un chiodo, il proprio grido e la propria imprecazione sono già estremamente espressivi, anche se per nulla poetici. Che la poesia sia, di espressione, la forma più alta, è invece probabilmente legato a questa natura collettiva, condivisa, ritmica, rituale, del linguaggio poetico – insomma qualcosa che magari non è proprio contrapposto all’espressione, ma le è certamente almeno del tutto trasversale.
La poesia in prosa, tendenzialmente, affossa proprio questa componente specifica della poesia, in nome dell’espressività; in nome, di conseguenza, di un qualche predominio dell’io. In altre parole, insomma, la poesia in prosa è forse, in fin dei conti, l’estremo travestimento della lirica.
Voglio presentare un’ipotesi provocatoria. Un’ipotesi e non una teoria, perché richiede ancora verifiche e conferme, puntualizzazioni e distinguo (con una ovvia possibilità che, approfondendo, essa si riveli falsa); e tuttavia, a una prima ricognizione, mi appare plausibile. Riguarda il verso libero, questa forma/non-forma che viene sentita ancora, a due secoli e passa dalla sua invenzione, come liberazione dalle pastoie della metrica tradizionale, e strumento base della possibilità del poeta di dare alla propria opera la forma che più le si confà.
A dispetto delle apparenze, il verso libero non è una forma informe. In apparenza, è una forma di verso che, del verso tradizionale, mantiene solo il principio dell’a capo, senza regole interne, fornendo tuttavia ugualmente al componimento una scansione, per quanto irregolare. Nella sostanza, il verso libero non solo ha il più delle volte una matrice sintattica (come si capisce bene dal fatto che l’eventuale enjambement emerge benissimo pure nel verso libero), ma flirta anche inevitabilmente con varie forme metriche tradizionali, in primis l’endecasillabo (almeno nella poesia italiana).
Se si vanno a studiare le origini del verso libero, nella poesia di lingua inglese, da Blake a Whitman, ci si accorge che il verso libero non nasce dal niente. Blake e Whitman, per fare il loro gran passo, hanno inevitabilmente bisogno di una stampella, ovvero di qualcosa che possa ancora essere sentito come verso dai loro lettori pur facendo a meno della metrica tradizionale. Essi trovano così questa stampella nella Bibbia, e nell’andamento non dei suoi versi, ma dei suoi versetti, ritualmente consacrati da secoli di recitazione. Si tratta di un ideale ritorno alle origini, al testo mitico per eccellenza – del tutto coerente con il tono oracolare che contraddistingue la poesia di entrambi.
La poesia in versi liberi che li segue eredita precisamente questa tensione oracolare, pur temperandola a volte, modulandola, modificandola, però senza perderla mai del tutto. Non la può perdere del tutto, perché la tensione oracolare è implicita nell’uso di una formula che permette di isolare una proposizione o una sua parte, sino una parola, rendendola assoluta nel suo isolamento, senza nemmeno la giustificazione tradizionale del metro, senza la scusa della cantabilità. È la musica che è scomparsa, insomma, lasciando il posto al verso libero come scultura di parole, monumento alla clausola verbale. Il verso non è più una struttura del canto, come almeno formalmente continua a essere nella metrica tradizionale, anche quando la poesia nemmeno viene più letta a voce alta; il verso è una sorta di cornice, che rende icastico, oracolare, assoluto, ciò che contiene.
Questo è ciò che succede in linea di principio. Nella pratica poetica del Novecento sappiamo tuttavia come la metrica tradizionale rimanga ben viva, e come l’endecasillabo, per esempio, rappresenti il calco su cui molti versi liberi si trovano di fatto formati. Molti versi liberi, in altre parole, non sono veri e propri versi liberi: sono piuttosto una versione “liberata” dei metri tradizionali (endecasillabi ipermetri o ipometri, per esempio) che cerca di conciliare una certa cantabilità con una certa oracolarità, giocando a spostarsi ora più sull’uno ora più sull’altro dei due poli.
Alla fin dei conti, dunque, il verso libero non è propriamente un verso liberato, bensì un verso che a un tipo di gabbia ne sostituisce un’altra: non più la gabbia metrica, ma la gabbia dell’icasticità, dell’incorniciamento espressivo.
Si noti che prima dell’entrata in scena e della vittoria del verso libero, la poesia – anche quella italiana – stava già sperimentando strade diverse. E non è solo lo sperimentalismo sui versi latini o sui versi popolari di Carducci e di Pascoli (che è comunque un tentativo di mantenere la cantabilità modificandone le basi metriche – pur mantenendo, nella coincidenza tendenziale tra clausola metrica e clausola sintattica, una certa icasticità e oracolarità). È piuttosto il ricorrente ricorso all’enjambement di Foscolo e Leopardi, che della cantabilità conserva un’apparenza ancora più debole, ma che indebolisce pure la cornice del verso, proprio per il suo trapassare del discorso da un verso all’altro – il che rende impossibile isolarli davvero.
Probabilmente, questo uso insistito dell’enjambement esprimeva in quegli anni una tensione verso l’espressività che il metro tradizionale faticava a contenere; ma nel momento in cui il metro tradizionale viene poi sostituito dal verso libero, scompare anche questa tensione, che non ha più ragione di esistere là dove l’espressività può essere garantita, verso per verso, dal verso stesso. Questo è il prezzo che la poesia paga al verso libero: la coincidenza del verso con la clausola espressiva, senza l’attenuante musicale; l’asservimento del verso al discorso, all’espressione dell’io; la riduzione della poesia stessa a espressione dell’io, a lirica.
Chi comprende molto lucidamente la questione, nel mondo del verso libero, è Amelia Rosselli, mostrandolo nella pratica della sua poesia, ma anche in quel breve ma cruciale saggio del ’63, intitolato “Spazi metrici”, là dove dice: “In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi. L’idea non era più nel poema intero, a guisa di un momento di realtà nella mia mente, o partecipazione della mia mente ad una realtà, ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da nessuna parte. L’aspetto grafico del poema influenzava l’impressione logica più che non il mezzo o veicolo del mio pensiero cioè la parola o la frase o il periodo”.
Proprio per evitare l’icasticità prodotta dal verso libero, e l’effetto oracolare che ne consegue, Amelia Rosselli inizia quindi a suddividere i versi in maniera apparentemente arbitraria (in realtà con una regola rigorosa, ma che impedisce che l’unità del discorso possa coincidere con quella del verso), facendo dell’enjambement un principio talmente pervasivo da vanificare l’idea stessa del verso come unità conclusa (pur provvisoriamente). In realtà, anche nell’artificio della Rosselli continua a giocare un principio musicale: non è più la cantabilità, nemmeno formalmente, ma è comunque un principio di costanza ritmica, di quantità prosodica ricorrente.
Se veramente il verso libero implica la lirica e l’espressione dell’io, e la metrica tradizionale implica la cantabilità tradizionale (almeno formalmente) con le sue belle forme che non ci rappresentano più (e i poeti neometricismi giocano proprio su questa ostentata e invalicabile distanza), allora la strada indicata da Amelia Rosselli potrebbe essere davvero l’unica praticabile per portare la poesia fuori dalla lirica, senza ricadere nella tradizione. Questo non vuol dire né che si debba per forza fare poesia come faceva lei, e nemmeno che si debba tagliare il verso come faceva lei; ma restano fondamentali, nel mio modo di vedere le cose, la sua messa in crisi del verso libero e il recupero di una qualche musicalità che non coincida con la cantabilità. La Bibbia, con tutto il suo innegabile fascino, ha fatto un’altra volta il suo tempo.
17 Aprile 2013 | Tags: Maddalena Bertolini, poesia | Category: poesia | ho ancora dei figli e la
domenica dormono se piove
noi facciamo l’amore con l’acqua
che gronda ai lati del letto
sulla tua fronte lenta e dentro
alla mia festa. A questo matrimonio
fa bene bagnarsi ogni tanto
sollevare la testa, guardarsi
battezzati, i piedi uniti i
mattini con la bocca tremula
e quasi inodore del fiore lo stupore
della neve già bucata
_______________________________________________
Davide
i miei vent’anni si sono alzati
tardi stamattina con la boscaglia in faccia
e scudi di paglia controsole. Ti verso
in una tazza il malumore e non ti guardo:
schiacci un messaggio, già sorridi, perso
come un rondone nell’esercito di maggio
i pantaloni lenti e il ciuffo anni ’60
(quando sono nata). Ti allontani
con in tasca le chiavi dell’auto e i miei
vent’anni. Adesso li possiedo adesso
tu li indossi e io ringrazio
_______________________________________________
caduta
la montagna
seduta per terra mi fa salire
sulle ginocchia – le affondo
i ferri nel fianco le punte
dei tuoi occhi addosso
ricordo di essere caduta quel cielo
veloce e leggero il labbro del crepaccio
pronto al bacio precipitato – mi hai girato
cadevo mi ricordo pensavo sarò
fatta a pezzi da tale bellezza
mi hai girato amore mio come al
mattino mi sveglio con la faccia
nella neve del cuscino – il sangue
in bocca e l’urto del tuo volto
mozzafiato
__________________________________________________
loro
il sole si è deciso ad appoggiarsi
al lago la guancia sulla pancia
esattamente come loro stesi
sulla riva di aprile.
Lui le tocca i capelli le allunga i rami
nell’acqua della pelle e lancia lenze:
vedi i fili calati tra gli amanti
e le scintille degli ami
quando abboccano. Anni
deliziosi e saporiti, anni profondi
anni futuri. Arriveranno
i fieri leoni di maggio.
_________________________________________
Sono quattro poesie tratte da una, di Maddalena Bertolini (Giuliano Ladolfi Editore 2012). Non posso fare a meno di stupirmi che questi piccoli gioielli (tra i molti altri che si trovano nella raccolta) siano stati scritti dalla stessa mano a cui sono dovuti gli articoli che trovate qui, così sbrodolanti retorica da non poterci credere, da lasciar pensare che l’una Maddalena Bertolini non possa essere l’altra – trattandosi magari solo di un caso di omonimia. Se le due Bertolini sono una sola, allora è davvero un miracolo come tutto si sia qui asciugato, prosciugato, come abbia abbandonato la retorica da predicatore ideologicamente monolitico (quelli che sanno cos’è la verità) che dilaga là (andare a leggere per verificare). Un miracolo della poesia, insomma.
Dimentichiamo il resto e concentriamoci sul miracolo, dunque. Un miracolo fatto di una metrica abbastanza tradizionale e di temi ugualmente tradizionali, ma affrontati con una ammirevole originalità di accostamenti e passaggi tematici, oltre a un gusto raffinato per le sonorità ricorrenti e per gli enjambement. Proprio grazie a questi ultimi, di quando in quando (come nella prima delle poesie qui sopra) troviamo un andamento quasi senza pause non lontano da quello della Rosselli, a cui la Bertolini si trova vicina anche per un certo amore per la ripetizione delle sonorità (quasi inodore del fiore lo stupore, rami/amanti/ami/anni/anni/anni/arrviveranno…).
Spesso questi componimenti sono giocati attorno alla fusione tra due dimensioni diverse: i vent’anni del figlio con quelli della madre nella seconda; la montagna con l’uomo amato nella terza; il lago e il sole con gli amanti nella quarta. Più che di un’analogia, si tratta di una fusione/confusione, in cui i termini in gioco appaiono insieme distinti e coincidenti, con un inevitabile e riuscito effetto di sorpresa – non così forte da monopolizzare il campo (sennò il senso del componimento rimarrebbe tutto nella sorpresa) ma forte comunque a sufficienza da farsi notare, da incidere.
Se leggiamo il quarto componimento, c’è uno slittamento progressivo dalla scena naturalistica a quella umana alla riflessione all’evocazione. All’inizio è il sole sul lago, che si appoggia con un’analogia già umana (la guancia sulla pancia), così umana che sembra già rimandare alla coppia che entra in scena subito dopo. In questa coppia lei è di nuovo il lago, in cui lui le allunga i rami/nell’acqua della pelle e lancia lenze; per cui è piuttosto naturale che, subito dopo, agli amanti vengano a corrispondere gli ami, che scintillano quando abboccano. Ma ciò che si lascia pescare sono gli anni deliziosi e saporiti proprio come i pesci; gli anni profondi, come l’acqua del lago; gli anni futuri, come ciò che il gesto degli amanti promette – ma anche introduzione alla chiusa, a quel futuro di arrivare (arriveranno) che introduce a sua volta un’immagine di rigoglio coraggioso e forte, pieno di riferimenti al ben venga maggio / e ‘l gonfalon selvaggio del malizioso Poliziano…
Tutto questo fluisce insensibilmente, spinto avanti dal ritmo arcaico dell’endecasillabo (spesso più evocato che realmente presente) accostato al settenario (idem). Insomma, un bel gesto poetico, una capacità di rivitalizzare forme e temi consunti dalla tradizione attraverso accostamenti imprevedibili, eppure ugualmente sentiti come naturali. Una vita certamente non cittadina, quella evocata; ma non tutti vivono in città.
10 Aprile 2013 | Tags: epica, Marilena Renda, poesia | Category: poesia | 1. L’acqua (l’esodo)
E siamo fatti per ritornare (nella nostra interezza
priva di differenze, di cuciture visibili alla vista,
al tatto) senza pensieri sui nostri passi, respingendo
la dolcezza delle città ignare, filiali, che lasciano
pure noi fendere le mura, frugare i segreti.
Fingiamo che il latte degli stranieri sia versato
per noi pure. Nostro il pudore dei larghi androni,
del verde osteso a perdita, di confini sconosciuti
ai polpastrelli ignoranti, ciechi della promessa
di spazi non misurabili sulle pareti-cielo.
Essere separati e vicini le domeniche a Milano
come scoiattoli che custodiscono i gherigli a morte.
Polpa che non vuole essere frutto, colluttazione
tra Heimat e fabbrica, tra lievito e ruggine,
cospargendo di saliva le pietre del selciato.
Così è nostro il ritorno non greve, vergognoso
di ricontare gli aghi, tracciare rotte per gli occhi,
annodare fili di ruggine, indossare un abito di risentimento,
indicare alla bocca, ai figli, alle piume delle prigioni
un varco, una faglia a cui appendere un desiderio di stasi.
…..
È l’attacco di Ruggine, di Marilena Renda (Dot.com Press 2012). Ruggine è un lungo poemetto in quattro parti, il cui tema è il terremoto che nel 1968 distrusse Gibellina, nella valle del Belice (altri frammenti, qui), ma è anche la difficoltà del ritorno, il rapporto col passato, la difficoltà di ricostruire…
C’è questo attacco alato, intenso, a volte struggente, bello nel ritmo che richiama l’alessandrino e nell’uso degli enjambement, cui seguono una prima e una seconda sezione altrettanto forti, nelle quali questo rigoglio metaforico esprime bene e intensamente l’andamento della tragedia. Ma poi qualcosa si incrina. Non cambia il linguaggio dell’autrice, non cambia lo stile e non cambia la modalità. Tuttavia forse di fronte alle parti più riflessive, la terza e la quarta, in cui ci sono meno eventi del momento e più sentimenti del dopo, si ha come l’impressione di un poco di eccesso, come se queste immagini così forti si ritrovassero a sparare un po’ troppo in alto, dopo che il dramma si è consumato e restano in campo i sentimenti inevitabilmente (e fortunatamente) meno brucianti del “dopo”.
Leggendo i versi della Renda mi sono venute spontanee due associazioni: da un lato il Ritsos della Signora delle vigne, con la sua pungente commistione di saggezza contadina, mito arcaico evocato e durezza (anche politica, talvolta) del presente. Temi e andamento della seconda strofa dei versi riportati qui sopra sono vicini a quelli di Ritsos.
L’altra associazione è con il García Lorca surrealista e post-surrealista (in particolare quello del “Lamento per Ignacio”) con le sue metafore violente, deliberatamente eccessive, ma a un secondo sguardo assolutamente pertinenti e per nulla gratuite. La terza e la quarte delle strofe qui sopra mostrano un uso simile.
Se si apprezza una poesia così carica, così grondante di emozione, così fastosa nella sua commistione di calore e di morte, si può trovare davvero straordinario il modo in cui la Renda costruisce il crescendo che costituisce la prima parte (quella dell’evocazione) e la seconda parte (quella dell’evento stesso, il terremoto e la conseguente distruzione). Queste immagini forti, cariche di mito rendono fortemente vivo il loro oggetto; arrivano a fare paura, a metterci in gioco.
Cosa si rompe, poi? Difficile dirlo. Probabilmente molto poco. Forse interviene solo un po’ di stanchezza nel lettore per il protrarsi uniforme del tono del discorso, troppo uniformemente alto per l’argomento, ora meno terribile. Forse è solo la troppo a lungo mantenuta prosecuzione del medesimo registro. Lo stesso García Lorca, nel “Lamento”, cambia registro (e metro, e parole) in ognuna delle quattro sezioni.
O forse è proprio il tema a prestarsi meno a una trattazione così gridata. Si tratta di sfumature, comunque; e non mancano i frammenti molto riusciti anche qui.
Forse la difficoltà di costruire un’epica, oggi, come si è provata a fare la Renda, sta proprio nella nostra difficoltà, o incapacità, di reggere a lungo il tono epico. Abbiamo sentito, nei secoli, troppe false canzoni, e diffidiamo oggi anche di quelle che potrebbero essere vere. Certo, quella della Renda è un’epica con una forte base lirica, di coinvolgimento personale, e questo ce la rende sufficientemente vicina (se così non fosse, credo che non funzionerebbe nulla, o non abbastanza a lungo). Ma quando il tono del grido non ci appare più necessario, riemerge in noi la diffidenza, la sensazione che si stia esagerando. A volte l’ironia è la cura che ci permette di mantenere il contatto. Qui, non so quanto sarebbe possibile metterla in gioco. In questo contesto probabilmente ci apparirebbe ancora più artificiosa della sua assenza.
Probabilmente quindi la difficoltà ad arrivare felicemente in fondo incontrata da questo poemetto non è specificamente sua. Forse è solo la manifestazione di una difficoltà generale dell’epica, un genere che ha bisogno dell’innocenza per esistere davvero.
3 Aprile 2013 | Tags: Giovanni Della Casa, poesia, sonetto | Category: poesia |
Questa vita mortal, che ‘n una o ‘n due
brevi e notturne ore trapassa, oscura
e fredda; involto avea fin qui la pura
parte di me ne l’atre nubi sue.
Or a mirar le grazie tante tue
prendo: ché frutti e fior, gelo ed arsura,
e sí dolce del ciel legge e misura,
eterno Dio, tuo magisterio fue.
Anzi ‘l dolce aer puro, e questa luce
chiara, che ‘l mondo a gli occhi nostri scopre,
traesti tu d’abissi oscuri e misti.
E tutto quel che ‘n terra o ‘n ciel riluce,
di tenebre era chiuso, e tu ‘apristi;
e ‘l giorno e ‘l Sol de le tue man son opre.
.
Questo sonetto è parte delle Rime di Giovanni Della Casa, pubblicate postume nel 1558. È un testo che mi è molto caro, e vale la pena di osservarlo da vicino. Non è tanto il tema ad affascinarmi, quanto il modo poetico in cui l’autore lo affronta.
Un poeta italiano che scriva sonetti a metà del Cinquecento non si può sottrarre alle regole del perarchismo, e alla sua calibrata, classicistica, misura. Un sonetto petrarchesco o petrarchista può anche raccontare le più turbinose passioni dell’animo, le più sublimi ascese della passione, e tuttavia, proprio per il modo in cui è fatto, qualsiasi cosa esso racconti ci apparirà come inquadrata in una tranquilla e rassicurante cornice. Lo schema regolare delle quartine e delle terzine, con le loro rime obbligate, a cui si aggiungono i requisiti ulteriori dello stile petrarchista, è un’inevitabile rappresentazione del mondo in termini secondo i quali tutto è già composto e risolto, e ogni tensione che ne sia oggetto di discorso vi appare inevitabilmente sistemata nella posizione che meglio le si addice.
Una forma chiusa e perfetta, meravigliosa nella sua capacità di compensare e contenere i mali del mondo, risolvendoli in compassata contemplazione.
Il sonetto di Giovanni Della Casa non sfugge alle regole del gioco, e tuttavia nemmeno le rispetta sino in fondo. Il sistema degli accenti (che evita sistematicamente quello di settima sillaba) e quello delle rime (tutte in qualche modo imparentate tra loro) sono tranquillamente petrarcheschi, così come la progressione complessiva del discorso…
Ci sono però troppi e troppo cruciali enjambement. Tre versi su quattro nella prima strofa e uno ciascuna nelle due successive, sono tutti fortemente inarcati. L’enjambement crea una frattura tra l’organizzazione metrica e quella sintattica che non è prevista (se non in minime dosi) dal paradigma petrarchista. Questa frattura incrina il senso di risoluzione e compiutezza che l’insieme del testo deve produrre. L’espressione che prosegue oltre la fine del verso ci costringe a una sorta di sporgersi sull’orlo dell’abisso che non viene recuperato dalla regolarità della struttura, perché qui è proprio la struttura a inarcarsi, a imbizzarrirsi, a negare per un attimo il compimento rassicurante della forma.
Certo, Della Casa non è in grado di arrivare sino in fondo. I suoi enjambement sono frequenti all’inizio del componimento, per farsi rari e infine scomparire man mano che ci si avvicina alla fine. L’angoscia, l’inquietudine della non risoluzione ritmica viene suggerita insistentemente all’inizio, ma dimenticata alla fine (magari coerentemente con la progressione narrativa dall’angoscia personale alla gioia collettiva della contemplazione divina). Il finale è infatti tornato alla norma, all’inquadramento formale, al quadretto rassicurante (duecentocinquant’anni dopo – però duecentocinquanta! – Ugo Foscolo potrà permettersi di osare molto di più).
Ma è già straordinario, per la sua epoca, che Della Casa sia riuscito ad arrivare sin qui, a suggerire questa tensione iniziale, questa insistita assenza di risoluzione a fine verso. Il quadro petrarchista è rigido, sì, certo; ma proprio per questo basta appena un accenno per metterne in crisi l’effetto rassicurante, e suggerire il salto nel vuoto.
27 Marzo 2013 | Tags: Aldo Nove, Amelia Rosselli, Andrea Inglese, Elio Pagliarani, Gabriele Frasca, Gian Mario Villalta, Giovanna Frene, Giuliano Mesa, Ivan Fedeli, Lello Voce, Marco Giovenale, Mario Luzi, metrica, Patrizia Valduga, poesia, Sergio Rotino, Umberto Piersanti | Category: poesia | A che cosa serve l’artificiosità del vincolo che caratterizza la poesia nei confronti della prosa? Per quale ragione si coltiva così pervicacemente una forma di scrittura che si rifiuta di scorrere liberamente secondo l’andamento naturale del discorso?
Credo che la risposta debba essere cercata in un sospetto verso quella che potremmo chiamare la trasparenza della parola, ovvero l’idea che il discorso verbale debba essere considerato uno strumento di espressione del pensiero, tendenzialmente senza residui. A questa visione ideale della prosa – ideale perché in verità nemmeno la prosa più tecnica la raggiunge sino in fondo – la poesia contrappone una concezione della parola piuttosto come ambiente. In poesia la sequenza delle parole costruisce un piccolo mondo, i cui oggetti, come nel mondo reale, valgono sia per le loro proprietà fisiche che per quelle simboliche: un tavolo è un oggetto materiale, fatto di legno, metallo e plastica e in relazione spaziale con gli oggetti circostanti, non meno e non più di quanto esso sia il supporto per il rito del pranzo, il simbolo dell’unità famigliare, il ricordo della nonna a cui era appartenuto. Gli oggetti della poesia sono ovviamente le parole e le loro costruzioni, nella propria natura sonora e visiva (con tutte le loro complessità) non meno e non più di ciò per cui stanno (con tutta la complessità dell’universo del significato).
Nella misura in cui siamo abituati, nella vita di tutti i giorni, a un uso strumentale e trasparente della parola, la poesia cerca di restituirci una dimensione globale del linguaggio, in cui la parola riappaia come cosa simbolica e insieme materiale proprio come le altre cose del mondo. Il vincolo posto sulla dimensione del significante serve proprio a imporne la pertinenza, a togliergli ogni possibilità di trasparenza. L’artificiosità è necessaria proprio perché si fa notare. Quando non c’è nulla che si faccia notare non c’è infatti ragione di uscire dall’uso standard, quello assestato, banale: nel nostro caso, appunto, l’uso strumentale del linguaggio.
Riportare il linguaggio alla sua natura di cosa, di oggetto, non significa rivendicarne la naturalità. È per forza evidente che un costrutto linguistico è un manufatto, così come lo è un tavolo e come non lo è un albero. Che cosa resta al linguaggio se si prescinde dalla sua natura di strumento per comunicare idee? Credo che quello che resta sia proprio la sua natura di manufatto, e in particolare di manufatto collettivo: il linguaggio è…
Quello che avete appena letto è l’inizio del mio (piuttosto lungo) intervento, intitolato “Il vincolo e il rito. Riflessioni sulla (non) necessità della metrica nella poesia italiana contemporanea“, apparso in questi giorni sul numero 16 della rivista L’Ulisse, complessivamente intitolato “Nuove metriche. Ritmi, versi e vincoli nella poesia contemporanea”. L’articolo, dopo una breve introduzione metodologica, cerca di fare un resoconto (parziale, ma nelle mie intenzioni rappresentativo) delle diverse posizioni sulla metrica e dei diversi usi che ne vengono fatti dalla poesia italiana contemporanea.
La rivista è comunque, come sempre, di grande interesse anche a prescindere dal mio personale intervento. Segnalo con piacere che mi ritrovo citato, al suo interno, anche negli interventi di Rodolfo Zucco (“Lettera su Bonifazio e Cella”) e di Vincenzo Bagnoli (“Endecasillabi in quattro quarti. Fra Dante e il Rock”).
20 Marzo 2013 | Tags: Caterina Davinio, poesia | Category: poesia | XVI
(Nella nebbia-fine)
Osavo,
ma non oltre il confine del
tuo passo
Perché non esistessero verità oltre te
E null’altro su cui posare lo sguardo.
E
quando il freddo la sapeva lunga sulle
mie ossa
di creatura scaltra ma senza piani
ricordavo che non potevo,
e l’indomani sarei
(andata)
dove terminano
tutte le stazioni
E le ore
E le curve
E i punti di fuga
E le infinite funzioni matematiche.
______________________________________________________________________
AUTOSTRADE
I
Volavo
come un angelo
dalle grandi ali
dolorose
per dimostrarti
crederti
cederti
sussurrarti
un avanzo di paradiso,
ubriaca e compunta
dinanzi
all’erebo e alla pietà
che veleggiano
alla velocità del suono
sulle curve
sotto i tunnel
intorno ad ampie costate
irte d’abeti
a laghi come specchi
e poi nel vento di lungomare
tra palmizi,
venuto da lontanissimo.
IV
E il cielo mi faceva
azzurra,
pesava su di me
insostenibile
di sole
tra le ciglia,
e pregavo
con la mente
accesa,
diamantina,
scintillante di blu
come le infinite speranze
distanze
e,
mio respiro (splendente),
felice
come mai.
____________________________________________________________________
Ho sotto gli occhi questa raccolta di Caterina Davinio, Fenomenologie seriali, Campanotto 2010, testi italiani con traduzione a fronte in lingua inglese, e sono perplesso. Se i testi fossero tutti come il primo dei tre che riporto qui sopra, potrei dire che si tratta di una buona raccolta; e invece la maggior parte sono più simili ai due testi successivi (parti diverse, queste, di una sezione unitaria più ampia), che non riesco a farmi piacere.
Eppure i tre brani condividono una certa uniformità stilistica, e non sono poi così diversi tra loro. Che cos’è che rende il primo, almeno ai miei occhi, un testo riuscito, e gli altri due no?
Ma i dubbi si assommano ai dubbi. Potrei dire che, in generale, questo tipo di stile poetico non incontra in generale i miei favori. Nonostante questo, il primo testo continua a piacermi. Per gli altri due non c’è un “nonostante questo”: non c’è niente in loro che riscatti lo stile che non so apprezzare. Ma se il problema è in generale un problema di stile, e non di singolo testo (anche se poi i singoli testi possono fare eccezione, di quando in quando) mi resta comunque il dubbio che la mia difficoltà ad apprezzarlo sia legata a un qualche tipo di inevitabile partigianeria per stili più vicini ai miei, come poeta.
Per fortuna il primo testo mi piace, il che mi permette di pensare che il mio giudizio possa non essere troppo di parte. Non è facile però capire perché quello mi funzioni e gli altri no. Proviamo.
Intanto, sul mio problema generale con lo stile di Caterina Davinio. Mi verrebbe da dire, come di getto, che questo modo di frazionare i versi sta agli antipodi di quello auspicato (e praticato) da Amelia Rosselli, a cui mi sento viceversa molto vicino. Ho citato varie volte questa affermazione della Rosselli nel saggio intitolato “Spazi metrici”: “In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi. L’idea non era più nel poema intero, a guisa di un momento di realtà nella mia mente, o partecipazione della mia mente ad una realtà, ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da nessuna parte.” È proprio questa sensazione che conduce la Rosselli a utilizzare un verso che quasi non è un verso, in cui viene sottolineata la continuità anziché la frattura del discorso nell’andare a capo.
Qui, viceversa, è dominante la frattura. In questo, di per sé, niente di male, se non un pericolo; ovvero che la frattura, ripetuta molte volte, finisca per diventare il motivo ricorrente e ossessivo. Se questa ossessione è controllata, può essere anche un forte strumento espressivo, proprio come accade nel primo dei tre componimenti qui sopra. Se invece non lo è, finisce per ingenerare noia, stanchezza, senso di ripetizione, come succede nei successivi due.
Nel primo componimento il dominio della frattura sembra coerente col discorso che viene condotto, con questa esitazione, questa “assenza di piani”, con questo non arrivare a fare, che culmina nel bel crescendo degli ultimi quattro versi, che deve la sua forza proprio alla presenza (e dominanza) della frattura. Il verso che si allunga proprio mentre tematizza l’astrazione e l’impossibilità di raggiungere gli asintoti, è una bella invenzione conclusiva, e un bel modo per far finire le parole proprio nel punto più forte della progressione.
Quindi, bene, brava. Ma poi il miracolo non si ripete più. Non posso riportare ovviamente tutta la raccolta, ma qualche altro componimento ha un’efficacia simile a questo. La maggior parte, purtroppo assomiglia invece di più ai successivi.
In loro la frattura del verso breve tende a ripetersi, a stancare. E poi entrano in scena gli “angeli / dalle grandi ali /dolorose”, i “laghi come specchi”, “la mente / … /diamantina, / scintillante di blu / come le infinite speranze”, e tanti altri orpelli del poetichese. Non che non li si possa proprio usare (persino nei versi della Rosselli ci sono cose così) ma se vengono spiattellati in questo modo, posti al centro del discorso (e qui la frattura agisce da focalizzatore, e come!), senza nessuna presa di distanza, come se non fossero espressioni usurate dall’uso poetico, allora io proprio non posso permettermi di apprezzare.
Umberto Saba era capace persino di usare la rima fiore/amore, definendola “la più antica difficile del mondo”: era ben consapevole che la difficoltà derivava dalla sua estrema usura. Se non si è consapevoli di questo, oppure, pur essendone consapevoli, non si è capaci di uscire dalla calotta delle modalità usurate, non si ottengono grandi risultati – o, almeno, non grandi per me.
13 Marzo 2013 | Tags: estetica, poesia | Category: poesia | Ancora un pensierino della sera, dopo quello della scorsa settimana.
È naturale che la poesia aspiri al pubblico riconoscimento. La ragione contingente di questo starà anche nella vanità dell’autore, e nel suo desiderio di sentirsi riconosciuto; ma, al di là di questo, cosa sarebbe la poesia senza riconoscimento? La poesia (come tutta l’arte, in vario modo) è qualcosa attorno a cui si raccoglie la collettività, o – per dirla in altro modo – nei confronti della quale molte persone diverse possono trovarsi in sintonia. La sua ragione sociale è quella di essere un luogo di aggregazione simbolico, proprio come un rito – di cui la poesia condivide vari elementi.
Tuttavia, per poter essere questo, la poesia ha naturalmente bisogno di essere pubblicamente riconosciuta, e più è ampio il riconoscimento e maggiore è la sua efficacia. Alla fin fine, la vanità soddisfatta dell’autore non è che un pretesto, un piccolo motore contingente che mette in moto un meccanismo di cui la poesia ha bisogno per sua natura.
Il problema emerge semmai nel caso – tutt’altro che raro – in cui alla vanità dell’autore che cerca soddisfazione non corrisponde una poesia davvero degna del pubblico riconoscimento. Peccato per la vanità frustrata, quando il pubblico riconoscimento non arriva! Ma peccato molto maggiore, cioè problema molto maggiore, quando questo ci rende consapevoli che, in qualche caso, il pubblico riconoscimento può arrivare lo stesso, e riguardare la poesia anche se i meriti poetici non sono grandi. In altre parole, sappiamo bene che né la buona poesia comporta necessariamente il pubblico riconoscimento, né la presenza di quest’ultimo comporta che si tratti di buona poesia.
E tuttavia, questa ultimissima negazione fa a sua volta problema: se la poesia (la buona poesia) è qualcosa attorno a cui si raccoglie la collettività, come è possibile che una poesia che ha pubblico riconoscimento (cioè attorno a cui si raccoglie una collettività) non sia buona poesia?
Lasciamo perdere le truffe, le giurie comprate o troppo vincolate da interessi personali. Il riconoscimento che si ottiene in questo modo è di solito effimero. Oppure, in generale, se lo posso spiegare in questo modo, sta comunque fuori dal mio problema. Sto pensando a un riconoscimento effettivo, magari costruito mediaticamente, ma comunque qualcosa che riguarda un certo numero di persone, che apprezzano e sentono i testi di un qualche autore.
Mi spiego con un esempio, e prendo un autore che gode di un riconoscimento piuttosto ampio, per essere un poeta: mi riferisco ad Alda Merini. Il problema è: posso legittimamente sostenere che la Merini non fa buona poesia? Oppure: che cosa sto in verità dicendo se sostengo che la Merini è un poeta inferiore a diversi altri che invece non godono di un pubblico riconoscimento pari al suo? Poniamo che io sostenga che Giuliano Mesa è stato un poeta molto superiore alla Merini, pur godendo di un pubblico riconoscimento decisamente più piccolo: in questo caso, che cos’è questa superiorità che io rivendico?
Evidentemente, quello del gusto e della fruizione non è un universo democratico – né, per fortuna, c’è bisogno che lo sia, visto che non ne va della vita di nessuno. In altre parole, io posso legittimamente sostenere che l’accordo, la sintonia che molte persone trovano intorno alla poesia della Merini vale di meno di quella che un numero molto più piccolo di persone trovano intorno alla poesia di Mesa. E siccome vale di meno, sarebbe auspicabile che le proporzioni si ribaltassero a favore di Mesa – ma se anche questo non succedesse, l’esistenza della poesia di Mesa e la consapevolezza che qualche lettore essa comunque ce l’ha mi porrebbero comunque in sintonia con una collettività che, per quanto piccola, è composta di persone più simili a me, e quindi più facilmente stimabili.
In altre parole, la collettività di cui si parla non è necessariamente quella generale, ma può essere anche piuttosto specifica, e probabilmente dovremmo parlare non del bensì di un pubblico riconoscimento. La relatività del gusto sta ovviamente dietro a questo discorso, ma si tratta di relatività, non di soggettività del gusto. Se piace solo a me, la poesia non funziona; non è poesia. Per quanto piccola o virtuale, una collettività ci deve essere. E se ritengo di avere scoperto, io per primo, della buona poesia, cercherò di farla conoscere ad altri – non foss’altro, contingentemente, che per sentirmi confermato nella sensazione che sia davvero buona poesia.
La perversione, nel mondo della cultura di massa, sta nel dominio della quantità, come se il principio democratico, visto che è utile in alcuni (importanti) campi, dovesse esserlo allora per tutti i campi. Chi vende centomila copie dei suoi libri sarà quindi mille volte migliore di chi ne vende cento? Personalmente, oltre a preferire davvero (e di molto) Mesa a Merini, considero il vasto successo come un indizio, non come una prova di qualità; e come tutti gli indizi può facilmente non portare a nulla. Scoprire un buon poeta non è solo scoprire dei buoni testi: è anche scoprire l’esistenza di un mondo, grande o piccolo che sia, di persone interessanti; è scoprire quella che è, almeno sotto certi aspetti, la mia collettività.
10 Marzo 2013 | Tags: poesia, poesia civile, Versante ripido | Category: poesia | Poesia civile? di Daniele Barbieri
Quando sento nominare la poesia civile porto la mano alla pistola. Poi mi ricordo che non possiedo una pistola e non mi interessa usarla, e mi ricordo anche a chi appartiene la frase originale. E comunque, tutto sommato, so di aver letto anche molta bella poesia che potrebbe essere definita in questo modo. Fortini e Pasolini non hanno mai smesso di essere tra i miei poeti di riferimento. Pagliarani e Sanguineti nemmeno.
Eppure l’espressione poesia civile produce in me un fremito, un accenno di ribellione. In un contesto culturale in cui tutti, in qualche modo, siamo stanchi di intimismi, l’idea di poesia civile mi appare come una facile ricetta per sfuggire al nefasto predominio dell’io. Insomma, se il poeta della domenica non riesce a liberarsi dell’idea che la poesia sia espressione diretta delle proprie pene esistenziali, e un modo per sublimarle in messaggio al mondo, il poeta del sabato, appena un gradino di consapevolezza più in alto, ha trovato il sociale, il civile, come tema alternativo, capace di raccogliere il consenso almeno di chi condivida le idee su cui si fonda.
Alla fine dei conti, ho osservato che…
(continua a leggere qui – il pezzo è seguito da tre poesie)
6 Marzo 2013 | Tags: Arte, arti, cinema, critica, estetica, fumetto, musica, poesia | Category: estetica, fumetto, musica, poesia | Ho avuto una piccola illuminazione sulla critica (che sia poetica, letteraria, cinematografica, musicale, fumettistica…). I testi artistici, si sa, sono i testi mitici di oggi. Assolvono alla funzione di cantare (in positivo o in negativo) gli aspetti della nostra vita nel presente.
Ma se ne producono tanti! o almeno, vengono prodotti tanti testi che aspirano a essere artistici, cioè a ricoprire questo ruolo mitologizzante, che trasforma la quotidianità in leggenda, fornendo un senso alla banalità del mondo. Ne vengono prodotti tanti, ma sono pochi quelli che riescono davvero ad assolvere il proprio ruolo.
La critica non serve principalmente a fornire delle chiavi di lettura dei testi artistici, anche se qualche volta per fortuna lo fa. Il suo scopo principale, mi sembra, è sacralizzare, mitologizzare i testi (gli autori) di cui sceglie di occuparsi. Insomma, se gli artisti, quelli veri, sono i sacerdoti del mondo, poiché producono opere che danno senso al mondo, i critici sono i sacerdoti degli artisti, poiché fanno sì che un artista (un creatore di miti) possa essere riconosciuto come tale.
Così, artisti e critici sono tutti creatori di miti, pur secondo ambiti diversi e con strumenti diversi. I critici rendono mitici gli artisti che sanno rendere mitico il mondo.
E chi rende mitici i critici? Be’, di nuovo i critici stessi, citandosi e riferendosi a.
(In questo senso, in forma più debole, anche il pubblico è formato di critici, almeno nella misura in cui si scambia opinioni su quello che ha letto/visto/ascoltato)
Si può fare a meno dei critici? Evidentemente no. Se non si rendono mitici i testi, questi non possono rendere mitico il mondo. Quando i testi sono già mitici, come quelli di Omero, è proprio perché generazioni di critici (lettori compresi, evidentemente) li hanno resi tali. Senza Omero (o chi per lui) saremmo tutti più poveri; ma lo saremmo anche senza coloro che lo hanno reso un mito.
L’universo del senso è, a quanto pare, un universo di valorizzazioni intrecciate, un castello di carte in cui la parte tiene su il tutto, e il tutto tiene su la parte. Quando crolla una carta, che cosa succede?
27 Febbraio 2013 | Tags: Franco Marcoaldi, poesia | Category: poesia | Franco Marcoaldi “La trappola” Einaudi 2012
Il primo abbaglio lo si prende dalla copertina. Il ritmo, la perentorietà di quei quattro versi, la rima interna, fuori posto ma proprio per questo elegantissima, fanno pensare a Montale. Tuttavia, si trattasse anche del grande Eugenio di persona, il clima di settanta, ottant’anni dopo farebbe già sì, di per sé, che le medesime parole possano apparire qualcosa di ben diverso (rileggetevi il sardonico Borges di “Pierre Menard, autore del Chisciotte”, per capire che cosa voglio dire). Dopo di che, quando si vanno a leggere le pagine interne, qualcosa di montaliano c’è davvero, però si tratta di un Montale bonificato o buonista, privato di ogni fremito d’orrore, risolto in elegante e classicistica maniera.
Insomma, una poesia che potremmo definire consolatoria, una poesia-poesia con tutti i crismi di come la si deve fare, la poesia: il ritmo giusto fatto di endecasillabi ma senza esagerare (quel verso libero che gira comunque intorno a quell’andamento così familiare), le rime elegantemente dislocate, insieme ad allitterazioni e assonanze e consonanze, in modo da formare un tessuto sempre cortesemente risonante. Difficile dire in che cosa consista la nota falsa, in questo misurato nitore.
Tutto risulta più chiaro dopo un po’ che si legge, quando ci si incomincia ad accorgere della piccola morale racchiusa ogni volta dentro alla sequenza dei versi, e quando ci si rende via via conto di come il meccanismo si ripeta costantemente, in ogni singolo componimento, ora in maniera più implicita ora più esplicita. Dopo un poco se ne ricava l’impressione che l’autore sia capace di cavar fuori una morale da tutto, una piccola morale, dolce o amara, ma vera, condivisibile. Forse banale, bisognerebbe dire, se non suonasse dispregiativo.
Il punto è che, in generale, non si chiede alla poesia di esprimere grandi verità. Le rivelazioni, quando davvero sono da fare, è meglio farle in prosa, e in prosa critica: si può essere più chiari e farsi comprendere meglio. La poesia dovrebbe suggerire, semmai, inquietare, e dovrebbe farlo mostrando, non dichiarando. Può tranquillamente parlare di banalità, e persino dire banalità, senza che questo sia di per sé una colpa (mentre lo sarebbe per la prosa), a patto di non dirle in maniera banale, a patto che la maniera di dirle ne metta sul piatto degli aspetti che normalmente non vengono esibiti.
Il problema, quindi, non sta probabilmente in quello che Marcoaldi dice, ma proprio nel come lo dice. Se queste morali banali ci venissero espresse in maniera inquietante, imprevedibile, potrebbero dire ben altro di quello che sembrano a prima vista dire. Invece qui è tutto perfetto, tutto elegante, tutto proprio come ci si aspetta che sia. E la morale conclusiva di ogni componimento emerge di conseguenza nella sua essenza di banale, consolatoria verità.
Forse, questa di Marcoaldi, è una poesia che può piacere ai non lettori di poesia, a chi frequenta la poesia molto saltuariamente, e magari la legge, stavolta, perché gli hanno regalato un volume. Questo tipo di lettore ritroverà in questi versi quello che ha imparato ad apprezzare a scuola, cioè la forma canonica della poesia del novecento, quella incarnata da Montale – che pure, lui, non è stato né banale in questo senso né consolatorio in questo senso. E non vi troverà molto di più; ma questo certamente gli potrà bastare.
Insomma, in molti sensi un libro da regalo. È pure pubblicato da Einaudi: una garanzia.
Franco Marcoaldi “La trappola” Einaudi 2012
Come post di oggi inserisco un breve (ma non brevissimo) saggio che avevo scritto alcuni mesi fa per una collana di microlibri progettati dalle edizioni CFR di Gianmario Lucini (Poiein). La collana non ha avuto successo, e il mio testo è rimasto inedito.
Il saggio sviluppa in maniera molto più ampia alcune riflessioni che avevo anticipato in un post di questo blog: “Di Goethe, dell’azione e della poesia”, apparso il 31 marzo 2011. Vi si parte da una riflessione filosofica ispirata ad alcuni versi del Faust per parlare del rapporto tra poesia e senso della collettività, lirica e poesia civile.
Mi piacerebbe che su questi temi si potesse dibattere. Il saggio è qui: La poesia e il collettivo.
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