Di una foto a Barcellona, e di ornamenti e delitti

Barcellona, facciata di una casa vicino all'Arc de Triomf

Barcellona, facciata di una casa vicino all'Arc de Triomf

Ho scattato questa foto, insieme a molte altre, a Barcellona, mentre quello che vedevo mi ispirava una riflessione sulle posizioni espresse nel 1908 da Adolf Loos, in un suo testo famoso e influentissimo, Ornamento e delitto (è un articolo breve; lo potete leggere interamente, per esempio, qui). Come è noto, la tesi di Loos, che sarebbe stata ben presto fatta propria e anche oltrepassata dalle correnti funzionaliste, era che sostanzialmente l’architettura (anzi, tutto il campo di ciò che oggi chiameremmo design) doveva fare a meno degli ornamenti, perché la sua bellezza si poteva (anzi, si doveva) trovare nei puri rapporti formali, quelli che esprimono le funzioni stesse dell’edificio o dell’oggetto. Il resto è un sovrappiù, e un sovrappiù colpevole, perché ci nasconde la realtà essenziale delle cose. L’architettura (e non solo) deve essere sincera, e trovare in questa sincerità la sua bellezza – mentre l’ornamento è un imbroglio, una falsità, un delitto, uno spreco di tempo, un diletto infantile, un’attitudine popolare e primitiva.

Non si può negare che la posizione espressa da Loos sia stata fertile, e che il funzionalismo abbia in seguito espresso numerosi capolavori, a partire dai lavori di Wright, Gropius, Le Corbusier… Ma siamo anche costretti a riconoscere che i medesimi principi, una volta applicati senza l’intelligenza di questi (e ancora molti altri) grandi maestri, hanno prodotto pure un intero universo di periferie di gelidi orrori; e che i principi dello stile internazionale si sono facilmente involgariti producendo mostri di cemento senza senso e senz’anima – nel complesso assai peggiori delle vezzose e superficiali case e oggetti ornati aborriti da Loos.

Loos aveva dunque torto? Sì e no. Certo, si può prima di tutto capire bene la sua posizione in un’epoca in cui il bello in architettura doveva essere ornato, e l’ornamento aveva certe regole e certe ricorrenze. Da questo punto di vista Loos aveva sicuramente ragione: l’ornamento non è necessario. E tuttavia la sua è, in fin dei conti, una posizione fondamentalmente aristocratica; e Loos, nel suo scritto, non lo nasconde affatto (anzi, a rileggerlo oggi, a un secolo di distanza, Loos finisce per restarci persino antipatico).

Creare degli edifici interessanti, notevoli, piacevoli da guardare e da vivere seguendo i principi del funzionalismo non è in realtà facile. Lo può sembrare per qualche decennio, sino a quando cioè l’assenza di ornamento appare alla gente come una novità, e l’assenza si nota in quanto tale: sino a quando, cioè, gli stili ornati restano la norma, l’assenza di ornamenti è la presenza di un’assenza, e un edificio senza ornamenti si trova ornato da questa assenza. Ma quando questo diventa a sua volta la norma, l’assenza è assenza e basta, anzi nemmeno quello, perché non c’è più una presenza di riferimento che la faccia sentire.

A questo punto, davvero, gli edifici restano gradevoli solo se sono stati costruiti con un gusto particolarmente sviluppato, e lo sono perché continuano a essere interessanti i loro rapporti formali. Ma gli edifici che godono di queste qualità sono davvero pochi! Solo i grandi architetti ne hanno prodotti.

È un po’ come dire che tutti sono capaci di tirare delle linee nere orizzontali e verticali su una tela, ma solo Mondrian riesce a farne dei capolavori. Solo che abbiamo molto più bisogno di case che di dipinti.

L’ornamento sarà pure accusabile di falsità (non sempre però, in verità), perché una casa ornata distrae l’attenzione dall’insieme richiamandola sui dettagli, cioè sugli ornamenti stessi – ma proprio per questo, è più facile costruire degli edifici il cui interesse resista un poco al tempo. Sarà magari un interesse nei confronti del curioso e del pittoresco – come spesso accade a Barcellona, dove mica tutti gli edifici sono stati progettati da Gaudí – ma è comunque un interesse che c’è, e rimane.

È che l’ornamento, nella sua infinita varietà, finisce per essere meno aristocratico perché le soluzioni accettabili, anche se magari nascondono errori maggiori, sono infinitamente di più di quelle che permette il funzionalismo. Sarà pure pittoresco, vernacolare, curioso, ma in qualche modo funziona.

E nel momento in cui ritorna, storicamente, a imporsi, produce a sua volta un effetto singolare, per cui anche lo stile funzionalista diventa esso stesso uno stile, cioè una forma di ornamento, e l’idea che la forma architettonica debba esprimere la funzione si rivela per quel grande bluff ideologico che è stata. Basta approfondire l’idea di funzione per capirlo e rendersi conto che tra le funzioni di un edificio e di un oggetto ci sono pure quelle simboliche, che non sono affatto meno importanti delle altre.

Nel fascino di Barcellona c’è anche il fatto che la città sembra avere saltato proprio quella fase, quella del funzionalismo. Non del tutto, in verità, specie nei suoi aspetti peggiori – ma sono le cose che si notano meno. Perché a Barcellona c’è un sacco di architettura moderna che si fa notare: c’è quella che precede o ignora l’anatema di Loos, con Gaudí e il modernismo catalano in testa, e c’è quella che segue il tramonto dell’ideologia formalista, quella che si è resa conto che l’ornamento ci può benissimo essere, se serve, ma che non siamo limitati al campionario degli ornamenti storici, e possiamo sbizzarrirci a inventare qualsiasi cosa, purché se ne possa comprendere il senso, purché ci faccia sognare, purché ci faccia sentire parte di qualcosa che vive, e che comunica se stesso.

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Della narratività e dei suoi limiti

Non so se il tema che voglio affrontare qui sia davvero adatto per il post di un blog. Forse avrebbe piuttosto bisogno dello spazio e dello stile di lettura più concentrato di un saggio su una rivista scientifica. Ma ormai mi sono abituato a utilizzare questo blog per mettere giù le riflessioni che mi girano per la testa, e penso che i miei lettori si siano rassegnati a loro volta a questi post dai temi magari un po’ coriacei. In fin dei conti, per male che vada, il lettore ha sempre la possibilità di smettere di leggere e di guardare altrove: il Web è comunque strapieno di cose interessanti.

Il tema è quello, profondamente semiotico ma non solo, della narratività. Una delle idee che stanno alla base della semiotica generativa di Greimas è che la struttura narrativa sia fondamentalmente alla base di qualsiasi discorso. Questo sarebbe dovuto al fatto che la struttura narrativa articola un percorso fondato sul quadrato semiotico, il quale a sua volta articola un’opposizione semantica; e le opposizioni semantiche sono alla base di qualsiasi discorso.

Io ho qualche dubbio anche su questo, ma non è questo il punto in questione qui. Si può discutere sui dettagli, ma la posizione di Greimas individua nel suo complesso una questione reale, e una centralità del racconto che ne fa inevitabilmente un tema di indagine per chi voglia lavorare a fondo sui testi. Tuttavia, la posizione di Greimas ha un corollario che di solito non viene preso particolarmente in considerazione dai semiologi generativi, troppo intenti a rintracciare le strutture narrative nascoste, e poco interessati a capire come vi siano state nascoste. In altre parole, se il racconto è così pervasivo nei testi, è perché il racconto è evidentemente (come peraltro suggerisce Ricoeur) la forma con cui noi diamo senso al divenire temporale: il tempo, cioè, non è un semplice succedersi insensato di battiti dell’orologio; prende piuttosto senso per noi attraverso l’articolazione delle cause e degli effetti, che è già un’articolazione narrativa. Se volessimo essere kantiani, potremmo dire che la forma-racconto è un trascendentale, ovvero una struttura implicita nella nostra comprensione del mondo. Se invece che kantiani, volessimo essere evoluzionisti alla Bateson, potremmo dire che la forma-racconto è il modo migliore che la nostra evoluzione ha escogitato per metterci in rapporto memoriale con gli eventi del mondo, permettendoci di dar loro un senso – o di trascurarli o dimenticarli quando non entrano in nessuna successione narrativa.

Qualunque sia il perché, il come non cambia, il racconto è il modello, lo schema che noi applichiamo alla nostra comprensione del mondo, ogni volta che viene messo in gioco il tempo, cioè un divenire.

Ora, se portassimo questa assunzione alle estreme conseguenze, dovremmo dire che non ci sono racconti al di fuori di noi, ma solo sequenze di eventi che noi comprendiamo in modo narrativo. Se il mondo al di fuori di noi fosse fatto solo di natura, potrei anche sottoscrivere queste estreme conseguenze, e farla finita qui, neo-kantianamente. Ma il mondo al di fuori di noi è fatto anche di prodotti di altri esseri umani, i quali esprimono la propria comprensione del mondo; e siccome la loro comprensione del mondo è avvenuta in termini narrativi, allora anche la loro espressione potrebbe essere strutturata narrativamente.

Cercare le strutture narrative di un testo significa allora cercare le tracce di questa narrativizzazione. E se mettiamo le cose in questi termini, sembra che i semiologi generativi facciano la cosa giusta quando cercano la forma-racconto alla base di qualsiasi manifestazione testuale, dal romanzo alla pittura alla musica. Il mio sospetto che sia il lettore colui che “nasconde” la forma-racconto nel testo sembra rivelarsi privo di fondamento; l’autore del testo, infatti, prima che autore, è stato a sua volta “lettore” del mondo, e l’ha “letto” in forma di racconto, passandolo poi a noi in questo modo.

Continuo a non essere però del tutto convinto. Continuo a sentire della differenza tra il trattamento narrativo di un romanzo (che è sicuramente il prodotto di una lettura già narrativa del mondo), e quello di un dipinto o di un brano musicale.

Proviamo a riflettere sulla natura delle nostre percezioni, in particolare sonore e visive. I suoni e le forme visive che arrivano ai nostri sensi vengono prima di tutto interpretati come segnali del mondo circostante; anzi, per la nostra ontologia ingenua, come il mondo circostante stesso. Solo in seconda istanza valutiamo se non siano stati prodotti da qualcuno a scopo comunicativo, e cerchiamo di interpretarli in questo senso. Ma c’è una grande eccezione a questo principio, perché quando i suoni e le figure sono riconosciute come linguaggio (oralità o scrittura, insomma), noi tendiamo a, per così dire, vedere attraverso di loro, per arrivare il più rapidamente possibile al loro significato. La dimensione materiale, quella del significante, non scompare, ma la nostra attenzione è rivolta da subito (e non in seconda istanza) al significato. È solo quando il significato è per noi incomprensibile (per esempio di fronte alle espressioni in una lingua sconosciuta) che ci arrestiamo al significante, con la forte (e ben giustificata) sensazione che ci stiamo perdendo il meglio.

Quando sono in gioco le parole (e altri segni dichiaratamente convenzionali), insomma, assumiamo immediatamente che ci sia alle loro spalle qualcuno che le ha pronunciate o scritte. Questa medesima assunzione è molto più problematica, invece, quando le parole non sono in gioco, e siamo di fronte a immagini e/o suoni non verbali. Per portare la cosa al limite, è vero che un dipinto è sicuramente un’immagine prodotta dall’intenzione comunicativa di qualcuno; ma la cosa è molto meno certa (e rilevante) per un’immaigne fotografica o per un audiovisivo. I fotogrammi o le riprese di una telecamera di sorveglianza, per esempio, pur essendo immagini, non sono di solito interpretati come discorsi, bensì come testimonianze, documenti ottenuti attraverso un’estensione della nostra capacità di vedere e udire, che ci permette di vedere e udire anche quello che è accaduto in un luogo e un tempo in cui non eravamo presenti.

Senza arrivare a questi estremi, l’assenza di una voce narrativa (orale o scritta) ci mette sempre nella condizione di valutare le percezioni non verbali come segnali del mondo (o direttamente come mondo); poi, subito dopo, nell’eventuale misura in cui sappiamo che sono state prodotte, iniziamo a considerarle anche come discorsi.

Una delle conseguenze di questo è che mentre un racconto verbale (orale o scritto che sia) non può non avere un narratore (cioè una voce narrante, che si manifesta – come minimo – attraverso i pronomi e i tempi verbali), un’immagine, una sequenza di immagini o una sequenza di suoni, o una sequenza audiovisiva, possono benissimo non avere un narratore. Avranno un autore, certamente – ma non è la stessa cosa: è la voce narrante, cioè il narratore, che mi garantisce che quello che sto percependo è già una narrazione, ovvero il prodotto di un’interpretazione narrativa del mondo. Se il narratore non c’è, la situazione è molto più incerta.

Supponiamo di stare facendo una passeggiata con un amico, in montagna. A un certo punto lui mi dice “Guarda”, indicando qualcosa. Io guardo e vedo una sequenza di eventi (un gruppo di camosci spaventati che fuggono, un falco in picchiata, una valanga): di fronte a quello che ho visto, io sto già interpretando narrativamente – e lo avrei fatto anche se avessi visto autonomamente quella scena. Certo anche il mio amico ha operato un’interpretazione narrativa del mondo, e sulla scorta di quella ha ritenuto opportuno avvertirmi. Ma la sua operazione si è esaurita di fatto con l’avvertimento, e la mia narrativizzazione è tutta mia. Ben diverso sarebbe stato se fosse stato lui a raccontarmi uno di questi eventi.

In molti casi, quello che succede con i testi non verbali ha qualcosa in comune con l’esempio appena fatto, e non solo nell’ambito, ovvio, della fotografia. Un disegnatore o pittore traccia delle forme affinché, prima di tutto, io le veda e riconosca narrativamente. Proprio per questo le preparerà (potendolo fare, a differenza del mio compagno di passeggiata) in maniera da favorire una mia certa interpretazione narrativa, piuttosto che qualche altra. Ma, a differenza del narratore del romanzo, non potrà dichiarare implicitamente di stare raccontando – perché questo implicito è una prerogativa dalla parola. Il disegnatore (il pittore, il regista…) crea piuttosto delle situazioni prenarrativizzate (o delle sequenze prenarrativizzate) ovvero pronte perché si dia di loro una certa interpretazione narrativa.

Non sto giocando con le parole. C’è differenza tra un racconto, garantito da un narratore, che ci autorizza da subito ad accettare che la sua stessa produzione sia già narrativa, e una sequenza prenarrativizzata, che siamo noi lettori a interpretare narrativamente, anche se è certamente stata progettata per favorirci in questo, ma dove non c’è nessuna garanzia, e nessuno che dichiara davvero “sto raccontando”. In questo secondo caso, io semplicemente assumo che ci sia a monte un’intenzionalità narrativa, ma sono io lettore a ricostruire il racconto in quanto tale.

Ma poiché sono io, io sono anche libero allora di non farlo, e di fruire il testo in altro modo, presumendo che l’intenzionalità narrativa non sia l’unica, o magari non sia la principale, o magari non fosse nemmeno pertinente all’intenzionalità espressiva (e quindi interpretativa) dell’autore. Le parole esistono perché, convenzionalmente, trasmettono discorsi: se mi rifiuto o non sono in grado di recepire una sequenza di parole come discorso, non le sto nemmeno più ascoltando o vedendo come parole. A questo destino sono talvolta destinate le parole quando vengono messe in musica: a volte restano davvero parole, che trasmettono il loro senso, altre si trovano a essere trattate come semplici suoni articolati, ascoltate per il suono e ignorate per il senso.

Dal punto di vista del rapporto con il racconto, il musicista si trova in una situazione ancora più estrema di quella di chi produce immagini. In molti casi le immagini possono essere lette come mimetiche; mentre raramente si può dire lo stesso delle sequenze musicali. Il musicista (compositore o esecutore) ci mette di fronte a delle sequenze articolate di suoni, e nemmeno ci dice che siamo tenuti a recepirle come un’interpretazione del mondo. Ma senza questa assunzione, diventa impossibile assumere che ci possa essere un qualche tipo di intenzionalità narrativa in musica, e quindi delle strutture narrative intimamente in gioco. Si fa fatica persino a pensare che la musica possa essere intesa come una sequenza prenarratizzata, quali il fumetto o il cinema (eccetto nel caso di melodramma e simili, ovviamente, dove la musica accompagna un’azione visiva e/o verbale).

Quello che si può dire è che ci sono dei contesti storici e/o culturali in cui un’intenzionalità interpretativa del mondo e quindi espressiva può essere ipotizzata. Da Haydn e Mozart in poi questa ipotesi ha un senso nella musica occidentale. Ma forse bisognerebbe domandarsi, opera per opera, se sia accettabile di vederla come una sequenza prenarrativizzata. Se non lo fosse, e ugualmente vi rinvenissimo delle strutture narrative nascoste, sapremmo con certezza che siamo stati noi stessi, interpretando il testo musicale, a nascondervele.

Il problema cruciale delle analisi narrative è dunque questo: per evitare di trovare quello che noi stessi vi mettiamo dentro, dobbiamo poter assumere che il racconto vi sia già, almeno nella forma implicita della sequenza prenarrativizzata. Lo possiamo assumere tranquillamente con il romanzo e con le forme analoghe più brevi. Lo potremmo assumere anche con la poesia, se non fosse che la poesia mette molto in primo piano certi aspetti del piano del significante, i quali con il racconto non hanno nulla che fare – ma la poesia gioca proprio su questo doppio binario. Lo assumiamo convenzionalmente con fumetto e cinema, trattandoli come varianti del racconto verbale – ma ci sono situazioni in cui la differenza salta fuori. A mano a mano che ci si allontana da questo nucleo, l’assunzione di narratività deve essere sempre più forte, e sempre più esplicitamente motivata: in musica, per esempio, è accettabile per il Romanticismo, ma in generale a fatica per le forme strumentali del Barocco – mentre sul jazz credo che potremmo discutere a lungo, caso per caso. In pittura, è accettabile per molti generi, ma la natura morta e il paesaggio la eludono in molti casi – per non dire dell’astrattismo di Mondrian, o dell’informale di Pollock.

Non basta, insomma, trovare in qualche tipo di testo un’analogia con la forma-racconto per poter dire di essere di fronte a una struttura narrativa. Siamo noi a vedere racconti dappertutto. L’analogia non è una prova se non del fatto che quello che abbiamo davanti è un frammento di mondo, interpretabile narrativamente come tutto. Di notte, si sa, tutti i gatti sono neri.


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Dell’esperienza ritmica, dell’endecasillabo e di Umberto Piersanti

Umberto Piersanti, L'attesa, da I luoghi persi

Umberto Piersanti, L'attesa, da I luoghi persi

Non sta davvero il carattere “bucolico” al centro della fascinazione che ha per me questa poesia di Umberto Piersanti, al pari di molte sue altre. Certamente anche i temi della natura, del ricordo, della quotidianità e del sesso hanno il loro peso; tuttavia, nella mia percezione, ritenere Piersanti, sulla base di questi temi, un poeta crepuscolare e intimista, e dunque sostanzialmente tradizionale, è davvero un errore. Piuttosto che a Pascoli e a Pasolini, a me viene da accostare questi versi a quelli di Amelia Rosselli che ho commentato qualche settimana fa.

Naturalmente questa affermazione chiede di essere giustificata, perché tutt’altro che evidente. A prima vista, semmai, i due testi appaiono davvero diversissimi, quanto ai temi, alla costruzione complessiva e all’architettura metrica e ritmica. Non si tratta comunque di individuare una dipendenza, un influsso, che magari ci sono e magari no; ma semmai una convergenza, una vicinanza di fondo tra questi due testi così apparentemente divergenti.

Se si leggono ad alta voce tutti e due i testi, ci si accorge meglio dell’intensità dell’ossessione ritmica su cui sono entrambi giocati. Nel caso della Rosselli c’è un’affabulazione dall’apparenza antimetrica (in cui sono cruciali i tagli arbitrari del verso) su cui si innesta un’insistita ripetizione di suoni, di intere parole, di formule sintattiche e di esplicite citazioni. Nel caso di Piersanti c’è un endecasillabo iperrealistico, tagliato in maniera da enfatizzare la coincidenza tra i versi e le singole clausole sintattico-narrative, a cui la quasi totale assenza di segni di interpunzione delega tutta l’articolazione prosodica del discorso. L’ossessione iterativa lessicale della Rosselli corrisponde all’ossessione iterativa ritmico-prosodica di Piersanti, e in tutti e due i casi quello di cui si parla finisce in secondo piano rispetto alla dominanza di un ritmo della parola che rimanda al ritmo con cui i singoli momenti del discorso arrivano a consapevolezza.

È questo ritmo, nella Rosselli come in Piersanti, che ci prende, che ci trascina, che ci affascina. Solo in quanto siamo trascinati in questo meccanismo regolato e omogeneo di emergenze al livello del senso, solo in quanto ci ritroviamo, leggendo, a vivere direttamente questo andamento dell’azione (un’azione ricostruttiva ed evocatrice); solo in quanto, in questo modo, ci sentiamo vivere insieme con il soggetto lirico la sua stessa esperienza, solo allora l’esperienza specifica si trova qualificata, ed emergono le differenze, e il delirio drammatico e sentimentale della Rosselli, e il sospiro bucolico di Piersanti. Tuttavia, a questo punto, il gioco è già fatto; ci siamo già dentro, e tanto la Rosselli come Piersanti potrebbero raccontarci (quasi) qualsiasi cosa.

L’esperienza ritmica, che coinvolge la dimensione del suono quanto quella del senso, è un’esperienza che viene vissuta dal lettore; mentre ciò di cui il testo parla (discorso o racconto che sia) è comunque un resoconto, qualcosa che ci arriva tramite il linguaggio, attraverso la sua mediazione. L’esperienza ritmica non è mediata dal linguaggio; piuttosto, essa è direttamente prodotta dalla lettura della sequenza verbale. Per questo si trova enfatizzata e più facilmente riconoscibile attraverso una lettura ad alta voce; ma il lettore esperto riesce a ricostruirla anche solo interiormente.

Se lo leggiamo in questi termini, il testo di Piersanti perde grandissima parte del tono crepuscolare e bucolico che gli attribuisce chi ne privilegia il senso letterale delle parole e delle frasi che lo compongono. La campagna, la quotidianità, il sesso ci sono, certamente; sono ciò di cui si parla, sono l’occasione del discorso – e sono comunque diretti, non oggetto di parodia, né di recupero post- o neo-qualcosa. Ma quello che rende Piersanti un mio contemporaneo, cioè un poeta che leggo e in cui posso riconoscermi, è l’inevitabile distanza mediata dal principio ossessivo, che scardina il discorso tradizionale, quello tipicamente atteso di fronte a questi temi.

Potremmo dire, esagerando un po’, che l’endecasillabo agisce in questo testo di Piersanti come le parole (citate e più volte ripetute) di Campana agiscono nel testo della Rosselli. È il quadro, il contesto attraverso cui ci appare ancora possibile accedere all’esperienza, specie quella emotivamente profonda, nel momento stesso in cui quell’esperienza si trova inevitabilmente e dolorosamente al di fuori di noi, in verità inattingibile. La possiamo, in letteratura, soltanto evocare, nominare, mentre le nostre parole producono, attraverso i propri ritmi, nuove e differenti esperienze in chi ci legge.

La poesia, e la letteratura in generale, finge sempre di portarci nel luogo di cui parla; mentre in realtà ci sta violentemente trascinando altrove – almeno quando ci riesce, quando funziona.

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Della lirica, dell’espressivismo e della non-soggettività

Ho concluso il post precedente sulla poesia con un interrogativo, domandandomi come si concili un’affermazione come quella del Faust di Goethe (“In principio era l’atto”) con il dominio della lirica nel mondo della poesia, che negli anni del Faust era già un fatto, e in seguito lo sarebbe stato ancora di più. In altre parole, come si concilia un’istanza anti-soggettiva come quella espressa dalle parole di Faust (a cui farà seguito Nietzsche e l’invenzione freudiana dell’inconscio, e le prospettive a-soggettive delle scienze sociali) con l’istanza profondamente soggettiva che sta alla base della lirica?

Naturalmente non c’è bisogno che si concilino, perché in ogni epoca non esiste un solo spirito del tempo, ma ben più di uno – per cui istanze profondamente soggettive e istanze profondamente anti-soggettive possono condividere la stessa epoca e gli stessi luoghi. Però credo che la questione possa essere affrontata in maniera meno banale di questa, e che il rapporto tra l’anti-soggettività e l’iper-soggettività moderne sia più stretto di una semplice coabitazione.

Di lirica ho già parlato in questo blog in più occasioni. Ma mi ha risensibilizzato particolarmente al problema la lettura di due testi interessanti di Guido Mazzoni. Il primo l’ho trovato in rete, nel blog di Punto Critico, ed è un’intervista di Italo Testa al medesimo Mazzoni. Il secondo, letto in seguito all’incontro più o meno fortuito con quell’intervista, è il libro di Mazzoni che ha per titolo Sulla poesia moderna (ed. Il Mulino, 2005).

Riassumerò le tesi di Mazzoni (che trovo di grande interesse) con due citazioni. La prima, tratta dall’intervista su Punto Critico, è questa:

Ora: non tutta la poesia moderna coincide con la lirica, ma è indubitabile che la lirica sia il centro della poesia moderna. Allo stesso modo, è indubitabile che la perdita di mandato sociale dello scrittore, che segna la storia della scrittura in versi da un secolo e mezzo almeno, valga a maggior ragione per il sottogenere lirico, perché quest’ultimo esprime in forma pura quell’individualismo, quell’egocentrismo, quell’«inesplicato bisogno di individualità», come dice Mallarmé, che è il fondo etico della forma di vita emersa negli ultimi secoli. In particolare, la lirica esprime bene la variante del soggettivismo che Charles Taylor chiama «espressivismo», cioè l’ideale etico per cui il senso della vita starebbe nella capacità – in qualche modo nell’obbligo – di essere all’altezza della propria originalità, di esprimere la propria differenza soggettiva. A partire dall’epoca romantica, l’espressivismo diventa un ethos sempre più condiviso dagli intellettuali; a partire dagli anni Sessanta, si diffonde fra le masse in Occidente. La poesia moderna è l’arte d’élite che più direttamente si lega a un simile bisogno, e la lirica è il centro del sistema.

La seconda invece proviene dal volume, a pag. 212:

L’immagine del mondo che la maggior parte delle poesie moderne rinvia al lettore è di tipo narcisistico. Uso questo termine nell’accezione di Christopher Lasch: caratteristica del narcisismo, come istanza psichica e come atteggiamento esistenziale, è l’idea che il piacere, la felicità, il senso della vita non vadano ricercati nel confronto col mondo esterno, nella lotta per la conquista di beni materiali o simbolici, ma in una difesa tenace dell’indipendenza emotiva, ottenuta proteggendosi dalle passioni centrifughe, depotenziando i rapporti con gli altri e cercando di “essere se stessi” o, tutt’al più, di “esprimere se stessi”. Emanano un’immagine del mondo manifestamente narcisista il centro lirico e la periferia occupata dalla poesia pura: nei testi del primo, l’io racconta frammenti di vita personale in una forma carica di espressivismo; nei testi della seconda, l’io cerca di costruire una realtà soggettiva priva di contatti con il modo ordinario di fare esperienza delle cose. Ma anche la poesia dall’andamento narrativo o riflessivo, che pure sembrerebbe avere caratteristiche diverse, non potrebbe esistere senza una forte dose di quell’indecifrabilità che è il primo segno della chiusura egocentrica, come dimostra il fatto che due secoli di long poem antilirico non siano riusciti a scalfire, nel senso comune dei lettori, l’idea che il genere mimetico della letteratura moderna sia il romanzo, e non la scrittura in versi.

C’è molto più di questo sia nell’intervista che nel volume (davvero molto interessante) di Mazzoni; ma credo che queste due citazioni bastino per spiegare la posizione di Mazzoni sul rapporto tra dominio della lirica e affermazione del soggettivismo (anzi, dell’espressivismo). Mi sono ritrovato interamente nelle posizioni di Mazzoni (e ne consiglio caldamente la lettura), ma voglio aggiungere alcune altre considerazioni a queste, anche come risposta al problema da cui siamo partiti.

Una delle cose su cui Mazzoni insiste nel suo libro è il fatto che, benché l’istanza espressivista sia già chiara nelle teorizzazioni dei primi romantici, e anche in Leopardi, la poesia ha continuato per molto tempo a muoversi all’interno delle maglie della tradizione. La rottura delle regole metriche, che sancisce definitivamente il dominio del soggetto, avviene solo a fine Ottocento, e comunque in maniera progressiva e bisognosa di continui appoggi nella tradizione stessa: il verso libero di Dino Campana proviene da quello di Walt Whitman, e quello di Whitman a sua volta dalla Bibbia…

Se pure il dominio del soggettivismo (e di conseguenza della lirica) è chiaro nella teoria da molto tempo, come mai i medesimi poeti che lo dichiarano non riescono, se non nel giro di parecchi decenni, a realizzarlo appieno? La risposta facile è che, per un poeta romantico, già il suo livello di violazione della regola è sentito come sufficiente per esprimere la propria soggettività; e che solo quando quella sua violazione diventa, col passare del tempo, a sua volta regola, si sente il bisogno di fare un passo più in là. Questa risposta facile è vera, ma è insufficiente, perché postula che lo sviluppo del soggettivismo stia in una continua violazione della regola al momento data – e che di conseguenza la poesia (come qualsiasi altra arte) non possieda un nucleo storicamente più duro, dandosi solo rispetto alle aspettative del momento.

Io ritengo piuttosto che la poesia possa essere riconosciuta come tale solo quando chi la legge ne riconosce un qualche tipo di valore universale. La natura di questo valore si modifica col tempo; mentre il fatto che ci debba essere è sentito come costante. Il poeta romantico, se vuole sperare che il suo lavoro possa essere riconosciuto come poesia deve necessariamente adeguarlo alle aspettative del suo pubblico, rispetto a quello che il suo pubblico ritiene “valori universali”. Le sue innovazioni sono accettate nella misura in cui sono riconosciute come qualcosa che esprime meglio di prima quegli stessi valori universali. Per questo, si potrà arrivare anche alla distruzione della metrica tradizionale, quando quella metrica inizierà a essere sentita come un vincolo astratto, un ostacolo all’espressione dei valori universali anziché un indispensabile strumento.

È parte cruciale di questa dimensione di universalità percepita anche la natura rituale della testualità poetica, una natura che tradizionalmente è passata in larga misura attraverso le regole del metro, e il conseguente irrigidimento dei ritmi prosodici che ne deriva. Il poeta espressivista ha potuto a un certo punto lavorare contro il metro, ma lo ha potuto fare solo recuperando qualche altro tipo di ritualità (come il versetto biblico per Whitman). Universalità attribuibile e ritualità sono i due scogli con cui si è dovuto variamente misurare l’espressivismo: coloro, tra chi scrive poesia, che non hanno capito che questo è comunque un passaggio obbligato, vanno a riempire la grandissima schiera dei poeti della domenica. Sono le vittime della poetica dell’epressivismo, quelli che hanno creduto davvero che la poesia non sia altro che “esprimere se stessi”.

Ecco però che, a difesa di queste vittime, entra in gioco la preminenza faustiana del fare, o l’inconscio freudiano, o le strutture sociali studiate dall’antropologia. Se infatti proprio nel cuore del soggetto, nel suo fondo più profondo (e “più profondo che non pensi il giorno”, per dirla con lo Zarathustra di Nietzsche), sta un’istanza non soggettiva, naturale o culturale che sia, cioè l’inconscio, le strutture sociali, il DNA, l’azione, allora paradossalmente è proprio esprimendo se stesso che il soggetto può costruire una nuova universalità. Non è più l’universalità delle regole date dalla tradizione, ma quella “spontanea” del buon selvaggio nascosto dentro ciascuno di noi.

Se vediamo le cose in questo modo, abbiamo ancora più ragioni di quanto non ne abbia Mazzoni per riconoscere come lirica anche quello che cerca di spacciarsi oggi come suo superamento o negazione. Se al cuore del soggetto che si esprime liricamente sta un buco di soggettività (alla Nietzsche), allora la sua espressione non sarà né più né meno lirica di quella di chi cerca di “ridurre” quel soggetto (per usare le parole di Alfredo Giuliani nella prefazione ai Novissimi) o di abolirlo attraverso pratiche varie di scrittura automatica o semi-automatica (come il googlism). Non c’è in verità nessun cambio di paradigma in queste pratiche di scrittura, e Mazzoni ha del tutto ragione a denunciarne la soggettiva ricerca di una modalità di espressione diversa, e quindi comunque personale.

Resta il fatto che qualsiasi pratica di scrittura poetica deve confrontarsi con i requisiti di universalità percepita e ritualità. L’esistenza di una non-soggettività (culturale o naturale) nel cuore stesso del soggetto va incontro alla prima. Ma la seconda rimane comunque un banco di prova per la qualità poetica del testo. Si tratta di un banco di prova scivoloso e variabile, perché i riti variano con la collettività stessa. Però, se in principio era l’atto, e questa natura originaria dell’atto deve essere trasmessa dalla poesia, la poesia sarà riconosciuta come tale solo se agisce su di me, e lo fa facendomi sentire parte di un agire condiviso, collettivo. La lirica è la forma (molteplice) che questo agire ha preso negli ultimi secoli.

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Di Goethe, dell’azione e della poesia

Egli sta scritto: “Nel principio era la parola.” (“Im Anfang war das Wort!”) Ecco io sono già impacciato! E chi m’ajuterà ad uscirne? No, io non posso stimare sì alto la parola, e se lo spirito degna illuminarmi mi bisogna tradurre diversamente. Sta scritto: “Nel principio era la mente (der Sinn).” Bada bene al primo verso ve’, che la tua penna non precipiti! può egli la mente tutto produrre e informare? Forse starà meglio così: “Nel principio era la possanza (die Kraft).” Ed ecco pur nell’atto ch’io scrivo questo, io mi sento da non so che avvertire che non devo contentarmene. Or sì il cielo mi aiuta da vero! Io prendo per una volta consiglio, e animosamente scrivo: “Nel principio era l’atto (die Tat).” (Johann Wolfgang von Goethe, Faust, traduzione di Giovita Scalvini, 1835 – da LiberLiber)

Mi sono sempre domandato se Goethe si rendesse conto dell’importanza della sua proposta filosofica, oppure se volesse soltanto mettere in scena un delirio interpretativo da parte di Faust, quando già Mefistofele si trova presso di lui sotto forma di un can barbone, e di lì a poco si manifesterà, e il patto sciagurato tra loro verrà sancito. Seguendo questa seconda ipotesi potremmo prendere le parole di Faust come semplice testimonianza dello stato confuso della sua mente, già votata all’eresia e poco dopo al patto col diavolo. Ma poiché Goethe questa cosa l’ha poi scritta davvero, e sta lì – e pure il suo Faust alla fine si salva (a differenza dei suoi predecessori nella tradizione) – possiamo legittimamente prenderla per buona, e guardarla più da vicino.

Certo, non possiamo prendere davvero le proposte di Faust come traduzioni alternative delle parole di S.Giovanni. Il logos può essere inteso certamente come la parola (il verbo della vulgata), e anche, di conseguenza, come il pensiero. La seconda proposta di Faust è ancora plausibile dunque: qui Sinn viene tradotto come mente, che è corretto, però ancora prima che mente Sinn significa senso, o significato. Pensare che all’inizio di tutto ci stia il senso, o la mente, è ancora coerente con il platonismo di fondo su cui si basa il pensiero cristiano, e la filosofia occidentale sino a Goethe (e ancora dopo di lui).

Ma la terza proposta di traduzione di Faust è già rischiosa: la possanza, o meglio (diremmo oggi) la forza (die Kraft), postula un materialismo agnostico, e pone all’inizio delle cose un puro principio naturale, in maniera del tutto slegata dalla trascendenza. È come dire che al principio di tutto sta l’energia, il Big Bang, il cieco scontrarsi delle forze. È la metafisica dello scientismo, decisamente alternativa a quella, idealistica, che mette al principio il logos (parola o pensiero che sia). In questa terza concezione, il principio non è solo un principio logico, ma anche un principio temporale, l’alba di tutte le forze.

Faust non è però contento, e vuole andare più in là. In principio, dunque, era l’atto, die Tat, cioè l’azione, il fare (tat è anche il passato di tun, cioè fare, e quindi feci, o facevo). Tutto sommato, mettere al principio di tutto la forza significa sovvertire la gerarchia tradizionale, dichiarando una priorità della natura e delle sue leggi sul pensiero; tuttavia i protagonisti tradizionali della riflessione filosofica occidentale (la natura e la nostra conoscenza) rimangono al loro posto, e muta solo il valore dato all’uno piuttosto che all’altro. Un’ontologia materialista, proprio come una spiritualista, vede il mondo in termini di natura e di pensiero che la conosce; solo che anche il pensiero viene pensato come riducibile alla natura – anziché viceversa, come era prima, quando si metteva al primo posto il pensiero assoluto di Dio.

Ma mettere a fondamento di tutto il fare, l’azione, l’atto, è una mossa assolutamente più radicale. Se l’azione si trova al principio, allora non la possiamo considerare come una conseguenza del pensiero, e la dialettica fondante mondo vs conoscenza (con le sue varie soluzioni – materialiste e spiritualiste) va semplicemente a farsi fottere. Se nel principio c’è l’azione, da essa dipendono sia la conoscenza che la natura – con il corollario che ogni tentativo di spiegarla compiutamente è destinato a fallire. Spiegare l’azione vorrebbe infatti dire ricondurla al pensiero o al mondo, ovvero a un sistema cognitivo o naturale. Ma se l’azione si trova al principio, è semmai essa a spiegare il pensiero e il mondo. L’azione in sé però non spiega: fa, e basta.

A meno che non sia, appunto, azione esplicativa. Tuttavia l’azione esplicativa rimane fondante solo finché è in atto, cioè finché resta azione; mentre il suo risultato, cioè la spiegazione (ovvero il pensiero) non è più azione. Mettere l’azione al primo posto, in altre parole, significa postulare un fondo inspiegato e inspiegabile dell’essere: il fallimento stesso, dunque, del pensiero occidentale – una buona ragione, in fin dei conti, per vendere l’anima al diavolo.

Magari Goethe voleva dire altro, o magari stava solo facendo delirare Faust. Sta di fatto però che, via Schopenhauer e Nietzsche, queste riflessioni arrivano trasversalmente sino al medico positivista Sigmund Freud, il quale, quasi senza rendersene conto – e continuando a pensare di agire nei termini di una metafisica della forza (die Kraft) – mette al centro del soggetto un’entità, l’inconscio, che alla fine dei conti non è riconducibile a nulla. Poiché Freud è ancora un materialista, ritiene di poterla spiegare in termini causali (in termini di forze, appunto).

Poiché non possiamo fare a meno di spiegare, presumibilmente la posizione di Freud resta quella corretta, in linea di principio. Postulare l’inconscio vuol dire far fuori infatti con un colpo solo le due prime traduzioni di Faust: in principio non può essere né la parola (Wort) né il senso (o la mente – Sinn), perché entrambe frutto della coscienza; e se esiste l’inconscio, la coscienza non può essere che un concetto emergente.

Eppure la posizione di Freud contiene in sé i germi della propria negazione. Se postuliamo infatti l’inconscio, stiamo dicendo che alla base del nostro agire non sta nessuna spiegazione, perché l’inconscio non spiega, e non contiene spiegazioni. La spiegazione materialista, dunque, potrà magari essere valida, ma non è sufficiente a fondare il nostro agire. L’azione viene dunque necessariamente prima della spiegazione, perché ci può essere sempre qualche sua componente che non può essere riportata a una qualche spiegazione. Postulare l’inconscio vuol dire pensare che in molti casi vengono prima le azioni dell’uomo, e solo poi le loro spiegazioni o motivazioni.

Questo ribalta il tradizionale meccanismo di causa-effetto, senza però sostituirgli nulla (non la causa finale, non il caso…). Che a ogni azione corrisponda una serie di cause si può certo postulare, ma solo in astratto – perché persino il soggetto che ha agito sarà a conoscenza di solo una parte di loro; e la soluzione riduzionista neurologica è in verità troppo complessa per essere veramente percorribile.

Ma, d’altro canto, se davvero assumiamo il primato dell’azione, la spiegazione acquisisce senso solo in prospettiva di un’azione futura. È tutto un gran casino, insomma. Da un lato, infatti, la visione del mondo in termini di natura e conoscenza ci è necessaria (e la filosofia occidentale ha tentato di costruirla al meglio per venticinque secoli); dall’altro, la priorità dell’azione ce la rende falsa, vacua, utile solo localmente.

Ma non è tutto merito di Freud. La scoperta dell’inconscio ci ha permesso di mettere in dubbio l’esistenza del soggetto medesimo (quello che S.Agostino e Cartesio prendevano come base certa, attraverso l’atto stesso del dubitare), ma Freud fatica ad abbandonare l’io, e continua a cercarne delle tracce in profondità. Più radicali in questo senso sono certamente Jung e Lacan.

Antropologia e sociologia hanno spesso assunto di fatto la presenza di una dimensione non di pensiero al cuore dei processi stessi del pensiero – una posizione che, per quanto riguarda il nostro discorso, è diversa da quella della psicoanalisi solo metodologicamente. Senza parlare di io e di Es, anche qui il soggetto si trova dissolto, e con lui il concetto stesso di parola, di senso, di spiegazione.

Ma la conclusione di Faust non può davvero dare origine a una disciplina cognitiva, scienza o filosofia che sia. Una disciplina del sapere non può accettare veramente una preminenza diversa da quella del sapere stesso. Per bene che vada, una disciplina cognitiva potrà giusto ammettere di ritrovarsi localmente confusa.

Goethe non era un filosofo, infatti, bensì un poeta. Se manteniamo centrale questa considerazione, potremo pensare che dichiarare la preminenza del fare sul conoscere significa lanciare un monito, un monito nei confronti di chi legge la poesia come se fosse filosofia, cioè (tentativo di) spiegazione, riflessione, pensiero, parola che definisce. Se la poesia manifesta la priorità, le preminenza del fare, essa riproduce in qualche modo la fattività del mondo, senza necessariamente descriverla.

In altre parole, non è che la poesia non possa descrivere o spiegare, ma, in tal caso, quello che conta è il fatto che essa sta descrivendo o spiegando, e non ciò che vi si trova descritto o spiegato. Se nel principio c’era l’azione, quello che conta è quello che la poesia fa, non quello che dice, o comunica: lo farà magari anche dicendo o comunicando qualcosa, ma quelli sono semplicemente modi del suo fare, non la sua essenza.

Goethe, attraverso Faust, potrebbe dunque stare allertandoci proprio sulla natura non cognitiva della poesia (e delle arti in genere). La poesia è essenzialmente un’azione (poiein), molto prima e molto di più di quanto non sia comunicazione. Per questo, per capirne la natura non abbiamo davvero bisogno di mettere in gioco le problematiche del soggetto (che è un’entità cruciale per la parola e per il senso – ma non per l’azione). Naturalmente, cercare di capire la natura della poesia è già un ricondurla al cognitivo – e quindi un inevitabile sviamento. Dovremmo limitarci a leggerla, e quindi a viverla! Ma noi abbiamo bisogno di spiegazioni, a costo di ingarbugliarci tra le contraddizioni.

La poesia, dunque, sarebbe tale proprio perché mette fuori gioco la trasmissione del sapere tra soggetto e soggetto. In questo senso non è solo performativa, o perlocutiva, perché nelle definizioni di performatività e perlocutività i soggetti vengono comunque messi in gioco. E tuttavia la si potrebbe davvero prendere come modello di un certo modo di usare il linguaggio, un modo che veda il linguaggio come prassi sociale, come modo non tanto di comunicare quanto di produrre un qualche tipo di consonanza, di accordo, di Stimmung.

È singolare comunque che l’epoca in cui Goethe fa dire queste cose al suo Faust sia anche quella che inaugura, in poesia, il dominio della lirica, ovvero di una forma di poesia che ha al suo centro proprio il soggetto, e la comunicazione del suo sentire nei confronti di altri soggetti. Da questo punto di vista, la lirica sembrerebbe piuttosto presupporre una metafisica centrata sul senso (Sinn), o sulla parola (Wort) in quanto strumento per comunicare. Ma questo potrebbe essere il tema di un prossimo post.


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Del diritto della poesia a essere incomprensibile

La poesia ha diritto a essere, se non incomprensibile, almeno molto poco comprensibile. È un diritto che la prosa non ha, perché la sua natura è diversa.

Sto parlando di diritti: non di stati di fatto e nemmeno di opportunità. Nello stato di fatto molta poesia (fortunatamente) non sfrutta questo diritto; e quanto all’opportunità sono dell’opinione che si tratta di un diritto che la poesia dovrebbe sfruttare il meno possibile. Ma un diritto è un diritto, che si rivela importante solo quando ce n’è bisogno. Dei diritti si può anche abusare, ma questo rientra nel campo dell’opportunità, non del diritto stesso.

La poesia ha diritto a essere (quasi) incomprensibile in un senso più forte di quello per cui diciamo che ciascuno di noi ha diritto di scrivere quello che gli pare ma poi se quello che scrive è incomprensibile non si può lamentare se nessuno lo legge. La poesia (quasi) incomprensibile ha il diritto di essere letta, ed eventualmente apprezzata se se lo merita – un diritto che la prosa non condivide, a meno che non sia (magari) poesia camuffata.

Al centro della prosa sta un discorso, che a volte è un’argomentazione (come questa) e a volte è un racconto; sta cioè un tentativo di trasmettere contenuti sufficientemente precisi da un soggetto della comunicazione a un altro. Al centro della poesia sta un ritmo, ovvero un’azione di carattere rituale, che ha come fine di indurre uno stato emotivo-partecipativo.

La presenza di un discorso, ovviamente, non è esclusa dalla poesia, però è accessoria, non cruciale. Leggiamo di solito le poesie come discorsi perché siamo abituati a pensare la parola come qualcosa che serve per veicolare discorsi. Indubbiamente la parola serve a questo, però non solo a questo, come sa ogni buon credente che partecipi a un rito religioso: nella consacrazione dell’ostia, per esempio, non c’è nessun discorso; le parole servono piuttosto per produrre la transustanziazione. Lo fanno in virtù del loro potere rituale, ovvero del fatto che intorno a esse si verifica una Stimmung, una accordatura della comunità concelebrante. Se io non ne faccio parte – perché sono magari un antropologo che sta studiando i riti locali – non sarò nemmeno capace di entrare nel rito; e magari allora davvero per me quelle parole saranno intese come parole che intendono trasmettere un discorso, e finirò forse per pensare che si tratta di un discorso privo di senso. Non avrò magari nemmeno tutti i torti: quelle parole hanno davvero poco senso, ma non perché chi le produce e chi partecipa al rito siano scemi o primitivi, bensì perché quelle parole non intendono averlo, il senso, non sono fatte per averlo, non intendono trasmettere nessun discorso.

La poesia funziona allo stesso modo. Il senso complessivo ci può essere, naturalmente, ma può anche permettersi di essere scemo o primitivo, perché non è quello il fulcro dell’operazione poetica. E l’azione ritmica che la poesia mette in gioco riguarda il senso delle parole non meno di quanto riguardi il suono. La poesia non è la musica, e i suoni di cui fa uso, essendo parole, sono già all’origine dotati di senso. Più che un discorso coerente, la poesia è tenuta a produrre un ritmo coerente (nel senso tanto quanto nel suono, o nella loro interazione), ovvero a permetterci di entrare, almeno virtualmente, in una situazione rituale, cioè condivisa, di carattere immersivo.

Per questo la poesia ha diritto di essere (quasi) incomprensibile, dove quel quasi dipende dalla natura delle parole e dall’esistenza di un loro senso di base, un senso che non può andare perduto: se il ritmo dev’essere ritmo anche del senso, un qualche senso (non necessariamente così coerente da trasmettere complessivamente un discorso) ci dev’essere per forza. Dal mio specifico punto di vista, di singola persona, una poesia scritta in una lingua che non conosco non è nemmeno una poesia, nemmeno se la sento recitata ad alta voce: per bene che vada sarà magari musica – ma di solito nemmeno quello.

La poesia ha dunque diritto alla (quasi) incomprensibilità perché il discorso non è al suo centro, perché l’eventuale significato complessivo è un effetto collaterale della sua efficacia rituale, e perché la poesia è ambigua per natura (proprio per questi motivi) e non si risolve mai in nessuna delle sue spiegazioni.

Quanto all’opportunità di essere poco comprensibili, piuttosto, la questione è diversa. Il celebrante che consacra l’ostia non emette parole incomprensibili; esse sono semmai irrilevanti quanto al loro senso, perfettamente noto a chi le ascolta nel rito. Sono state però incomprensibili per secoli, almeno alla maggioranza dei partecipanti al rito, sinché venivano dette in latino; tuttavia il rito funzionava lo stesso, forse addirittura meglio, sostiene qualcuno. La traduzione in italiano produce comunque la sensazione di una partecipazione più attiva, più consapevole.

In poesia succede qualcosa di simile. Entriamo più facilmente in un testo se abbiamo la sensazione di seguirne il discorso, e la poesia non fa eccezione. Per molti lettori, poi, specie se poco avvezzi alla poesia, se non c’è discorso non c’è nemmeno testo, e si abbandona presto la lettura di una siffatta assurdità. Se accettiamo che il discorso possa non essere coglibile, dobbiamo essere molto più disponibili alla sua ricerca, e persino al fallimento di questa ricerca.

La consapevolezza della natura rituale della poesia è quasi scomparsa dal nostro presente. In un mondo in cui tutto è spiegazione o spiegato, rimane poco spazio per la presentazione dell’inspiegato o inspiegabile. Jacques Lacan parlava da qualche parte degli dei come proiezione del reale, e il reale non era per lui la realtà, bensì quegli aspetti del mondo e della nostra vita che nessuna spiegazione razionale è in grado di farci accettare: come la morte, per esempio.

La poesia, nel suo piccolo, adempie alla medesima funzione di contatto col reale, con l’inspiegabile, con ciò che non può essere ricondotto alla ragione. Darle una patina di senso, ricoprirla di un discorso, travestirla parzialmente da prosa (cioè da discorso razionale) può certamente aiutare ad avvicinarci alla dimensione (terribile) del reale. Ma è solo uno (spesso indispensabile) stratagemma seduttivo. Le poesie che ci prendono, che ci restano in mente, che ci emozionano, non sono alla fine quelle che fanno dei bei discorsi, o dei discorsi con cui siamo d’accordo. Quella è retorica, magari positiva, magari condivisibile; ma la poesia è altro.

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Del divertimento, dell’intrattenimento, dell’evasione…

Leggo fumetti, leggo poesie, vado al cinema perché mi diverto. Non c’è dubbio in proposito. Ma forse è un modo un po’ superficiale di spiegare le cose. Non qualsiasi fumetto, o poesia o film o altro mi diverte; non qualsiasi fumetto, o poesia o film o altro che mi piace mi diverte; non qualsiasi fumetto, o poesia o film o altro che mi diverte mi piace.

Non sempre le parole divertire e divertimento hanno avuto il senso odierno (più o meno) di dilettare e diletto, o di sollazzare e sollazzo. Del significato antico restano tracce in alcuni linguaggi tecnici, come quello musicale: in certe forme musicali, il divertimento non è una parte più allegra, bensì una sezione in cui ci si allontana particolarmente dal soggetto o dal tema principale, salvo in seguito ritornarvi. Oggi dovremmo forse usare, per capirci meglio, la parola diversione; e divergere per quello che era divertire.

Si sa come nascono le parole nuove. C’è un uso inizialmente metaforico, che si diffonde e progressivamente diventa standard: nel divertimento di oggi il senso di diversione non lo percepisce più nessuno.

Un poco più onesto è forse il termine intrattenimento, dove con poco sforzo si riesce a cogliere il senso originario di tenere (o trattenere) dentro, ovvero quello che si fa per evitare che qualcuno se ne vada. E ancora più onesto (e di conseguenza molto meno usato) è il termine evasione, che ancora mantiene forte il significato di fuga da un luogo chiuso, per cui ci accorgiamo che quando lo usiamo in espressioni come letteratura d’evasione si tratta di una metafora, attraverso la quale si dipinge la vita quotidiana come un luogo oppressivo da cui è però possibile fuggire.

Se percepissimo ancora il senso originale di divertimento come diversione, probabilmente ci renderemmo conto che le sue implicazioni non sono molto diverse da quelle di evasione. Divertirsi è divergere dalla noia o dal dolore della quotidianità; è fare una diversione rispetto a una vita quotidiana che non ci soddisfa – anche se, lo sappiamo, siano condannati a ritornarvi presto. In fin dei conti, le diversioni non sono vere evasioni, e nemmeno le evasioni letterarie (o televisive) sono vere evasioni.

Ecco quindi che mi preoccupo nello scoprire che leggo fumetti, poesie ecc. perché mi diverto. Sarebbe come dire che il piacere che queste fruizioni producono in me deriva dal fatto che sto momentaneamente evadendo dalla mia gabbia quotidiana. In altre parole, l’ideologia del divertimento ha bisogno di sostenere che la vita è una cacca, e che l’unico modo per provare piacere è fare una diversione, spostarsi momentaneamente nell’altrove.

Ma è davvero così?

Proviamo a guardare le cose più da vicino. Tra le cose che ci divertono ci sono senz’altro quelle che ci fanno ridere. Ma non si ride senza che ci sia una complicità e un accordo di fondo. Questo è talmente vero che far ridere qualcuno è anche un modo per crearli, questa complicità e questo accordo di fondo – come sa benissimo il grande barzellettiere che regge le sorti di questo paese. Ma se c’è complicità e accordo di fondo, su che cosa si basa la diversione, cioè il divertimento? Credo che le cose stiano così: l’accordo di fondo ci tranquillizza (non c’è nulla di pericoloso in gioco), per cui si può parlare e dire davvero qualsiasi cosa, anche quelle che altrimenti non diremmo mai. Ecco il senso della diversione, cioè del divertimento: nella cornice rassicurante dell’accordo, può venir fuori l’assurdità e paradossalità di tante cose.

La diversione c’è, senza dubbio, ma neutralizzata dalla complicità e dall’accordo di fondo: c’è perché non è pericolosa. La risata del divertimento non ha niente a che fare con l’utopia anarchica di “una risata vi seppellirà”. Il divertimento non seppellisce niente, perché quello che vi appare oggetto di critica è già stato rafforzato all’origine.

Quando poi si costruisce un impero mediatico sul divertimento, si stanno saldamente impiantando dei valori: non quelli presi in giro in superficie, ma quelli condivisi nel fondo. Ho seguito recentemente un po’ di striscio una polemica su Drive In, trasmissione paleoberlusconiana che molti difendono oggi perché era una presa in giro, anzi una intelligente presa in giro, della comunicazione televisiva. Sarà. Non voglio prendere una posizione netta, perché ne ricordo ben poco: Drive In mi annoiava già allora (molto meglio la surreale insipienza di Colpo Grosso, che non si ammantava di nulla, e sviliva la donna italiana con candida sincerità) e non lo guardavo praticamente mai. Voglio solo avanzare il sospetto che quella intelligente presa in giro si basasse sulla conferma profonda di una serie di valori (che sono poi stati quelli su cui si è fondata la fortuna del grande barzellettiere) mentre in superficie (e in maniera evidentemente più effimera) se ne condannavano altri.

Dove il divertimento diventa il valore principale della vita, ci si dovrebbe domandare da cosa ancora si stia divergendo. Ha buon gioco, il grande barzellettiere, a suggerire continuamente da che cosa si debba evadere (tasse a parte): i comunisti, le toghe rosse, i moralisti, i perbenisti… Dio mio! Eccomi ridotto, nel mondo costruito da lui, a fare proprio la parte del vecchio moralista! E pur di dargli addosso, devo arrivare persino a parlar male del divertimento! (il che confermerà oltre ogni dubbio, con sicurezza, che sono un vecchio moralista!) Certo, all’interno del suo mondo o si è puttane (letterali o metaforiche) o si è moralisti. Le puttane (soprattutto quelle metaforiche) si divertono; e chi non si diverte non ha capito che si trattava di una battuta.

Vorrei divertirmi anch’io. Lo faccio, quando riesco, anche evitando di pensare al grande barzellettiere. Ma che triste divertimento! Mi viene in mente Palazzeschi. Lo riporto qui sotto. Provate a rileggerlo pensando al divertimento come diversione, al poeta come qualsiasi persona intelligente con qualche velleità creativa sincera, e magari facendo finta che questi versi siano stati scritti oggi. Una poesia tragica, direi! (sembra quasi la sinistra italiana)

__________________________________________

E lasciatemi divertire
(canzonetta di Aldo Palazzeschi, 1910)

Tri tri tri,
fru fru fru,
ihu ihu ihu,
uhi uhi uhi!

Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!

Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche!
Sono la mia passione.

Farafarafarafa,
tarataratarata,
paraparaparapa,
laralaralarala!

Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura
delle altre poesie

Bubububu,
fufufufu.
Friu!
Friu!

Ma se d’un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?

bilobilobilobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!
Bilolù. Filolù.
U.

Non è vero che non voglion dire,
voglion dire qualcosa.
Voglion dire…
come quando uno
si mette a cantare
senza saper le parole.
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare.

Aaaaa!
Eeeee!
Iiiii!
Ooooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!

Ma giovanotto,
ditemi un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con così poco
tenere alimentato
un sì gran foco?

Huisc…Huiusc…
Sciu sciu sciu,
koku koku koku.

Ma come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate in giapponese.

Abì, alì, alarì.
Riririri!
Ri.

Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro,
gli daranno del somaro.

Labala
falala
falala
eppoi lala.
Lalala lalala.

Certo è un azzardo un po’ forte,
scrivere delle cose così,
che ci son professori oggidì
a tutte le porte.

Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!

Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!

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Di “Guardare e leggere”, che non è solo un blog

Guardare e leggere. La copertina

Guardare e leggere. La copertina

Be’, sì, è in libreria. L’altro giorno, quando ho detto a un mio amico che stava per uscire, lui mi ha chiesto: “E il blog l’hai fatto?”. Ho avuto un momento di perplessità. Ovviamente lui si riferiva al fatto che ormai quando si pubblica un libro si crea anche il blog per riparlare ed espandere i suoi temi. Ma io il blog ce l’ho già. Anzi è venuto al mondo un anno prima del libro. Un blog ha però una gestazione breve, mentre un libro ce l’ha decisamente più lunga. Il libro in verità esisteva già prima del blog, e il nome che a suo tempo ho dato al blog era anche augurale per il libro. Quindi, in fin dei conti, al mio amico ho risposto “Sì”.

Il libro è più specifico del blog, come è giusto. Se volete sbirciare indice e introduzione potete andare qui.

Mi sento un po’ come quelli che dal romanzo è uscito il film, o dal film il fumetto, o dal fumetto il romanzo. Il blog non cambierà, ma se qualcuno mi propone qualche tema di cui nel libro si parla, può essere una buona occasione per tornarci sopra.

Per adesso, ne parlo pubblicamente in un incontro nell’ambito del festival del fumetto Bilbolbul, sabato mattina 5 marzo alle 11.30 alla libreria Irnerio (via Irnerio 27) a Bologna, con Luca Raffaelli. Spero di vedervi tutti.

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Di John Coltrane, del significato e dell’ascolto

Ho partecipato, negli ultimi anni, a diversi convegni dove si è parlato del tema del significato della musica, ho scritto articoli e curato libri dove se ne parla. Continuo a pensare che il tema sia importante e che la musica possa avere un significato nel senso in cui ce l’hanno altre forme espressive. Mi ritrovo però progressivamente più scettico sul fatto che alla musica si debba comunque trovare un significato.

Naturalmente, un brano musicale può avere un significato perché, molto banalmente, qualsiasi cosa prodotta dall’uomo lo può avere. Come detta un vecchio e sempre valido adagio di un grande guru della comunicazione (Paul Watzlawick), non possiamo non comunicare. Questo vuol dire che anche in un brano di musica possiamo trovare intenzioni comunicative, ed è pure giusto attivarci per farlo.

Tuttavia, la mia impressione è che non sia questo il modo corrente in cui noi ascoltiamo musica, o perlomeno che il nostro modo di ascoltare musica non si esaurisca affatto in questo. Anche se la musica colta occidentale si è evoluta negli ultimi secoli in modo da costituire una forma di discorso (richiedendo dunque una ricezione che mette in gioco questioni di significato), la musica che l’ha preceduta, e quella di altre culture che si è evoluta indipendentemente dalla nostra, non ha necessariamente seguito la medesima strada. Inoltre, anche nella musica colta occidentale restano in gioco una quantità di componenti che non chiamano in gioco necessariamente la dimensione del significato.

Intendere la musica come portatrice di significato rappresenta indubbiamente un grande vantaggio per la critica, la quale, esprimendosi attraverso parole, vive per sua natura nella dimensione del significato. Valutare la musica nei termini di quello che “ci vuol dire”, e valorizzarla in relazione ai valori che essa trasmetterebbe, è una mossa che permette alla critica di svilupparsi al meglio, riducendo l’ascolto musicale alla percezione di quei valori e del modo in cui verrebbero trasmessi. D’altra parte, una musica che debba convivere con una critica di questo tipo trarrà vantaggio dall’apparire maggiormente discorsiva, maggiormente propensa a trasmettere valori.

Devo puntualizzare che sto parlando di musica pura, strumentale. Se c’è di mezzo la parola, o una dimensione scenica, l’universo del significato è già legittimamente entrato in gioco in altro modo, e l’invito a leggere la musica in questa medesima dimensione è naturalmente molto più forte e giustificato. Pure qui, va detto, la questione non si esaurirebbe con questo – ma non ne voglio parlare in questa sede.

Per entrare più nello specifico della questione, sulla musica pura, un aspetto che, a mio parere, per esempio, caratterizza il jazz, è quello di aver coniugato la tradizione occidentale colta della musica-come-discorso con altre componenti di origine popolare ed etnica, che si sono evolute al di fuori di questo ambito. Quando ascolto John Coltrane, la qualità del suo fraseggiare, delle sue invenzioni melodiche e del modo in cui porta avanti le proprie sequenze di note sono tutti elementi di carattere “discorsivo” che indubbiamente fanno parte del piacere che la sua musica mi procura. Il suo modo di passare da dimensioni liriche a dimensioni rabbiose, trasognate, appassionate, frenetiche, distese e così via, fa parte di quello che Coltrane mi trasmette, e non c’è dubbio che io ami la sua musica anche per quello.

Ma tutto questo non mi spiega come mai io possa restare attaccato alla voce del suo sax anche dopo aver sentito per caso due sole note, e ancora prima che qualcosa mi si illumini in testa, quasi esclamando “Coltrane!” – perché quel qualcosa che mi si illumina è l’effetto e non la causa del piacere improvviso.

Certo, persino quelle due note di sax afferrate per caso possono essere interpretate come portatrici di significato. Ci sono belle pagine di Davide Sparti (Il corpo sonoro, 2007) sulla capacità di Coltrane di ricreare l’emotività della voce umana attraverso il semplice modo di emettere il suono attraverso l’ancia nel tubo del sax. Seguendo questa intuizione, pure quelle due note sarebbero portatrici di significato. Dovremmo allora dire che l’intonazione di Coltrane rimanda a quella della voce, e ai significati che le associamo normalmente? Forse sì.

Eppure, quando si dice che io assomiglio a mio fratello non si vuol dire che io ho senso in quanto assomiglio a lui, e rimando semanticamente a lui e di conseguenza ai suoi significati. Se io assomiglio a mio fratello non sono un segno di lui più di quanto lui non sia un segno di me. Allo stesso modo, le due note di Coltrane non rimandano alla voce umana più di quanto essa non rimandi a loro. Dovremmo allora dire che sia le note che la voce portano senso allo stesso modo, in maniera parallela, e che la somiglianza è un semplice suggerimento di trovare nelle note quello che troviamo nella voce.

Ma se dal modo di intonare le note passiamo alla melodia, dove finisce la somiglianza? A un’altra melodia, che ripropone il medesimo problema un po’ più in là? O magari all’andamento del mio corpo, come tende a fare una certa musicologia recente? Tuttavia, se metto in gioco l’andamento del corpo, devo davvero continuare a parlare di rimando semiotico, o non sarà piuttosto altro, quello che è in gioco? Prima di rimandare all’andamento del mio corpo, la mia sensazione è che la musica di Coltrane lo produca, lo provochi. Prima di un meccanismo di rimando segnico sembra entrare in gioco un meccanismo di sintonizzazione, di compartecipazione, di “fare insieme la stessa cosa”. Persino nell’effetto delle due note e della voce, di cui parlavamo sopra, potrebbe giocare allora questa stessa sintonizzazione, il porsi nel medesimo mood.

Certo, c’è comunque di mezzo il riconoscimento: se non riconosco qualcosa come note o voce, o come melodia, non avverrà nessuna sintonizzazione. E se lo riconosco, l’ho già riconosciuto come qualcosa, e l’ho già fatto rientrare in un universo di senso. La mia sensazione è però che la dimensione del significato a cui la musica non può non essere ricondotta si esaurisca qui (mentre quella a cui può essere ricondotta non si esaurisce né qui né mai). In altre parole, la prima funzione del mio godimento nei confronti della musica di Coltrane (e di tanta altra musica di cui godo, ovviamente) starebbe nella sintonizzazione che essa produce in me, e nel percorso su cui, attraverso questa sintonizzazione, io vengo condotto. Se rifletto su questo percorso, poi, la dimensione del significato può incominciare a dispiegarsi, e da questo momento senza fine. Ma se io non sono un critico musicale, quanto ho bisogno di riflettere sul percorso? Lo vivo, piuttosto, e basta. Mi lascio percorrere, piuttosto, e basta. Approfitto di questa occasione per vivere, attraverso questo percorso, delle esperienze altrimenti ben più pericolose. Nel percorso posso trovare, certamente, degli effetti di senso – ma io ci sono già dentro, nel percorso, ancora prima di trovarli.

Non è il ritmo, non è il timbro o la melodia a produrre questi effetti, non sono quelle componenti della musica che la critica tradizionale definisce “sensuali” – anche se certamente ritmo, timbro e melodia giocano la loro parte. Ho parlato di Coltrane perché la sua musica, il suo jazz, riesce a essere insieme trascinante e intellettuale. Certo, nella musica di Pierre Boulez la componente intellettuale, discorsiva, ha un ruolo di base più importante, ma proprio perché è musica, e non prosa critica, pure con i pezzi di Boulez, quando li si sa ascoltare, si può essere travolti, trascinati, ci si può ritrovare immersi.

Senza immersione, e sintonizzazione, non c’è godimento estetico, né in musica né altrove. Immersione e sintonizzazione sono due tipi di azione. La comprensione è spesso di grande importanza per l’azione, ma è una cosa diversa, che non può essere confusa con lei. Confondere l’agire con il comprendere ci porta a confondere la fruizione con la critica.

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Dei paradossi, dei sogni e di Facebook

Mi accorgo di essere piuttosto sensibile, in questi giorni, al tema dell’autoriferimento paradossale, quello del Don Chisciotte di Borges che legge le proprie avventure scritte da Cervantes. È il tema tradizionale della mise en abîme, del precipizio ottico scatenato dagli specchi contrapposti, quella cosa che ci fa domandare, come suggerisce Borges, se non siamo pure noi stessi una delle finzioni nel gioco. Oppure – quasi al contrario – forse è quel tema che dovrebbe essere preso (magari proprio per il medesimo farci sorgere quella domanda) come un chiaro indizio di finzione – perché solo nei mondi riflessi o di finzione ci si domanda se ci troviamo nel reale. Questo succede, io credo, perché il reale su cui ci poniamo domande è a sua volta il frutto di un’astrazione, e in particolare il frutto di un’astrazione linguistica, facilmente allargata poi anche a tipi di narrazione e di discorso di carattere maggiormente visivo.

Come dire che la domanda di Borges ha senso perché quando ragioniamo del reale in quei termini, il reale stesso è diventato un’astrazione; è diventato cioè la nostra concettualizzazione del mondo della nostra esperienza. Ed è questo che fa sì che abbiano senso teorie logiche come quella cosiddetta dei Mondi Possibili (base delle versioni moderne della logica modale).

Quando smettiamo di ragionare, il problema scompare. Tutte le arti di carattere narrativo hanno la possibilità di giocare su questo paradosso, e tuttavia esso è estraneo, per esempio, alla musica pura e alla pittura astratta; è cioè estraneo a quelle situazioni che ci chiedono più di metterci in sintonia che di comprendere concettualmente.

Perché allora il tema di Borges mi affascina tanto? Probabilmente è proprio il fascino del paradosso, ovvero di quelle situazioni estreme in cui la ragione si ingarbuglia da sola, e non è in grado di dire con certezza se Epimenide il cretese (che afferma che tutti i cretesi mentono sempre) stia mentendo o no: se dice la verità, poiché è un cretese pure lui, allora sta mentendo; e solo se sta mentendo allora può dire la verità.

Nella vita quotidiana non ci domanderemmo mai se non ci sia qualcuno che ci sta leggendo, o che ci sta sognando. Siamo troppo impegnati nel fare e nel sentire, nell’andare a tempo col mondo. Ed è quella la realtà

Ma quando la vita quotidiana viene vissuta attraverso il Web, magari scrivendo un blog, o stando attaccati a Facebook, il problema se ci sia qualcuno che ci sta leggendo non è più così peregrino. Anzi, è il problema cruciale, la condizione sine qua non per esistere. Se nessuno ci legge, nel Web non esistiamo. Parafrasando l’arcivescovo Berkeley, essere è essere letti (e di conseguenza percepiti).

Potremmo dire che la vita nel Web è una sorta di letteratura condivisa e interattiva, di cui siamo protagonisti e lettori, e, proprio come Don Chisciotte, esistiamo quando qualcun altro scrive di noi e lo possiamo leggere.

Tutto questo è importante e insieme anche irrilevante, perché di nuovo un tale gioco irreale di specchi che riflettono specchi di noi stessi e degli altri ci appare davvero reale non quando siamo in grado di dire di essere reali perché altri ci leggono, ma quando di fatto pure nel Web (magari proprio perché qualcuno ci sta leggendo) ci sentiamo vivere, quando abbiamo la sensazione di essere a tempo, di nuotare nel flusso, di vibrare col ritmo di fondo.

Sarebbe fantastico poter vivere solo di queste sensazioni, indipendentemente dalle loro ragioni. Se non fosse che, come in una Matrix non cinematografica, queste sensazioni possono essere controllate, e davvero possiamo ritrovarci a essere scritti del tutto da qualcun altro. È proprio in questo caso che la nostra concezione razionale della realtà (con tutti i paradossi cui va soggetta) finisce per essere l’unico paletto sufficientemente solido, quello a cui dobbiamo la nostra sopravvivenza nel mondo, anche se (forse) non il nostro piacere.

Chi non ha ancora capito questo continua a pensare che sia meglio sognare con l’uomo del destino del momento piuttosto che vedere l’abisso di squallore in cui quel medesimo uomo ci ha gettato, e quanto quel mondo favoleggiato da lui sia lontano da quello che la nostra ragione ritiene reale. La comunicazione del Web crea indubbiamente un sacco di problemi al nostro senso di realtà, eppure la sua natura scritta la rende comunque molto più prossima alle valutazioni razionali di quanto non accada, per esempio, con la TV. Per quanto Facebook ci possa alienare, insomma, ci manterrà sempre più a contatto dei paradossi di Borges di quanto non faccia l’alienazione televisiva.

Orà dirò una cosa che va presa con le pinze, perché i controesempi sono tanti, e la realtà è più complessa, e le singole persone possono essere spesso sia qualcosa sia il suo contrario; eppure, in linea di massima, la mia sensazione è che o si vota l’uomo del destino o si è utenti attivi del Web; o si è sognatori catodici oppure si scrive e si discute.

I paradossi mi piacciono, ma solo se potessi essere al sicuro da tutti i Berlusconi del mondo mi potrei abbandonare alla loro (razionalissima) assurdità. Magari mi intrigano così tanto in questi giorni proprio perché, in maniera (razionalmente) contorta, evocano questo sogno, quello di una realtà a cui potersi lasciare un po’ andare, senza doverci domandare chi ci stia leggendo ora, ma anche senza il rischio di nani maligni a controllarla.

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Della poesia, della prosa, della critica e del Web

Mi guardo intorno, anzi sarebbe meglio dire mi leggo intorno. Leggo su questo schermo blog di diversi tipi, di diversi argomenti. Nei blog dove si ragiona di poesia mi colpiscono in questi giorni tre post differenti, ma che girano attorno a un tema solo, o forse (meglio) a temi diversi con una radice unificante; uno è quello di Paolo Zublena su punto critico, Esiste (ancora) la poesia in prosa?, un altro è quello di Massimiliano Manganelli su Absoluteville, La poesia contro il romanzo, e il terzo, ancora su Absoluteville, solo in apparenza di tema differente, è quello di Rosaria Lo Russo, Scrivere sotto dittatura; tutti con i relativi commenti.

Il tema unificante a cui girano attorno è che cosa sia questa roba che chiamiamo poesia, e in particolare che cosa sia rispetto a quell’altra roba che, per contrasto, si chiama prosa, ed è soprattutto, nel mondo di oggi, romanzo. Non è, io credo, una questione di vincoli maggiori o minori; semmai di quali vincoli. Un commentatore del post di Zublena (Gianluca Garrapa) suggerisce di assumere una regola arbitraria, tipo i 140 caratteri di Twitter “come fosse una regola (quasi oulipo) di versificazione e stare quindi nella ‘poesia’ in una più ampia, però, struttura narrativa_di_prosa. come se insomma ‘macroscopicamente’ fosse prosa e ‘microscopicamente’ poesia”. Mi pare una proposta che può essere magari interessante per fare degli esperimenti (tipo Oulipo, appunto), ma che con la poesia non ha niente a che spartire, in sé (anche se ci si può porre come sfida di scrivere poesia sottostando pure a un vincolo come quello).

Mi sento semmai più in sintonia con Rosaria Lo Russo, che parla di dettatura (o dittatura) del corpo ispirato. Forse la Lo Russo pone troppo l’accento sul corpo (ma lo scrive in un post, non in un trattato, e non si può sottilizzare troppo in poche righe), perché la poesia, da diversi secoli a questa parte, non è solo vocalità. Però io trovo che sostanzialmente abbia ragione, e che nella poesia sia presente una dinamica fisica, o fisiologica, di carattere principalmente vocale-sonoro, ma anche secondariamente (a mio parere) grafico-visivo, che non si può eliminare, se non uscendo dai suoi confini.

Lo dice bene Paul Valery, citato da un altro commentatore del post di Zublena (Luigi Bosco): “L’essenza della prosa è di perire, – cioè di essere «compresa», – cioè di essere dissolta, distrutta in modo irreparabile, del tutto sostituita dall’immagine o dall’impulso che essa significa secondo la convenzione del linguaggio. Infatti la prosa sottintende sempre l’universo dell’esperienza e degli atti, – universo nel quale, – o grazie al quale, – le nostre percezioni e le nostre azioni o emozioni devono alla fine corrispondersi o rispondersi in un solo modo, – uniformemente. L’universo pratico si riduce a un insieme di scopi. Ottenuto tale scopo, la parola muore”. Come dire che, nella prosa, la parola si esaurisce nella trasmissione del proprio significato, e si legge unicamente per capire: tutto il resto, compreso tutto il sentire emotivo che eventualmente ne deriva, passa completamente da lì, dalla comprensione della sequenza di parole. Viceversa, nella poesia la parola resiste alla comprensione del suo significato, e il suo suono traccia altre relazioni, che si accompagnano a quelle del significato, e non si esauriscono in quelle.

La comprensione (anche profonda) del significato di una poesia è ben lontana dall’esaurirla. Con forme differenti, la poesia condivide con la musica l’irriducibilità al senso – pur essendogli più vicina di quanto non gli sia la musica, per la sua natura ovviamente verbale. Qualche giorno fa scrivevo (qui) che “la poesia è un meccanismo che mette in relazione il nostro sentire personale, privato, intimo, con quello collettivo e sociale, fatto di tradizione e di regole e di consuetudini e di stratificazioni”. Potrei aggiungere, esagerando e semplificando, che il sentire personale è legato al senso, al significato, mentre quello collettivo è legato agli aspetti ritmici e sonori. Starei esagerando e semplificando perché le relazioni sono molto più complesse di così, ma non starei mancando del tutto il bersaglio.

In altri termini, potrei anche dire che la poesia è un meccanismo che mette in relazione il significato verbale con altre reti di relazioni, non necessariamente riducibili, nemmeno in ultima istanza, al significato verbale stesso. Se tale riduzione fosse possibile, una buona interpretazione di un testo poetico lo esaurirebbe (come sembra aver ipotizzato qualcuno in epoca neoavanguardista, secondo il racconto, ancora su punto critico, di Antonio Loreto).

In verità, anche Valery sta esagerando e semplificando. Persino la prosa non si esaurisce del tutto nel suo significato, anche se certo il valore sonoro (o visivo) delle parole è estremamente minore di quello della poesia. Proprio per questo è virtualmente possibile costruire della prosa che conservi i valori della poesia di non riducibilità al significato. Ma non ha tutti i torti Zublena a ritenere la poesia in prosa un’operazione che ha avuto valore storico, un valore oggi del tutto superato (i grassetti della citazione sono miei):

Questo non vuol dire ovviamente che i generi letterari dagli anni ’60 in poi si siano dissolti. Anzi. Sarebbe però ingenuo allo stato attuale considerarli qualcosa di più di dispositivi pragmatici che inquadrano un patto di lettura tra autore e lettore, o ancor meglio tra autore e lettore implicito nell’orizzonte di attesa contemporaneo. Ma questi dispositivi pragmatici sono in primo luogo sopravvivenze di istituti teorici (e normativi) del passato la cui portata si è spostata dal campo letterario (e quindi, se proprio volessimo seguire Bourdieu, da ragioni di conflitto circa il capitale culturale) a quello economico dell’industria culturale: oggi i generi si definiscono in funzione degli interessi del mercato editoriale.
In questo senso, se la nozione di poesia in prosa poteva avere un tempo – e certamente ha avuto – una funzione liberante di ibridismo rispetto a generi ancora fortemente canonizzati, oggi che i generi sono soprattutto etichette in libreria, e la poesia in primo luogo un concetto la cui ipostatizzazione ideologica inverte – appunto ideologicamente – la marginalizzazione che la letteratura che non si vende subisce dal mercato editoriale elevandola nel migliore dei casi a luogo anodino di resistenza etico-politica, nel peggiore a squisito rifugio irresponsabile da anime belle: se insomma la poesia non ha più bisogno di libertà perché il mercato le lascia tutta l’indifferente libertà che vuole, allora questa nozione (la poesia in prosa) è oggi probabilmente inutile.

In questo predominio dell’industria editoriale, la prosa – cioè il romanzo – è diventato davvero pienamente quello che descriveva Valery, cioè qualcosa il cui linguaggio si risolve nel proprio significato: in altre parole, la trama, il plot, la struttura del raccontato. Per Massimiliano Manganelli, su Absoluteville, proprio grazie alla sua marginalità, la poesia “è diventata il terreno più fertile della scrittura letteraria, quello dove si consumano gli esperimenti, dove l’invenzione conta ancora qualcosa, contro l’infinita ripetizione del romanzo”. Alla luce delle sconsolate parole di Zublena, questa fertilità sembrerebbe tuttavia dovuta proprio a quella “indifferente libertà” lasciatale dal mercato.

Nell’un caso come nell’altro, non è però chiaro perché il mercato abbia scelto il romanzo. Non dobbiamo dimenticare che il mercato non ha affatto demonizzato, per esempio, la musica, che è l’altro polo che influisce sulla poesia. In altri termini, il mercato ha puntato da un lato su una parola narrativa che si esaurisce nel racconto, e dall’altro su una struttura ritmico-sonora che si tiene ben lontana dal senso (basti pensare alla banalità media o irrilevanza dei testi delle canzoni, quando ci sono). La poesia, dal canto suo, ha percorso i sentieri aspri delle avanguardie, e si è adornianamente tirata fuori da quella dialettica, enfatizzando l’inevitabile complessità che deriva dal mettere assieme i due campi, quando si cerca di giocare insieme all’interno e all’esterno del senso. La separazione tra mercato e poesia è stata dunque per molti versi consensuale.

Il problema, a questo punto, è concretizzare davvero la non coincidenza tra la cultura e il mercato culturale. Non possiamo lamentarci che la poesia non venda. Dovremmo lamentarci piuttosto che il vendere sia l’unico criterio di valore riconosciuto pubblicamente, e agire di conseguenza. Dovremmo perciò renderci conto che la pubblicazione a stampa non può più essere il discrimine tra poeti da considerare criticamente e poeti da ignorare. La pubblicazione è comunque qualcosa che si paga, vuoi che la paghi il mercato, l’editore o l’autore stesso. Se non crediamo nel valore del mercato dobbiamo coerentemente squalificare anche il valore della pubblicazione a stampa.

In altre parole, sarebbe ora che chi si occupa di critica poetica si accorgesse che l’universo del Web ospita la poesia di oggi e di domani. Naturalmente è molto più scomodo analizzare un campo così vasto, non previamente scremato dalle scelte degli editori. Ma non ci sono alternative, oggi, io credo. Se il criterio seguito da Cucchi e Giovanardi per la loro nota antologia mondadoriana (di prendere in considerazione soltanto autori pubblicati, e da editori veri) era discutibile nel 1996, e pericoloso nel 2004 (le date delle due edizioni dell’opera), credo che sarebbe semplicemente sbagliato, o falso, oggi.

P.S. Sto partecipando al Premio Turoldo.
Se volete leggere i testi (anzi il lungo testo) che ho inviato, e magari lasciare qualche commento, mi potete trovare qui: http://www.poiein.it/premi_letterari/Turoldo2010/aaa_elenco.htm.

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Dell’autoriferimento, dello spettacolo e del mondo

 

Jorge Luis Borges, da "Magie parziali del Don Chisciotte", Altre inquisizioni, Feltrinelli 1963, traduzione di Francesco Testori Montalto

Jorge Luis Borges, da "Magie parziali del Don Chisciotte", Altre inquisizioni, Feltrinelli 1963, traduzione di Francesco Testori Montalto

Frank Miller "The Dark Knight Returns", DC Comics, 1985, pag. 26

Frank Miller "The Dark Knight Returns", DC Comics, 1985, pag. 26

Le parole di Borges hanno per oggetto testi classici, o speculazioni filosofiche. Le conclusioni a cui arriva restano comunque affascinanti. Questo è un saggio vero, non una delle sue Finzioni. Con Borges, si fatica a distinguere il reale dall’immaginato, e alla fine ci si rende conto che spesso non è una distinzione pertinente. Siamo anche noi il sogno di qualcuno, come Don Chisciotte era il sogno di Cervantes?

Che cosa c’entra Frank Miller con le fascinose ma astratte elucubrazioni del maestro argentino? Miller impara dai giapponesi, già nei primi anni Ottanta, a costruire la pagina in maniera diversa, a giocare con lo spazio della pagina nella sua interezza, considerando il margine delle vignette un elemento opzionale, da utilizzare o meno a seconda del caso. Il margine delle vignette ha, in generale, una funzione di cornice, e serve quindi, tra le altre cose, a distinguere lo spazio del mondo della finzione (il mondo raccontato) da quello del mondo reale (la pagina materiale, lo spazio bianco che allude allo scorrere della lettura e al passaggio dell’occhio del lettore a un altro quadro). Lasciare l’immagine al vivo, limitata solo dal taglio materiale della pagina, significa eliminare una cornice, cioè un elemento di distanza. Naturalmente rimane un’altra cornice ineliminabile, che è quella della pagina stessa – ma il taglio della pagina è un vincolo materiale, non un prodotto del disegno, proprio come il bordo della finestra che inquadra un pezzo di mondo. L’immagine al vivo rimane finzionale, ma il suo impatto è molto più forte, perché si avvicina di colpo al nostro mondo reale – lo sfiora, pur senza poterlo raggiungere. Se poi sai giocare bene anche sull’inquadratura, ecco che Batman sta davvero di colpo piombando su di noi.

Ma cosa sono dunque quei riquadri appoggiati sull’ìmmagine? Altre vignette, certo. Eppure se ci stanno sopra essi non appartengono al medesimo mondo: sono come cartoline appoggiate sopra a un manifesto. Nel mondo reale le immagini non si possono giustapporre in questo modo. Solo le immagini lo possono fare tra loro – e il fatto di trovarsi sopra indica che sono posteriori (non si infila un manifesto sotto a delle cartoline, di solito, ma viceversa).

Mentre l’immagine al vivo si accosta mostruosamente al mondo reale, la sovrapposizione di altre immagini la rigetta verso il finzionale, il rappresentato. Ma non dimentichiamo che la lettura di un fumetto va fatta in sequenza: prima dunque l’immagine grande è quasi-reale, poi diventa lo sfondo di altre immagini. La correttezza di questa modalità di lettura è confermata anche dalla posizione relativa delle vignette, e dall’andamento narrativo che ne consegue.

Si può leggere tutto questo però anche in un altro modo, cambiando un poco il punto di vista. Se l’immagine grande era quasi-reale, le vignette piccole si trovano ora ancora più vicine a noi – e poco importa che la realtà dell’immagine grande sia nel frattempo retrocessa, perché essa ormai si trova nel passato, e noi stiamo già leggendo le vignette piccole sovrastanti. È così che gioca Miller, illusione dopo illusione; e quando un’illusione si disvela, noi siamo già dentro la prossima, e poco ci importa della precedente.

E poi, soprattutto, poco ci importa perché quello che ci importa è soltanto l’impatto emotivo: questa insomma è fiction, questo è mito. Quello che Borges non arriva a dire (ma consegue dalle sue parole) è che l’ipotesi di essere a nostra volta personaggi della lettura di qualcuno ci rende parte di uno spettacolo, di un mito, di una fiction, in cui valiamo per quello che possiamo comunicare nella trama complessiva, non per quello che siamo. Se siamo i personaggi di un racconto, il senso della nostra vita, dell’intero nostro mondo, è quello di costruire un’esperienza significativa per chi ci legge, per chi lo legge.

Guarda caso, le vignette inserite sulla pagina di Miller sono schermi televisivi, con il relativo sonoro. Tutto The Dark Knight è intessuto di sequenze televisive. Le immagini più reali del quasi-reale che sta sotto di loro rappresentano dunque non una realtà bensì una rappresentazione – magari fedele, come può anche essere la TV, però una rappresentazione. Nel momento di massima vicinanza al mondo reale incontriamo quindi di nuovo una rappresentazione.

Non so se Miller abbia mai letto Borges, ma gran parte della sua notevolissima capacità narrativa sta proprio nell’aver capito che la fiction ci può apparire tanto più reale quanto più assomiglia a quella confusione di livelli tra il reale e il rappresentato che è il nostro mondo dominato dai media e dalle loro rappresentazioni. In un mondo in cui la rappresentazione (televisiva, cinematografica, raccontata dai giornali ecc.) può essere per noi più reale del reale, la realtà è per noi una dialettica complessa tra i tanti modi di viverla e rappresentarla.

Il Cervantes di Borges riduceva il mondo a spettacolo per la lettura di uno dei suoi personaggi, insinuando in noi il dubbio sulla nostra stessa realtà. Frank Miller non fa che riconoscere che il nostro mondo è ormai di quel medesimo tipo, e gli specchi della costruzione in abisso sono i diretti responsabili della costruzione del reale – non dei semplici riproduttori. Su questa dialettica senza scampo Silvio Berlusconi ha costruito il suo impero di finzione, e i suoi personaggi siamo noi. Per la lettura di chi?

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Della lettura e della critica

(dopo)

questo sopra quello sotto,
e poi il geranio e il filo di ferro,
gli esterni gli interni e sfondamenti,
e poi il sale sul gambo,
il tonfo dietro, il battito dentro,
la notte nel giardino tenue,
e poi le labbra e la nebbia… e poi…
e poi altro… a perdersi, in ritorni e fughe,
finché ci saranno coordinazioni (e poi…)
per allineare nella paratassi (e poi… )
altro ancora, malvisto, poi visto fin troppo,
andremo e verremo, e poi ancora, e poi piano
più forte, più intensamente, poi meno
e ancora, in successione, trovando
un posto, anche noi, tra i fatti :
il posto dell’ostacolo,
rallentando di traverso
quasi a tenere, a prendere,
in un abbraccio,
le ombre onde, lo scatto dei denti
sugli echi (e poi ?)

Le poesie riportate in questo post sono di Andrea Inglese, tratte da L’indomestico (2005, scaricabile per intero da qui). Le riporto non solo perché mi piacciono, ma perché mi hanno suggerito una riflessione sul senso della lettura e, soprattutto, sul senso della critica – una riflessione che prende come spunto la poesia, ma che vuole avere valore più generale, per qualsiasi oggetto di carattere estetico/artistico di cui si voglia parlare.

Mi riferisco non tanto alla critica storica, non tanto a quella che tira le somme, ma piuttosto a quella che legge e propone, cercando di indurre i propri lettori a un apprezzamento (o non apprezzamento) dei testi in oggetto. Quella che deve dire (nel caso) se un testo è bello e perché. Lo può fare perché sta scrivendo una recensione, oppure perché sta cercando di spiegare (in una prospettiva più storica) le ragioni della qualità o del successo di un testo.

Ora: teniamo presente che quando riteniamo che il ruolo della critica sia quello di spiegare il testo, rendendone evidenti i contenuti nascosti, stiamo già presupponendo che il testo possa essere spiegato, e che valga la pena di farlo. Se vale la pena di farlo è perché siamo convinti che il testo abbia valore, e che questo valore stia nel suo significato (e dove altrimenti?): aiutare il lettore a cogliere meglio questo significato sarebbe dunque un compito principe della critica.

Non metto in dubbio, né qui né in generale, l’utilità di una spiegazione del significato dei testi. Certo non si tratterà mai di una spiegazione definitiva (un buon testo estetico non dà mai fondo alle sue possibili interpretazioni), tuttavia già fornire al lettore qualche chiave di lettura in più (magari per discuterla o addirittura – criticamente – rifiutarla) è certamente qualcosa di positivo.

Il punto della mia riflessione è piuttosto se la funzione della critica debba limitarsi a questo basilare “fornire una chiave in più” alla lettura, oppure se essa possa ambire anche a qualcos’altro. Cosa potrebbe essere questo “qualcos’altro”? E pure limitandosi magari alla semplice funzione di base, in che modo essa dovrebbe essere espletata?

Potrei, tanto per cominciare da una procedura molto basilare, prendere questi testi e sottoporli a parafrasi, proprio come si fa a scuola, ma temo che nel loro caso non otterrei molto. La parafrasi è utile quando la sintassi è complicata – cosa che non succede nelle poesie di Inglese. Il risultato non sarebbe molto diverso dall’originale: solo più brutto, presumibilmente.

Potrei allora prendere questi testi ed esplorarli andando a fondo nella rete interna dei significati. Se io sono davvero un critico di poesia, non trascurerò, nel farlo, le dimensioni metriche e in generale ritmiche, cercando di individuare il loro specifico contributo al senso complessivo. Analizzarò i campi semantici e le ricorrenze isotopiche, magari identificando relazioni sottili e imprevedibili tra le parti. Alla fine otterrò magari anche un’interpretazione coerente, un senso complessivo sufficientemente unitario. Se lo volessi fare su questi testi, sarei perfettamente in grado di farlo. Serve lavoro, anche parecchio, ma alla fine si ottiene un oggetto critico molto soddisfacente: una specie di sostituto del testo iniziale, certo parziale, ma molto più coerente e conchiuso. È un lavoro che, da bravo semiologo, ho compiuto tantissime volte, sia su testi poetici che su tanti altri tipi di testi (in primis i testi a fumetti, ovviamente).

Il problema che mi trovo di fronte in questo momento è che anche se un lavoro di questo genere mi insegna di solito moltissime cose sul testo che ho di fronte, nulla mi dice invece sul perché questo testo mi piace, e sul perché debba eventualmente piacere anche ad altri (cioè ai miei lettori, cui lo sto proponendo). Semmai questo lavoro è esso stesso una conseguenza e manifestazione del fatto che il testo mi piace, e può al contempo fornire una serie di stimoli tali per cui il testo potrà più facilmente piacere a qualcun altro (cioè ai miei lettori). Insomma, il mio lavoro non dice del testo “è bello” in maniera critica, spiegando il perché lo sia; ma si limita a suggerire che, se io, critico, vi ho individuato tanti aspetti interessanti è perché l’ho trovato, nel suo complesso, bello, e che lo stesso potrebbe dunque accadere a te, lettore.

Non che questo sia poco, ovviamente; ma continuiamo a trovarci al livello della descrizione del testo, e non del perché esso sia interessante.

Facendo un passo più in là, un altro strumento di cui si può fare uso sono le considerazioni di carattere storico-critico. Non la storia vera e propria – che è un altro genere, parente ma diverso dalla critica – bensì il tentativo di trovare il senso nel testo attraverso il rapporto che esso intrattiene con testi antecendenti. Per esempio, potrei argomentare che io trovo un rapporto piuttosto stretto tra le poesie di Inglese e quella di Antonio Porta, specie le sue prime e le ultime (ovvero lasciando in subordine quelle della fase più strettamente legata al gruppo ’63). Affinché un’affermazione del genere abbia davvero valore storico andrebbe sostenuta da qualche riscontro maggiormente oggettivo. Così come la pongo io, invece, non si tratta che di un’ipotesi, avente valore più dal lato del consumo (mio) che dal lato della produzione (dell’autore). Andrea Inglese, infatti, per quanto ne so, è un francesista – per cui magari, più che Porta, andrebbe chiamato in gioco qualche autore francese, che io però non conosco o non conosco abbastanza. Nonostante questo, il riferimento a Porta non è privo di senso. Esso significa, per me, che il piacere che provo leggendo i testi di Inglese è in qualche modo simile a quello che provo leggendo i testi di Porta. Certo non si tratta che di uno spostamento: mi piace Inglese perché mi piace Porta; e Porta, a sua volta, perché mi piace? Tuttavia, per coloro tra i miei lettori che già conoscono e apprezzano Porta, lo spostamento risulta utile, e rappresenta un’indicazione piuttosto chiara: essi possono apprezzare questi testi perché già apprezzano quelli di Porta. Si tratta però, inevitabilmente, di un’indicazione parziale: Inglese non è Porta e (per fortuna) nemmeno lo copia. È un autore differente che porta una qualche somiglianza di famiglia.

Ma le considerazioni storico-critiche possono costituire la base anche di un diverso tipo di apprezzamento. Per esempio, se esiste una nostra scelta di campo ideologica che riteniamo debba essere sostenuta, la collocazione del nostro testo all’interno di quel campo potrà costituire una ragione sufficiente per apprezzarlo. Nel nostro caso, per esempio, se fossimo sostenitori di una certa posizione avanguardista o delle sue conseguenze, avvicinare Inglese a Porta potrebbe essere una mossa per valorizzarlo come prosecutore di una determinata tradizione che riteniamo apprezzabile in sé. Agire in questo modo, insomma, sarebbe un po’ come dire che Inglese è dei nostri, e va apprezzato e sostenuto anche solo per questo. Più che critica, questa mi pare comunque attivismo politico. Più che apprezzamento estetico, la definirei militanza. Non è necessariamente un atteggiamento negativo, ma ha in sé poco a che fare con la critica, persino con il suo compito di base di aiutare la comprensione.

Nonostante qualche piccolo passo in avanti, sostanzialmente non stiamo uscendo dal dare un senso al testo, e restiamo lontani dallo spiegare perché il testo sia di valore, perché mi piaccia e dovrebbe piacere anche ai miei lettori.

Un’altra e differente soluzione mi appare più ingenua e controproducente delle precedenti: è quella che potremmo definire critica impressionista, ovvero il tentativo di rendere l’impressione che il testo produce su di me. Ma come si rende un’impressione? Be’, per esempio in versi, o attraverso una prosa letteraria… Dovrei dunque costruire un secondo testo estetico, che abbia come tema l’esperienza percettiva del primo. Il lettore che apprezzasse il mio testo dovrebbe sentirsi invitato ad apprezzare anche quello di Inglese. Naturalmente, se io fossi un grande scrittore, potrebbe anche capitarmi di produrre un testo critico assai più interessante del testo oggetto. Più frequentemente, invece, accade proprio il contrario, e la critica impressionista non invoglia affatto alla lettura. Gran parte dei commenti ai post dei blog di poesia sono di questo tipo, e lo sono perché l’autore del commento sta cercando un modo per esprimere gli elementi del proprio apprezzamento.

Perché dunque (quando non vi siano presupposti ideologici di scelta di campo a sostenerlo) è così difficile spiegare le ragioni del proprio apprezzamento estetico? Dire “mi piace” è facile. Anche dire “non mi piace” è facile, però è più semplice giustificarlo. Per esempio, non mi piacciono le cose banali, che sono quelle in cui ritrovo troppo facilmente delle strutture che già conosco: per dichiarare banale un testo, dunque, non ho che da trovargli degli antecedenti sufficientemente simili. Di conseguenza, trovandomi ora nella situazione opposta, dovrei spiegare nei termini della loro non banalità il perché questi testi mi piacciono. Tuttavia, mentre dire a che cosa qualcosa somiglia può essere facile, è molto più difficile metterne in luce la diversità – tantopiù che c’è sempre qualcosa a cui un qualsiasi testo somiglia, e questo non lo rende ipso facto banale. I testi di Inglese mi ricordano quelli di Porta, ma ne sono comunque sufficientemente lontani da non apparirmi affatto banali.

Se si resta fuori dalle scelte di campo ideologiche, l’apprezzamento estetico è qualcosa di sottile e personale. Questo non vuol dire che non sia condivisibile o trasmissibile, poiché – nella diversità individuale – siamo tutti comunque sufficientemente simili da poter avere a volte gli stessi gusti. Ma è comunque questione di sintonia. In altre parole, non riconosciamo che un testo è bello allo stesso modo in cui riconosciamo il suo significato; piuttosto, entriamo in sintonia con esso, e riconosciamo la nostra condizione di sintonia. Per questo, possiamo dare spiegazioni sul significato, ma non possiamo spiegare il bello. Al massimo possiamo aiutare gli altri ad entrare nella nostra medesima condizione di sintonia.

Mi resta dunque ancora una possibilità, proprio assumendo questa soggettività dell’esperienza del bello. Quello che posso fare è provare a descrivere l’esperienza, ovvero semplicemente testimoniare il mio vissuto, nell’ipotesi che questo vissuto possa essere, per lo meno, contagioso, e confidando nel fatto che il mio gusto non sia troppo esclusivo. Non è un’operazione facile, perché nel corso della lettura di un testo la nostra attenzione è ovviamente concentrata sul testo stesso, e non sulla nostra esperienza.

« Entra nell’ascensore, poi scendi. »
« Mi servirà davvero ? Avranno custodito
il groviglio, il segreto, la mano porgerà
la chiave, saprò dove nasce
il movente?» « Sei nella colonna
vuota, in caduta, passi i piani della memoria
finché ricorderai non ciò che vedevi
con imprecisi contorni e richiami,
ma lo spessore di tavoli e sedie,
l’impugnatura dei recipienti,
le piastrelle scalfite, i mattoni
a nudo, i sacchi di plastica in aria,
ed altre tattili inezie che sotto
le dita non hai percepito
nell’urgenza di tanto sognare. »

Che cosa posso dire, dunque, in concreto, di queste poesie di Andrea Inglese? Mi colpisce, per esempio, il ritmo con cui vengono elencati i concetti, un ritmo piuttosto stringente, ossessivo, con cui mi arrivano una serie di oggetti ed eventi che sono insieme elementi di quotidianità e correlativi di inquietudine. Non ci sono metafore in questi versi, ma solo questo stillicidio di cose, di eventi, di riflessioni, il cui ricorrere cadenzato mi costringe a comparare, ad accostare, come se io stessi percorrendo gli elementi di un racconto, il quale insieme però c’è e non c’è: non succede nulla in verità, eppure le cose appaiono cariche di storia, quasi di presagi.

Esco dalla lettura di ciascuno di questi testi con una sensazione inquieta, come se il mondo che mi circonda quotidianamente si fosse riempito di indizi, come se ciascuno degli oggetti mi stesse dicendo “attento, io ho un segreto”, ma poi il segreto non viene disvelato. Lo snocciolarsi degli oggetti del mondo nello snocciolarsi delle proposizioni e dei versi costruisce in me un ritmo di piccoli brividi.

Fra poco torneranno. Tutte quante. Le cose.
Come ai bei vecchi tempi. Nella dimora
del cuore. Ad una ad una. Col raffio,
il bastone curvo, la rete, pian piano.

Con il loro blues, il mormorio roco
di fondo, in umida mota, dal fondo
sorgeranno. E meditano, nel sommo,
una calma definitiva adunata.

Persino quando, a volte, un accenno di racconto si trova davvero, non è che poi cambi molto le cose. Mi appare quasi come un ordinamento apparente, un modo per organizzare in superficie una dinamica espositiva che rimane comunque quella dell’elenco ossessivo, quella dell’emergenza progressiva di figure inquietanti. Il racconto stesso, in fin dei conti, non è che una di queste figure, e non più importante delle altre.

Mi picerebbe scoprire, ora, come fa Inglese a produrre questa sequenza di piccoli brividi. A partire dalle mie sensazioni dovrei dunque analizzare il linguaggio, il metro, le figure, e il modo in cui tutto questo viene messo in successione. Ne otterrei, auspicabilmente, non un’interpretazione critica del testo, non cioè la mia versione della sua verità, ma semplicemente un’ipotesi sul suo funzionamento retorico, cioè sul modo in cui riesce a essere così efficace – efficace su di me, ovviamente, ma forse anche su altri lettori.

Desiderio

Le reti erano quelle alte del tennis
dietro a cui colava un’acqua
dubbia, tra argini d’erba.
Tu imparavi a ipnotizzare
le rane, io sganciavo cauto
il tuo reggiseno, e le menti buie
schiarivano, in sogno nessuno
ha fretta, potevo passarti
ogni tanto la lingua sulla schiena,
tra le scapole, mentre la festa
in giardino continuava.
Portavo bicchieri sempre doppi,
pieni di sangue, che rovesciavo
a terra, al riparo da bocche
assetate, indiscrete,
ancora non ti decidevi
a sfilarlo il vestito scollato,
ci spostavamo sui fondali
senza mai doverlo consumare
il desiderio, ed esso si eternava
davanti a noi, nitido nell’aria,
come un fiore crudo, una galassia.

La chiamiamo ancora “critica” un’operazione di questo tipo? Io sono convinto di sì. Ma bisogna capire che c’è differenza tra pensare i testi come portatori di una qualche verità, e pensarli piuttosto come meccanismi estetici, o retorici, dove anche la loro eventuale verità non è che un elemento tra gli altri per costruirne l’efficacia.

Due consideraioni conclusive:
1. il discorso è ben lontano dal potersi concludere qui, e vorrei tornarci sopra presto, magari anche parlando di oggetti diversi dalla poesia; e
2. analizzare davvero le poesie di Andrea Inglese nei termini di cui si è detto potrebbe essere davvero interessante, ma è un’operazione che richiederebbe troppo spazio per il post di un blog, persino per un blog logorroico come questo. Ci vorrebbe un articolo dedicato, e un po’ di tempo a disposizione per scriverlo. Per ora spero che il poco che sono riuscito a dire almeno aiuti ad apprezzare meglio queste belle poesie.

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Del sentire privato e della tradizione

Volevo scrivere un post sulla poesia; volevo scrive un post su una poesia. Credevo di averla, la poesia su cui scrivere. Poi l’ho riletta, e non era adatta. Ci sono poesie che, quando le togli dal contesto in cui sono state pubblicate, si disfano, non reggono l’isolamento, perdono senso e valore. Questo non significa che siano cattive poesie, ma solo che, come tutta la poesia, sono delicate; sono come un cibo dal sapore così delicato che, se lo combini o lo accosti male non lo senti più, e diventa insignificante, e ti domandi perché te l’abbiano proposto.

Così sono andato alla ricerca di poesie un poco più robuste, che almeno potessero reggere l’isolamento dell’autonoma citazione, l’essere messi lì, come testi davvero autonomi, davvero autoconclusivi, così come siamo abituati dai tempi della scuola a considerare le poesie – le quali, certo, testi autoconclusivi lo sono, ma insieme anche no, perché a scuola ogni poesia ci viene propinata insieme con un sacco di informazione e di critica, che la rendono niente affatto autonoma, niente affatto autoconclusiva. Non è certo come leggere una raccolta, un vero libro di poesie (la poesia a scuola è sempre travisata, tradita) ma è comunque qualcosa, una preparazione, un riferimento, un riassunto del contesto che ci fa da sfondo.

Che cos’è che rende una poesia sufficientemente robusta (almeno in questo senso) da essere riportata da sola, da essere citata come testo autonomo? Naturalmente non il fatto di essere migliore e certamente non quello di essere peggiore. Forse una certa capacità di crearsi da sola il contesto, e quindi, di conseguenza, una certa forza, un qualche impeto – anche magari a costo di un poco di retorica: per avere forza, un testo deve presentare degli elementi che siano riconoscibili con qualche facilità, e gli elementi riconoscibili sono ovviamente elementi noti. Se non lo fossero, richiederebbero molto più tempo ed energia (e contestualizzazione) per essere compresi; il che non andrebbe necessariamente a scapito della qualità, ma certamente della forza, e dell’autonomia di presentazione.

Ho trovato quello che cercavo, dopo qualche tentativo, in un volume di Giovanna Sicari: Epoca Immobile (Jaca Book 2004). Ce n’erano parecchie, lì dentro, di poesie che facevano al caso mio, e ne ho scelte due. Ecco la prima:

Di lutto indescrivibile amore

È senza il tempo di una storia
ogni giorno una prostituta mi guarda
ha come me una fascetta sul braccio
anch’io della sua razza randagia irosa in cammino
mi mescolo al suo sonno alle sue albe
di cagna che vede giorno dopo giorno l’aprile nel petto
e solchi di strappi, pressioni, e tutto
il nuovo muta e si è miti per forza come lei,
bella bella di giorno mentre il suo lutto preme in un gorgo
e quando piove, il corpo aperto sbatte alla porta
del tempo – mostra quella fascetta sul polso infermo –

lei non lo sa da dove viene il pianto
dalla profondità di miserie e rancori
dalla classifica dell’odio, da un pomeriggio infame di luce

La componente retorica è piuttosto evidente: è il tema dell’identificazione dell’io poetico con un escluso, un calpestato, qualcuno che ha ragioni evidenti per star male, un correlativo oggettivo del proprio dolore. A questo va aggiunto un elemento formale meno immediatamente riconoscibile, ma non meno efficace. La prima parte della poesia è costituita da un unico lungo crescendo, in cui, verso dopo verso, aumenta la concitazione e la frequenza degli enjambement – secondo un modello classico stranoto, quello del sonetto di Foscolo A Zacinto. E sarà un caso, ma anche qui, proprio come là, il crescendo dura esattamente undici versi. Non è invece certamente un caso (non perché la Sicari abbia voluto rifarglisi esplicitamente, ma di sicuro ce l’aveva nelle orecchie) che la poesia prosegua con quella chiusa, dove il tono diventa esplicativo e rassegnato; e non è un caso che il primo verso della chiusa sia un endecasillabo, che riprende per un attimo proprio il tono del foscoliano “Tu non altro che il canto avrai del figlio”. Quando si usa il verso libero, l’improvvisa irruzione di uno schema metrico tradizionale (come l’endecasillabo) segna sempre un momento di rilievo, attraverso l’emersione inaspettata di un’eco della tradizione.

Potrei continuare, ora, a elencare gli elementi retorici, le riprese da una qualche tradizione. C’è il modo in cui l’immagine della fascetta sul braccio si propone all’inizio del crescendo, e poi si ripropone alla fine, con ben altra densità di significato, ora – anche qui secondo un modello di cui si potrebbero trovare tanti antecendenti. C’è la struttura tripartita della chiusa, sancita da tre “da”, con una classica progressione (in senso musicale), a cui corrisponde, dal punto di vista del senso, un nuovo breve crescendo – che culmina in un tragico ossimoro, quel pomeriggio di luce che potrebbe essere splendido se non fosse infame, perché infame è la vita che lo rende tale.

Spiegare una poesia è, inevitabilmente, riportarla al già noto; è quello che il lettore consapevole fa, nell’atto stesso di leggerla. Non si legge poesia né nulla, senza compiere questa operazione. Ma la ragione per cui un componimento poetico ci colpisce non è l’aderenza a una qualche tradizione. Dovremmo dire, semmai, che il componimento ci colpisce e, insieme, aderisce a una qualche tradizione; e attraverso questa coincidenza quella stessa tradizione improvvisamente ritorna viva, e improvvisamente ritorna a rappresentarci, a essere parte attiva di noi. Spiegare le poesie può essere utile, ma se il lettore non ne coglie autonomamente il lampo, la vita, il grido di esistenza, se non sente di colpo la corrispondenza con il proprio stesso sentire, qualsiasi spiegazione è del tutto inutile. La poesia è un meccanismo che mette in relazione il nostro sentire personale, privato, intimo, con quello collettivo e sociale, fatto di tradizione e di regole e di consuetudini e di stratificazioni: solo se riusciamo a sentire entrambe le cose, la poesia funziona (e che oggi, nonostante tutto, la forma dominante di poesia sia ancora la lirica è probabilmente legato al fatto che il nostro sentire personale, privato, intimo, resta legato all’idea di un io ugualmente privato e intimo – ma non è sempre stato così, né è detto che lo debba essere in futuro). Le spiegazioni ci aiutano a imboccare la strada buona, ma se poi non arriviamo a questo sentire unificante, le spiegazioni sono state inutili.

La seconda poesia della Sicari è quella che riporto qui sotto, meno drammatica, meno immediatamente riconducibile a strutture note (che però, a saperle ascoltare, ci sono ugualmente). La metto qui, senza commenti. Ho già parlato abbastanza.

I piedi sono candidi

I piedi sono candidi ma non ho scarpe buone
non ho cavalli per attraversare
scarpe rasoterra che attanaglino intorno
non ho slanci, privilegi, rare parole
le scarpe svaniscono in un serraglio
per me che non trovo una scorciatoia
per voi che mi custodite intatta.
Dove siete ora – uomini più bravi
di me – vi aspetto in una sala d’albergo
buia contrada in ordine sparso
spari nella notte, foresta, ghiaia,
festa da non udire.

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Di Piet Zwart, di De Stijl, dell’arte e della grafica

Piet Zwart, pagina dal catalogo tipografico Drukkerij Trio, 1931

Piet Zwart, pagina dal catalogo tipografico Drukkerij Trio, 1931

Di riffe o di raffe, in un modo o nell’altro, quando parlo ai miei studenti di usi non lineari della tipografia (manifesti di soli caratteri, poesia visiva, titolazioni o insegne…) finisco sempre per passare di qui, attraverso questo oggetto che non è un manifesto, non è un dipinto, non è un esperimento di poesia visiva. È semplicemente una pagina di un catalogo tipografico, che presenta la scelta dei caratteri di una tipografia di Den Haag nel 1931. Una pagina informativo-pubblicitaria, insomma.

Credo di non essere il solo a considerare questa pagina una delle più riuscite applicazioni del funzionalismo di De Stijl, quello che Mondrian e Van Doesburg chiamavano neo-plasticismo. Ma Piet Zwart, benché vicinissimo a quell’ambiente, non ne condivise mai del tutto le posizioni, e nemmeno sposò mai la comunque prossima versione Bauhaus della medesima idea funzionalista.

Di quando in quando, trovo questa pagina di Zwart anche nei libri di storia dell’arte, insieme ai lavori di Mondrian e Van Doesburg, di Huszàr e di Berlage. Vederlo in un contesto di quel genere invita a considerarla come un dipinto. Nella riproduzione su di un libro, il supporto di un lavoro visivo non appare, e una pagina a stampa non è diversa da un manifesto o da un dipinto. D’altro canto, la vicinanza stilistica con quegli autori è evidente.

Ma guardare questa immagine come si guarda un dipinto conduce a degli errori di interpretazione non piccoli, e rischia di travisare ampiamente il suo senso. Un dipinto, cioè qualsiasi dipinto, è sempre anche una mossa all’interno di una conversazione tra autori di dipinti, conversazione che viene seguita anche dal pubblico di chi guarda dipinti, e commentata e arricchita dagli interventi verbali dei critici d’arte (che qualche volta, con dichiarazioni di poetica, sono i pittori stessi). Questo è tanto più vero per Mondrian, la cui arte sarebbe semplicemente insensata se non si inserisse in questa conversazione: poiché vi si inserisce, le sue forme elementari acquistano invece un senso profondo, una specificissima radicalità.

Come molti di coloro che condividevano lo spirito del suo lavoro, Piet Mondrian era uno spiritualista, ispirato dall’antroposofia di Rudof Steiner, che cercava nella pittura l’espressione di una purezza formale altrimenti inattingibile. Dal sublime Romantico qui si arriva a una sorta di misticismo, di ricerca dell’Uno, dell’Assoluto. Il Bauhaus, a sua volta, non è lontano da concezioni di questo genere. L’antroposofia influenza anche Kandinsky, per non dire di Johannes Itten, che prende una netta tangente orientalista – sino al litigio con Gropius.

Certo, le posizioni sono poi diverse, e non si può riportare tutto il Bauhaus a queste fughe, ma io trovo che all’interno dell’idea stessa del funzionalismo continui ad agire una metafisica del sublime che idealizza una sorta di forma pura, da ritrovarsi comunque, in qualsiasi tipo di progetto, magari come essenza della funzione a cui si sta cercando di dare forma.

Non è che Zwart sfugga davvero a tutto questo. Ma, prima di cercare radici metafisiche, torniamo un attimo sulla terra, a den Haag, nel 1931, nei panni del proprietario della tipografia Drukkerij Trio, di cui questa era una pagina pubblicitaria. Ai suoi occhi, questa pagina aveva principalmente due funzioni: la prima è quella di far vedere al pubblico la varietà di caratteri con cui la tipografia può stampare e la qualità della stampa che può ottenere, anche a colori; la seconda è quella di mostrarsi progressista e in linea con il proprio tempo, à la page, insomma.

Non c’è dubbio che Zwart avrebbe potuto soddisfare queste due richieste anche con una pagina un po’ meno spettacolare e memorabile di questa. Anzi, magari la seconda delle due sarebbe forse stata meglio soddisfatta da una costruzione un po’ meno di avanguardia. Ma forse no. Tutto sommato, l’ambiente culturale olandese di quegli anni era davvero progressista, e poteva capire benissimo Zwart.

La pagina di Zwart, con tutta la sua fama, non arriva però sino a noi come uno straordinario esempio di come vadano strutturate le pagine dei cataloghi tipografici. Sono certo che la maggioranza delle persone a cui questa immagine è comunque nota non ricordino nemmeno quale fosse la sua funzione (il che, per un funzionalista, può apparire un bello scorno!). Ai loro occhi (ma anche ai miei) questa è un’elegante costruzione astratta nello stile di quegli anni: un’immagine che può facilmente essere presa come simbolica della grafica di un’epoca, e dell’immaginario visivo dominante in un certo ambiente culturale di quegli anni.

La mia impressione, tuttavia, è che l’adesione di Zwart alle poetiche neo-plasticiste e dintorni fosse davvero superficiale. In altre parole, non c’è bisogno di scomodare nessun sublime e nessuno spiritualismo per comprendere questa immagine. Zwart ha un problema di comunicazione visiva e lo deve risolvere: deve costruire, attraverso dei caratteri tipografici, una composizione interessante e contemporeanea. La contemporaneità è per lui (molto comprensibilmente) quella che viene espressa da questo genere di forme, quelle stesse che per Mondrian e Itten sono così piene di significato spirituale, ma che sono in realtà anche semplicemente lì, a disposizione, visivamente interessanti pure se non se ne sposa l’ideologia.

Zwart, dunque, le usa. Siccome ha occhio, le usa anche meglio di molti altri. Siccome non gli interessa l’ideologia retrostante, le usa con disinvoltura, anche con una certa giocosità. Non ci parla dell’Assoluto, ma semplicemente del presente, e dell’importanza visiva della composizione. Deve usare le lettere, perché sono quelli i suoi mattoni da costruzione, e ne studia le forme, integrandole nella struttura complessiva.

Forse questa pagina mi piace perché c’è in essa tutta l’eleganza del funzionalismo senza il peso della sua ideologia, e perché Zwart sembra giocare con quello che i suoi colleghi stanno invece prendendo terribilmente sul serio. Forse dobbiamo pensare a Zwart come un paradossale postmodernismo ante-litteram? Se così fosse, troveremmo il postmoderno e la sua leggerezza proprio accanto al cuore moderno e pesantissimo del funzionalismo medesimo.

P.S. Ho già parlato di qualche tema vicino a questo in un post intitolato Del carattere lineare e del sublime nell’arte, ma si possono vedere anche, in generale, in tutti i post con il tag sublime.

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Di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, in mostra a Ferrara

Chardin - Bicchiere d'acqua e bricco da caffè, circa 1760

Chardin - Bicchiere d'acqua e bricco da caffè, circa 1760

Ho visto la mostra di Chardin al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Non è grande, però buona parte dei dipinti più famosi ci sono, e anche altri che non conoscevo. Tra questi, i due che riporto qui.

Quello ovale, riportato più sotto, si trova sul fondo di una stanza lunga, per cui lo si vede inevitabilmente da lontano, quando si entra nella stanza, e poi ci si avvicina. La meraviglia della composizione è evidente quindi dal primo sguardo. Tuttavia, rispetto invece al dipinto qui sopra, quello con il bicchiere d’acqua, ho vissuto una strana esperienza.

Poiché è esposto in una sala grande, a fianco di altri dipinti, mi è capitato di vederlo quando mi ci trovavo già molto vicino, a meno di un metro. Quello che ho pensato è stato: “Ecco un dipinto minore. Qualche volta anche a Chardin venivano meno bene”. L’ho osservato per un po’, concentrandomi sul dettaglio delle pennellate, e poi sono passato oltre.

Poco dopo, ero lontano, e l’occhio mi è caduto ancora sul medesimo dipinto. Per certi versi facevo fatica a riconoscerlo. O meglio, lo riconoscevo benissimo, perché le forme rappresentate erano quelle che ricordavo; ma non mi riconoscevo io nel giudizio di poco prima: ora stavo guardando un dipinto bellissimo, tra i più emozionanti dell’intera mostra.

Mi sono avvicinato di nuovo, per tornare a vedere le pennellate, e quell’effetto un po’ confuso che, poco prima, me lo aveva fatto squalificare. Solo che, adesso, quelle medesime pennellate dall’apparenza grossolana erano inesorabilmente correlate all’esperienza che ne avevo appena fatto da lontano, e anche guardando da vicino non le vedevo più come prima

Denis Diderot, recensendo Chardin nel 1763, parlava di una “magia” della sua pittura, dichiarandosi incapace di spiegare come mettere insieme nella propria coscienza le due vedute, da vicino e da lontano. Ma io credo che nella “magia” di Chardin ci sia, oltre a questo, anche una capacità compositiva stupefacente – che è qualcosa di assai più difficilmente osservabile, e che si impone alla percezione spesso senza che ce ne rendiamo conto. È quella caratteristica piuttosto ineffabile per cui le cose ci appaiono, messe così, incredibilmente armoniose, posizionate secondo un ordine stranamente significativo, pur nella apparente banalità.

Lo sguardo da lontano ci permette di cogliere questo ordine, mentre il confronto tra lontano e vicino ci mette a confronto con il virtuosismo del pittore e la sua incredibile consapevolezza dei meccanismi della nostra percezione visiva. Chardin vince la propria gara giocando incredibilmente al ribasso, eliminando qualsiasi elemento che possa essere autonomamente interessante. Così, quasi parlando a bassa voce, la sua rappresentazione delle cose inizia a raccontare delle storie di quotidianità, anche loro dall’apparenza banale, insignificante. Eppure, quando si possono scorgere meraviglie di questo genere nella propria banale quotidianità, il mondo diventa di colpo talmente pieno di senso che sembra non esserci bisogno più di niente altro.

Il secolo dei Lumi è anche quello in cui la valorizzazione delle emozioni inizia la strada che porterà all’esplosione romantica. Quello di Chardin mi appare come un Romanticismo ancora appena sussurrato, uno Sturm und Drang dei bicchieri d’acqua nella luce, dei vasi di albicocche e delle tazzine decorate. Il silenzio in cui Chardin rinchiude le sue passioni le rende incredibilmente vivide, come se emergessero da una visione al microscopio.

Parliamo di Arte, di solito, in questi casi. Vista l’epoca in cui Chardin dipinge, l’espressione è già del tutto pertinente. Ma anche valutando il suo lavoro come semplice comunicazione visiva, prescindendo dalla retorica del mondo dell’Arte, e considerandolo semplicemente come un discorso condotto con strumenti visivi, il discorso di Chardin ci appare ricchissimo, complesso, intrigante. È il lavoro di qualcuno che ha riflettuto continuamente, per anni e anni, sulla percezione visiva e su come essa produce senso; e che può insegnare moltissimo, a distanza di due secoli e mezzo, anche a chi non è interessato alla pittura, anche a chi della comunicazione visiva ha semplicemente fatto una professione. Come pure Chardin, peraltro.

Un artista (mi raccomando con la minuscola) non è che un artigiano di grande capacità che ha molto riflettuto sul proprio lavoro, ed esprime nella sua opera tutto questo, rendendola singolarmente significativa. L’Artista (quello con la maiuscola) è oggi semplicemente uno che fa dell’Arte: ce n’è di bravi (degli artisti veri, insomma) e ce n’è tanti che non lo sono. L’Arte (quella con la maiuscola) non è che un genere tra gli altri.

Chardin, Il barattolo di albicocche, 1758

Chardin, Il barattolo di albicocche, 1758

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Della poesia (tra riduzione dell’io ed espressione soggettiva)

I temi che ho affrontato due settimane fa in un post intitolato Delle questioni delle poetiche, della lirica, del soggetto e della leggibilità continuano a girarmi per la testa e a crearmi più perplessità che certezze. Il post era stato ispirato da un intervento di Andrea Inglese su Nazione indiana; e a farmi rimuginare questi temi hanno contribuito altri post, tenendo aperto un dibattito in cui questi stessi temi si inseriscono (anche se esso ne investe pure altri, che non affronterò qui): sono il post di Marco Giovenale ancora su Nazione Indiana, quello di Lorenzo Carlucci su Poesia 2.0, la prima e la seconda più articolata risposta del medesimo Giovenale su Slowforward, con tutte le relative abbondantissime discussioni, ora molto interessanti ora pura polemica personale.

Il punto (o almeno quello che mi ronza per la testa ora) è la questione della cosiddetta “riduzione dell’io”. Alfredo Giuliani scrive nel 1961, introducendo l’antologia de Novissimi, che “La ‘riduzione dell’io’ è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente“. Mi sembra del tutto ragionevole che Giorgio Manacorda (introducendo nel 2004 il suo La poesia italiana oggi. Un’antologia critica) faccia notare che c’è qualcosa di paradossale nel fatto che l’espressione, e per giunta l’espressione soggettiva, si debba realizzare mediante riduzione del soggetto medesimo, per cui “o il punto non è l’espressione, bensì il referto (appunto la riduzione dell’io a “cosa”) e allora va bene cancellare o anche solo ridurre l’io, o il problema è l’espressione, e allora perché ridurre l’io, magari fino a cancellarlo? Questa scelta ha avuto conseguenze per le generazioni successive.”

Non si può certo qui ripercorrere quello che è successo nella poesia italiana dagli anni Settanta in poi. Trovo però interessante che tutti e due i corni della scelta – che Giuliani cercava ancora, eliotianamente (montalianamente?) e pericolosamente di tenere insieme – abbiano trovato espressione, e prodotto, talvolta, anche opere di qualità.

Non riesco, proprio per questo dunque, a far a meno di vedere nelle dichiarazioni di Giuliani qualcosa di molto meno assertorio, universale e definitivo di quanto il suo tono di voce voglia far credere. Le frasi chiave del discorso di Giuliani mi paiono in verità queste, appena dopo l’apertura del saggio introduttivo: “Io credo si debba interpretare la ‘novità’ anzitutto come un risoluto allontanamento da quei modi alquanto frusti e spesso gravati di pedagogia i quali perpetuano il cosiddetto Novecento mentre ritengono di rovesciarlo con la meccanica dei ‘contenuti’. Ciò che molta poesia di questi anni ha finito col proporci non è altro che una forma di neo-crepuscolarismo, una ricaduta nella ‘realtà matrigna’ cui si tenta di sfuggire mediante schemi di un razionalismo parenetico e velleitario, con la sociologia, magari col carduccianesimo.” Se leggiamo tutto il resto alla luce di questo, ci appare evidente che Giuliani non sta dicendo come si debba fare poesia in generale, ma semplicemente proponendo un percorso di uscita da una situazione culturale di stallo; e che Pasolini ne fosse in quegli anni l’emblema lo dimostra abbastanza chiaramente la sua successiva parabola poetica involutiva.

In altre parole, Giuliani sta proponendo di rinnovare la poesia italiana guardando più a Eliot e Pound che a Pascoli e Corazzini. Ma cosa ne sarà del valore di un’affermazione di questo genere qualche anno dopo, una volta che la poesia sia stata davvero rinnovata? Se la scelta starà tra “riduzione dell’io” e “espressione soggettiva”, una volta che la “riduzione dell’io” abbia vinto, dovremo ritornare all'”espressione soggettiva” per rinnovare di nuovo? E poi ancora viceversa? Certo che oggi, cinquant’anni dopo, potremmo magari leggere proprio in questi termini quello che è accaduto in seguito, e valutare in termini di progressisti e conservatori ora gli uni ora gli altri, ora i riduttivisti ora gli espressivisti.

Le polemiche che si possono leggere in calce ai post che ho citato sopra appaiono spesso (non sempre) impostate davvero in questi termini. Assunta come opinione condivisa che sia positivo essere progressista e negativo essere conservatore, ci si scanna per decidere chi sia il vero progressista. Naturalmente scannarsi serve anche per proporsi pubblicamente, e quindi in questo dibattito c’è senz’altro una forte (e positiva) componente di promozione personale (insomma, di autopubblicità). E questo va benissimo, soprattutto con il poco interesse che gira nell’aria in Italia per la poesia: magari qualche dibattito acceso può richiamare l’attenzione di qualcuno, e far venir voglia persino di leggere le opere.

Ho tuttavia la sensazione che il dibattito manchi il punto, e che ci siano troppi elementi sia a favore che contro (tanto per i riduttivisti quanto per gli espressivisti) per poter prendere partito per una delle due posizioni. A me pare semplicemente che quando un lavoro poetico è davvero riuscito, se ne percepisca sia una componente di espressività che una di superamento della soggettività: se sentiamo che l’io straborda, non è poesia, ma diario, autobiografia; se dell’io non troviamo traccia non è poesia, ma tabella, elenco, calcolo. D’altro canto, ci sono poesie riuscite in cui apparentemente l’io straborda, ma sono riuscite perché è facile rendersi conto che questo strabordare è pura apparenza, presentazione di un caso umano – e la poesia è riuscita perché quel caso umano è sentito come universalmente rappresentativo. E ci sono anche poesie riuscite in forma apparente di elenco o calcolo, dove ci si accorge che da quelle relazioni apparentemente astratte emerge in verità un universo di significati, e di nuovo qualcosa di universalmente rappresentativo. Nell’uno e nell’altro caso questa universale rappresentatività non è necessariamente una verità: può essere una domanda, un dubbio, una ricerca; comunque sia è qualcosa in cui ci possiamo riconoscere – e possiamo riconoscerci, con questo, parte dell’umanità.

Poiché nella poesia che funziona, quella che è bella, profonda, riuscita, non trovano spazio vero né la riduzione dell’io né l’espressione soggettiva, e tuttavia entrambe possono farne parte come mattoni da costruzione, i simpatizzanti di ambedue i partiti possono con una certa plausibilità accusare gli avversari di cercare di mettere nella poesia qualcosa che non ci dovrebbe essere. Dovrebbe essere evidente, a questo punto, la natura pretestuale di entrambe le posizioni: sono due ricette, ciascuna delle quali pretende di produrre la vera poesia; due apparenti scorciatoie, o, se siamo più generosi, due proposte di percorso. Alla poesia buona, di qualità, si può di fatto arrivare sia per l’uno che per l’altro percorso, o anche (credo) per nessuno dei due. E la poesia buona soddisferà tutti e due i partiti, perché gli uni vi ritroveranno l’assenza della riduzione dell’io, e gli altri quella dell’espressione soggettiva.

Bisognerebbe relativizzare, a questo punto, anche il concetto di “poesia buona”. A che cosa si aspira quando si fa poesia? A influenzare il presente? Ma allora basterebbe una buona comunicazione funzionale. A poter essere storicizzati? E allora basta trovare il pubblico giusto, che siano i tanti (ma anche di scarsa competenza poetica) della Merini, o che siano i molto meno (ma di molto superiore competenza poetica) di De Angelis. Chi vale di più, dei due? Integrati e apocalittici hanno pane per i reciproci denti. E la storia si scrive anche attraverso queste discussioni.

Personalmente, preferisco di gran lunga De Angelis, ma ci sono anche per me, qua e là, alcune poesie illuminate della Merini. La critica è utile, spesso indispensabile, ma l’emozione della lettura alla fine riguarda me e solo me; e sono solo io a poter dire che cosa è buona poesia e cosa non lo è. Per questo, se non c’è un numero sufficiente di io ad apprezzare la poesia, buona o cattiva che sia è come se non esistesse.

Se il proprium delle avanguardie è la centralità della poetica e la sua prevalenza sull’opera (un commento nei dibattiti di cui sopra mi ha ricordato che lo ha pure sostenuto Eco nella sua prolusione ai quarant’anni del Gruppo 63 – ma ne ero convinto comunque), allora è proprio l’idea di progetto a essere al centro del lavoro dei loro autori. Ma pensare la poesia come operazione sul linguaggio, alla Giuliani, o operazione politica, alla Brecht, significa pensarla come comunicazione funzionale.

Ora, una buona comunicazione funzionale è certamente un valore positivo, ma la nostra concezione della poesia di fatto non si risolve in quello. Se si risolvesse in quello, i dibattiti tra poeti e tra poetiche non farebbero che esplicitare quale sia il proprio scopo comunicativo, e si discuterebbe, a parità di scopi, quale sia il modo migliore per raggiungerli. E invece l’ambiguità medesima in cui cade Giuliani cercando di tener salda sia la riduzione dell’io che l’espressione del soggetto deriva proprio dall’impossibilità di intendere funzionalmente la poesia – nonostante lui stesso in vari momenti cerchi di presentarla così.

Se riduciamo la poesia a comunicazione funzionale non c’è poi modo di tenerla fuori dalla logica alienante del mercato, dallo “sfruttamento commerciale cui la lingua è sottoposta” (sempre Giuliani, ibidem). Vista in questi termini, ci sarà sempre, prima o poi, una situazione in cui la logica del mercato la re-ingloba, anche, al limite, se si è Balestrini, o e.e.cummings.

D’altra parte, se riconosciamo alla poesia una dimensione differente dalla comunicazione funzionale, questa dimensione potrà manifestarsi a volte persino nelle poesie della Merini, o magari nei versi di un cantautore, persino di uno di successo. Ci troveremo costretti a constatare che la qualità di un’opera non ha a direttamente che fare con il suo successo commerciale, non in positivo (coincidenza o dipendenza) ma nemmeno in negativo (esclusione).

Adorno è morto, per fortuna. La sua grandezza di critico e filosofo ci ha impedito di vedere per molto tempo i danni che la sua estetica ha prodotto.


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Della fotografia, della postproduzione e del realismo

Sarah Moon. Berlin 1995

Sarah Moon. Berlin 1995

La fotografia è un indice sul reale, si è detto. C’è del vero, ma a patto di valutarne le conseguenze. Se è un indice, c’è qualcuno che indica. E non si tratta solo di un indice, perché l’immagine è lì davanti a me, e il reale è in qualche misura riprodotto; e l’indicare, che indubbiamente c’è, è in realtà un guardare: il guardare del fotografo che ha deciso cosa inquadrare e ha scelto l’attimo giusto per scattare la foto, un guardare che corrisponde al mio guardare di fruitore, che si ritrova solidale nello sguardo con il fotografo.

Tuttavia, affinché io riconosca tutto questo, devo già sapere, almeno a grandi linee, qual è il processo di produzione di una foto. Se non lo so, non ho i mezzi per distinguere una foto da un dipinto, e posso pensare che si tratti di un dipinto particolarmente dettagliato: scompare dalla mia consapevolezza, quindi, tutta quella componente del discorso dell’immagine che si basa sul fatto di essere un’impronta del reale – per quanto mediata dall’azione del fotografo, che è quella che rende discorso questa impronta.

Nonostante tutto questo, e nonostante il fatto che l’atto cruciale della produzione di una foto sia la fissazione dello sguardo del fotografo (ben diverso da quello che succede con un dipinto, in cui lo sguardo del pittore è mediato dalla lenta procedura costruttiva manuale), ci sono foto a cui la postproduzione aggiunge molto, e che non si risolvono nel semplice essere un’impronta resa discorso dalle scelte di sguardo del fotografo.

La fotografia di Sarah Moon, per esempio, si basa su una serie di operazioni di postproduzione che alterano in varia misura l’effetto di realismo. La foto viene a volte sfocata, a volte mossa, a volte graffiata… Molto spesso le vengono lasciati (o aggiunti) i margini, che mostrano l’area di confine con la parte di pellicola non impressionata; e non di rado, come nella foto che ho messo come esempio, ci sono altre ricercate “imperfezioni”.

L’effetto cercato e ottenuto, spesso, è quella di una foto antica, primitiva, su cui la tecnica ancora incerta ha lasciato le tracce, come sui dagherrotipi dell’Ottocento. L’immagine, per quanto reale, ci sembra così provenire da un’antichità temporale favolosa, quasi appartenesse a un diverso dominio del reale.

Nelle sue foto, spesso struggenti, Sarah Moon mette in scena un’imperfezione tecnica (che è in realtà il frutto di una originale ricerca espressiva) che ci costringe a focalizzare non solo l’oggetto ritratto, ma anche le condizioni della sua presa. Non c’è solo la compresenza del soggetto con il fotografo: c’è anche questo favoloso distacco, questa irrealtà sovraimposta alla realtà.

Ma se – ignoranti di fotografia come non lo è ormai nessuno – scambiassimo le foto di Sarah Moon per dipinti, tutto questo non avrebbe modo di manifestarsi. È proprio perché conosciamo il procedimento tecnico della fotografia che possiamo capire le sue alterazioni e intuirne il senso. È proprio perché sappiamo che cosa succede a una foto quando invecchia, che possiamo riconoscere questa evocazione di antichità.

Sarah Moon costruisce il suo universo irreale combinando due effetti di realtà: quello standard e atteso della foto come impronta del reale, e quello della foto come esito di un procedimento pratico. Se nel primo effetto l’autore frequentemente resta nascosto (in quanto la foto può facilmente essere assunta come qualcosa di oggettivo: pura impronta del reale, come tipicamente avviene per le foto intese come testimonianza), nel secondo egli (ella) emerge invece con energia e passione.

Proprio come i dipinti di Pollock sono la traccia materiale della sua danza sopra la tela con il pennello che sgocciola, le foto della Moon sono la traccia del suo lavoro nello sviluppo e nella postproduzione. Comunque tracce, impronte, come in ogni foto che si rispetti. Impronte dell’autore, tuttavia, che non si possono ignorare.

Il tema è troppo succoso. Ci tornerò sopra presto.

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Delle questioni delle poetiche, della lirica, del soggetto e della leggibilità

Nel post di Andrea Inglese “Che genere di discorso” pubblicato su Nazione Indiana del 12 ottobre, e soprattutto nel dibattito da esso generato, si incontrano una serie di temi che mi impongono una riflessione: c’è la questione delle poetiche, ovvero delle dichiarazioni di intenti degli autori; c’è la questione del soggetto e c’è quella della lirica; e c’è la questione della leggibilità. Sono temi interessanti anche perché non riguardano solo il mondo della poesia e della prosa, che è quello di cui specificamente si discute in quella sede; investono piuttosto qualsiasi produzione o comunicazione di carattere estetico, da quelle che definiamo tradizionalmente “artistiche” sino a quelle di carattere esplicitamente funzionale, come la pubblicità.

Sulle poetiche, mi fa sorridere che Inglese, dopo un’evidente dichiarazione di poetica, ammetta nei commenti, in risposta a una mia obiezione, di non credere davvero sino in fondo alle dichiarazioni di poetica: “sono scettico rispetto alla nozione di poetica. O meglio, ho raggiunto una certa idea di cosa sia la poetica: un campo di proiezioni immaginarie sul proprio fare.” Mi fa sorridere perché l’ambiguità in cui, con questo, Inglese cade è probabilmente inevitabile oggi, per chiunque si cimenti con una produzione artistica, poetica, prosastica, filmica, pittorica o fumettistica che sia (o quant’altro). E credo che lo sia perché rispecchia un’analoga ambiguità presente oggi nella nozione di Arte.

Quando frequentavo l’università, ho fatto in tempo a seguire le lezioni di Luciano Anceschi, che ci parlava dell’estetica e delle poetiche, sottolineando il valore e l’importanza di queste ultime assai più della prima – che nella sua visione finiva per essere quella che lui chiamava, se ben ricordo, una “sistematica”, contrapposta al “sistema”, per esempio, di Adorno (che era, nell’anno in cui lo seguii, l’argomento del corso). Fu così che per il suo esame preparai una tesina (ma lo spessore non giustificherebbe il diminutivo) sulle poetiche dei Novissimi.

Con questo accento forte sull’importanza delle poetiche, ho dato per scontato per molto tempo, io come tanti, che si trattasse di un problema costitutivo della produzione artistica. E non c’è dubbio che per il Novecento lo sia: ma prima? Ci sono delle dichiarazioni di poetica precedenti al Manifesto del Futurismo che siano davvero tali? Qualcosa del genere indubbiamente c’è, perché spesso gli artisti hanno riflettuto sul proprio lavoro; tuttavia la mia sensazione è che manchi a quelle dichiarazioni quella dimensione programmatica che invece da Marinetti in poi diventa cruciale, e che rende le poetiche del Novecento assolutamente peculiari.

La mia sensazione è che la nascita delle poetiche (in senso novecentesco, di qui in poi) sia una conseguenza dell’affermarsi dell’idea di progetto, in campo comunicativo e in campo politico. Il progetto è ciò che permette di finalizzare una comunicazione, di decidere a priori quali scopi si vogliano raggiungere, e con quali mezzi ci si proponga di agire: è il mito che attraversa l’universo del design (che significa non solo disegno, ma anche progetto) dal Bauhaus a Ulm e oltre, ma è anche quello che chiaramente si ritrova nel programma di Marinetti. In questo senso le avanguardie sono chiaramente le figlie di una mentalità razionalistica e progettuale, che si distingue da quella del design industriale solo per la diversità degli scopi e degli strumenti specifici.

Se dovessimo valutare le opere delle avanguardie sulla base delle poetiche espresse, ovvero dei progetti dichiarati dai loro autori, la nostra valutazione sarebbe non molto diversa da quella che uno studio di valutazioni qualitative compie su una campagna pubblicitaria: è riuscita se (e solo se) ha raggiunto lo scopo che si proponeva. E con tutto questo non intendo affatto sminuire l’ideologia del progetto, che è la vera sostanziale novità del Novecento, trasversale dal marxismo sino ad Heidegger e all’esistenzialismo, dalla giocosità dadaista alle teorie sulla progettazione del software.

Tuttavia, di fatto, non è in questi termini che ci poniamo di fronte a quegli oggetti che definiamo opere d’arte, o, almeno, non è solo in questi termini. Esiste un modo tradizionale, antico, di sentire il bello come espressione di valori positivi condivisi dalla comunità, che precede la nozione stessa di Arte, la quale è una nozione moderna (ne ho parlato più a fondo in un post su Coomaraswamy). Secondo questo modo, l’Arte ha a che fare non con l’estetico, bensì con il sacro. Il Romanticismo, in epoca di positivismo imperante, cerca di recuperarne l’essenza attraverso l’intromissione del sentimento e del soggetto, perché la soggettività e l’interiorità gli appaiono come le uniche risposte possibili alla desacralizzazione che sta compiendo la scienza. Così si costruisce un’idea dell’Arte che poi il novecento insieme combatte e perpetua: che ha ragione di combattere perché si tratta di una perversione contingente, e che ha ragione di perpetuare perché spesso appare come l’unico legame rimasto con quella sacralità così essenziale – una sacralità che non è necessariamente religiosa, ma è semplicemente un senso mistico della comunità.

Esporre la propria poetica e insieme dichiarare che non ci si può credere davvero è dunque l’espressione di questa oscillazione tra un’Arte come progetto, che ci permette di liberarci dalle pastoie romantiche dell’esaltazione dell’io, e della lirica intesa in questo senso; e un’arte come sacralità, in cui la dimensione irrisolvibile del simbolo si lega a un senso collettivo che trascende a priori il soggetto, senza negarlo ma senza nemmeno porlo come mediazione irrinunciabile (come fanno i Romantici). Rinunciare alla poetica significherebbe rinunciare al dialogo con le espressioni artistiche del novecento; ma rinunciare al sacro significherebbe rinunciare a quello che sentiamo come Arte – e fare, del tutto legittimamente, e magari anche ottimamente, della comunicazione funzionale. Tuttavia, in questo modo si rinuncerebbe al dialogo con tutto quel mondo che noi sentiamo come Arte e che precede il novecento – a meno di considerarlo, del tutto legittimamente ma un po’ riduttivamente, anch’esso come comunicazione funzionale.

Tuttavia, perché la riduzione (anche parziale) dell’io deve coincidere con un aumento della complessità dell’opera e delle difficoltà di fruizione da parte del lettore/spettatore? Certo che l’opera difficile, oscura, attinge più facilmente alla dimensione del simbolico, ed è più facilmente distinguibile da quella della comunicazione funzionale tout court, specie se si intende svalutare quest’ultima come troppo compromessa con i mali del presente. Così, la scarsa leggibilità è certamente una scorciatoia per dichiararsi dalla parte del sacro, nonostante si continui a progettare la propria comunicazione. Un testo facilmente leggibile è più facilmente sussumibile – non c’è dubbio – alle logiche del consumo, che sono antitetiche a quelle del sacro. E senza progettazione non c’è avanguardia, sia nel senso storico, che nel senso più banale di gruppo organizzato attorno a uno scopo politico (magari anche solo politico-culturale).

Mi sembra che siamo di fronte a un bel nodo di contraddizioni, ben difficili – forse impossibili – da sciogliere. Eppure l’io, la lirica, la leggibilità, mi sembrano tutti temi-ponte, parole d’ordine su cui aggregare il dibattito, su cui organizzare la comunicazione che permette poi all’opera di essere conosciuta, avendo incuriosito qualcuno, e di essere letta, fruita. Un’opera che non viene fruita è come se non esistesse.

Voglio concludere facendo osservare che le cose non procedono allo stesso modo su tutti i fronti. Se nel campo della poesia e dintorni la ricerca verte sul come mettere un po’ da parte questo io troppo strabordante e imbarazzante, nel mondo del fumetto sembra invece essere proprio la ricerca dell’io e del suo intimismo a definire un percorso di rinnovamento, e di differenziazione dal passato. Il punto è che le forme non sono universalmente distribuite allo stesso modo, e quello che vale come novità in un campo può non valere affatto in un altro.



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Della fotografia e dell’erotismo (segue)

 

Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538

Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538

 

 

Francisco Goya, La maja desnuda, c.a 1795

Francisco Goya, La maja desnuda, c.a 1795

 

 

Edward Weston, Nude. Oceano 1936

Edward Weston, Nude. Oceano 1936

 

Qualche giorno fa sono intervenuto al congresso dell’Associazione Nazionale di Studi Semiotici, dedicato a “La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale”, con un intervento dal titolo “L’indice indiscreto”, il cui argomento era l’erotismo in fotografia. L’intervento espandeva alcuni temi che ho già affrontato sinteticamente anche in questo blog, in due post dedicati ai nudi di Edward Weston (qui e qui).

L’intervento ha scatenato un certo dibattito, soprattutto da parte di alcuni partecipanti che si occupano di Storia dell’Arte, che mi hanno obiettato che anche la pittura implica la presenza, e che l’eventuale maggiore eroticità della foto di Weston non è data dalla presenza implicata del fotografo, e dalla coincidenza del suo sguardo con il mio di osservatore, come sostenevo io, bensì da altre caratteristiche della foto, come il fatto che la modella viene mostrata immersa nel proprio piacere (di corpo nudo al sole), o anche, in parte, per la presenza della sabbia.

Vorrei perciò aggiungere alcune osservazioni, che erano in parte implicite e in parte troppo poco sottolineate nel mio intervento, per chiarire la mia posizione, e perché penso che siano comunque interessanti per l’analisi del discorso della fotografia.

Intanto, io credo che ci sia qualcosa che distingue la fotografia dalla pittura, che rende le modalità del discorso dell’una differenti (in parte, ovviamente) da quelle del discorso dell’altra. Non so se sia corretto o opportuno definirlo uno specifico fotografico, che è un’espressione vecchia, che fa forse riferimento a modalità diverse di indagine sulle immagini. Certo, la fotografia costituisce un campo, perché ogni nuova proposta fotografica è sì in dialogo con le proposte del campo del visivo in generale, ma lo è molto più specificamente con le altre proproste del campo della fotografia stessa. D’altra parte, la fotografia è un campo piuttosto facile da definire, persino con una certa precisione, perché nella sua enorme varietà di pratiche e risultati resta accomunata dalla presenza di uno strumento tecnico, la macchina fotografica, che registra l’immagine del mondo su un supporto, quale che esso sia.

L’uso di questo strumento prevede delle procedure, la più ampiamente comune delle quali richiede che il momento cruciale della produzione sia quello in cui una persona, il fotografo, sceglie le condizioni ottiche, il quadro e il momento preciso in cui scattare la foto. Certo, potrà aver preparato la situazione prima (proprio come il pittore) o potrà lavorare di post-produzione dopo (in misura comunque largamente minore del pittore); tuttavia, mentre il gesto del pittore è un gesto costruttivo, che prevede una sequenza in cui qualsiasi microscelta è una scelta del pittore e della sua mano, il gesto del fotografo consiste sostanzialmente nella scelta di uno sguardo, sanzionato dal clic che lo blocca per sempre. Il pittore può alterare (migliorare o peggiorare) le fattezze e la posizione della modella in qualsiasi momento; il fotografo (se non usa Photoshop, ma qui stiamo ancora parlando di Weston e di una fotografia pre-digitale) no, o solo in misura molto ridotta, ed esponendosi al rischio di essere riconosciuto come qualcuno che sta operando un falso.

Per questo, anche se la compresenza di autore e modella nuda, con tutte le sue implicazioni erotiche, c’è in pittura proprio come in fotografia, la fotografia me la focalizza molto di più, perché coglie – per la sua stessa natura produttiva – esattamente quell’attimo in cui la relazione erotica di sguardo si produce, e di conseguenza riproduce nel clic per la futura fruizione. Una fruizione a cui l’identità di sguardo è inevitabilmente presente, potendo evocare, per questo, in maniera sineddochica, anche altre qualità della presenza: le sensazioni tattili (l’aria, la sabbia), olfattive e uditive, oltre a quelle psicologiche della vicinanza.

Se osserviamo adesso le due figure femminili ritratte da Tiziano e da Goya, ci possiamo accorgere con facilità che il loro sguardo è rivolto verso di noi. Questa è una situazione molto studiata dalla semiotica della pittura, e in particolare dalla teoria dell’enunciazione: lo sguardo della figura rivolto a noi ci mette in gioco, ci rende destinatari di un discorso di sguardi. E se il tema dell’immagine è erotico, questo sguardo è una inequivocabile chiamata in gioco.

La ragazza della foto di Weston invece non ci guarda. Appare immersa in sé, nel proprio piacere, richiamato anche dalla posizione delle gambe. Ma non ci guarda anche perché non ha bisogno di guardarci: infatti, poiché questa è una foto, è già implicato in essa uno sguardo che è quello del fotografo che coincide con il nostro. Se la modella ci guardasse (come peraltro succede in tante altre foto, anche di tema erotico) l’effetto sarebbe quello – molto più forte – di un incrocio di sguardi.

Ma a Weston non interessa un coinvolgimento erotico così forte. La bellezza delle sue foto sta in questa irrisolvibile oscillazione tra una comunque conturbante presenza erotica e una costruzione formale che rimanda a quelle della pittura, e che ha imparato da Stieglitz, cercando di arricchirla di elementi nuovi.

Quanto alla sabbia, e al suo valore, c’è, e sicuramente contribuisce alla sensazione di abbandono della modella. Ma la sabbia è anche un operatore di costruzione di forme, come si vede bene dall’accostamento di queste altre due foto (qui sotto) che provengono dalla stessa serie “Oceano” del 1936. Le curve delle dune della prima foto rinviano alle curve della modella nella seconda, e viceversa. L’erotismo si carica di un senso panico, di rimando alla natura. E anche la vicinanza fonetica (un facile anagramma) di dunes e nudes ha forse parte in questo.

 

 

Edward Weston, Dunes. Oceano, 1936

Edward Weston, Dunes. Oceano, 1936

 

 

Edward Weston, Nude. Oceano, 1936

Edward Weston, Nude. Oceano, 1936

 

Naturalmente anche per quest’ultima immagine c’è un riferimento classico. Ed eccolo qui sotto. (E pure qui lo “sguardo in macchina” della pittura scompare quando la “macchina” è davvero presente)

 

 

Diego Velazquez, Venere allo specchio, 1644

Diego Velazquez, Venere allo specchio, 1644

 

 

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di Daniele Barbieri

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